Speciale
Freelance ieri, oggi e domani
Non sono una freelance, ma ne conosco moltissimi. Uno di questi freelance che conosco è mio padre. Lo è ininterrottamente dal 1978, anno in cui ha lasciato un impiego a sua detta “da suicidio” in un’assicurazione e ha iniziato a esercitare come avvocato. Mio padre ed io viviamo in città diverse, quindi gli ho fatto un’intervista telefonica.
“Ciao, amore, come stai?”
“Ciao, babbo. Sto bene, ma ti ho chiamato perché devo chiederti delle cose sul tuo lavoro per un pezzo che devo scrivere. Tanto per cominciare, sei consapevole di essere un freelance?”
“Fri che? Possiamo parlare in italiano?”
“Ce l’hai la partita IVA?”
“Certo, se no come farei a emettere le fatture?”
“Ecco, veniamo subito al dunque: ma queste fatture, poi, te le pagano?”
“Eh?”
“Intendo dire, ti è mai capitato che una fattura non ti venisse saldata?”
“Eccome.”
“E cosa hai fatto?”
“Beh, di solito faccio fare un decreto ingiuntivo.”
“E funziona?”
“Non sempre.”
“In questi anni quante volte ti è successo di non riuscire a essere pagato?”
“Mah, almeno sei o sette.”
“Sei o sette volte in trentasette anni mi pare ragionevole.”
“Se lo dici tu.”
“Hai mai desiderato di essere un lavoratore dipendente?”
“Per carità. Sono insofferente alla gerarchia.”
“E il fiato sul collo della concorrenza si fa sentire?”
“Quando ho iniziato eravamo iscritti in meno di cento all’albo della provincia; ora siamo circa ottocento.”
“Quindi devi lottare per tenerti stretti i tuoi clienti?”
“Non proprio: alcuni vengono da me da venti o trent’anni, e poi arriva ancora gente nuova con il passaparola.”
“È molto bello, soprattutto considerando che sei un divorzista.”
“Ultimamente, per risparmiare, la gente non divorzia più molto.”
“Sarà contento il Papa. E dimmi, tu scarichi tutto?”
“In che senso?”
“Tipo, quando vai a cena fuori con gli amici fai fare la fattura a nome tuo e poi la dai al commercialista?”
“No.”
“Pensi che per i ragazzi che iniziano ora sia tutto più difficile?”
“Certo. Siamo troppi, ormai. Io a trent’anni avevo già il mio studio e potevo permettermi di pagare una segretaria, mentre ora i giovani colleghi fanno la fame.”
“Un’ultima domanda: quando pensi che andrai in pensione?”
“Ah ah ah.”
Le risposte di mio padre non mi hanno convinta del tutto. Voglio dire, lui viene da un’epoca in cui i freelance si chiamavano ancora liberi professionisti. Allora, per sicurezza, ho telefonato alla mia amica Cristina, che è avvocato anche lei, ma nel 1978 ci è nata.
“Pronto, Cristina?”
“Oh, ciao.”
“Ma perché bisbigli?”
“Scusami, è che non posso farmi beccare mentre parlo al cellulare in orario lavorativo.”
“Veramente il mio orologio segna le ventuno e quarantasette.”
“Appunto. Ti richiamo quando esco.”
Verso mezzanotte, quando sono già in pigiama sotto le coperte, il telefono squilla. Rispondo soffocando uno sbadiglio.
“Dimmi”, fa Cristina, vispa come un grillo.
“Sto scrivendo un pezzo sui freelance”, spiego.
“Interessante. E perché lo vieni a dire a me?”
“Beh, tu hai la partita IVA, no?”
“Certo. Ma la fattura la faccio al titolare dello studio per cui lavoro.”
“È il tuo unico cliente?”
“Più che un cliente è un negriero. Come vedi, lavoro circa quindici ore al giorno. Anche volendo, non avrei il tempo per prendere clienti miei; cosa che, comunque, dovrei fare di nascosto.”
“Capisco. E ti pagano bene?”
“Non direi. Con la scusa della crisi, l’anno scorso ci hanno tagliato gli stipendi del venti per cento. Ed erano già piuttosto bassi. Dividendo il mensile per le ore lavorate credo che otterrei che la signora delle pulizie che abbiamo a studio ha una paga oraria più alta della mia.”
“Preferiresti lavorare in un’azienda?”
“Magari! Di fatto sono una lavoratrice dipendente, ma non ho tutele di nessun tipo e possono buttarmi fuori quando vogliono. Sai quanti avvocati disoccupati ci sono a Roma, che sarebbero pronti a prendere il mio posto?”
“Non lo so: quanti?”
“Siamo più di ventimila iscritti all’albo. Secondo me, là in mezzo, qualche aspirante al mio posto si trova.”
“Un’ultima cosa: quando pensi che andrai in pensione?”
“Ah ah ah.”
Poi è caduta la linea.