Io lavorerò

18 Marzo 2014

Ho arrischiato il mio ingresso nel mondo del lavoro nel settembre del 2004, saranno quindi dieci anni tra poco. Già allora il lavoro culturale era per pochi: a nessuno sembrava interessare la mia tesi di laurea sulla governance dei musei italiani, tranne, così parve, alla galleria d'arte di Roma presso la quale riuscii ad ottenere uno stage.
“Quanto ti danno?”, mi chiese mio padre.
“Babbo, non essere volgare, non di solo pane vive l'uomo.”
“Quindi devo mandarti il bonifico anche questo mese?”
Comunque sia, le mie aspettative furono deluse, e fu un'esperienza molto breve e scoraggiante; così quando, mesi dopo, mi accorsi che al posto della galleria avevano aperto un'agenzia immobiliare per ricconi, non mi rammaricai più di tanto.

Oltretutto avevo subito trovato un altro stage, questa volta in un'istituzione che si occupava di scambi culturali tra i Paesi del Mediterraneo, quindi mi sentivo felice; vuoi mettere la soddisfazione di parlare in inglese e francese con professori universitari libanesi?
“Ma quanto ti pagano?”, insisté mio padre.
“Babbo, non essere volgare, non lo sai che la cultura non ha prezzo?”
“Quindi devo mandarti il bonifico anche questo mese?”
Più o meno alla sesta ripetizione di questo dialogo mi scocciai; in fondo mi ero laureata in Economia aziendale, seppure con un indirizzo artistico-culturale, quindi iniziai a inviare il curriculum anche ad aziende potenzialmente in grado di pagarmi uno stipendio.

Ad aprile (che, ricordiamolo, è il più crudele dei mesi) iniziai la mia esperienza nel mondo della Consulenza Direzionale.
“Anche se, faccio per dire, alle cinque hai finito, devi restare qui almeno fino alle otto”, fu il primo insegnamento della mia collega Veronica, forte dei suoi sei mesi di anzianità aziendale.
“Finché sei in prova vedi di venire pure se hai la febbre o se ti è morto il nonno, altrimenti l’indeterminato non te lo faranno mai”, aggiunse Filippo, che, pur essendo all'apparenza una persona normale, resisteva misteriosamente lì dentro già da tre anni.

 

Furono mesi di trasferte a Borgomanero, a Pescara o anche solo in stabilimenti eretti da qualche parte in mezzo al nulla oltre il Grande Raccordo Anulare; e sempre, rigorosamente, in tailleur pantalone e scarpette col tacco.

 

Rammento con particolare affetto il manager che alle dieci di sera, senza smettere di scrivere formule di dieci righe sul suo foglio Excel, infilava battute a sfondo sessuale come se fosse stato nello spogliatoio del calcetto, e un altro che ogni mattina si faceva spolverare la scrivania da una delle sue collaboratrici – mai dai collaboratori, ça va sans dire.

 

Era un microcosmo alienante in cui la stragrande maggioranza dei miei colleghi gareggiava a chi facesse più tardi in ufficio la sera, e la massima aspirazione di tutti era la promozione a Senior, per arrivare alla quale si era disposti a compiere le peggiori nefandezze.
Durante il secondo anno trovai finalmente un soggetto non allineato, tal Dario Esposito, che, come me, era lì praticamente per sbaglio.

 

La sua forma di rivolta era scrivere elogi funebri in onore dei nostri superiori, per poi inviarli via e-mail ai colleghi meno disumanizzati. Ricordo ancora l'inizio del coccodrillo che dedicò al nostro capo, uno che sembrava sempre appena tornato da una vacanza alle Seychelles: “E' deceduto ieri, nel corso di una sfortunata doccia solare, Federico Zanzi, manager squalo di una nota multinazionale fabbricasoldi di schiavoconsulenza. I sottoposti tutti lo piangono, nel ricordo della sua totale assenza di qualsivoglia senso morale, nonché della sua portentosa capacità di operare come un'agenzia di lavoro interinale.”

 

Dario coltivava il sogno di scrivere un libro sulla consulenza aziendale, che sarebbe stato senz'altro un best seller; a un certo punto, però, trovò lavoro in banca dalle parti di casa sua, in Sicilia, e purtroppo temo che il progetto sia naufragato. Non molto tempo dopo anche io riuscii a farmi assumere altrove, con un orario di otto ore – reali – al giorno.

 

I miei attuali colleghi hanno quasi tutti almeno una ventina d'anni più di me, come in una crudele oggettivazione del fatto che alla mia generazione, a quella precedente, per non parlare di quella successiva, il mondo del lavoro tutelato pare essere precluso; a questo si aggiunge il ricorso sistematico e pervasivo alla raccomandazione come mezzo per accaparrarsi un posto di lavoro qualsiasi, e l'impressione finale è che gli ultimi venti anni e più di politica spettacolo, totalmente priva di contenuti, li stiano pagando coloro che, quando tutto è cominciato, spesso non avevano neanche l'età per votare.

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