Italo Testa e la lezione dell'ailanto
Italo Testa insegna Filosofia teoretica all’Università, ma è decisamente un poeta. La prosa del suo libro di riflessioni è infatti una composizione di strofe, di sequenze metriche, intercalate di spazi bianchi, di versi propri o altrui, di traduzioni, di fotografie. Non solo: lo scopo autentico del libro in prosa di Testa è quello di funzionare come la poesia, nella sua isonomia, o isocronia, con il mondo contemporaneo.
Devo spiegarmi, anche perché l’opera di Testa non è affatto criptica, non è affatto una “defence of poetry” vergata in toni esoterici o idealizzanti, anzi, è l’esatto contrario.
L’autore vuole decolonizzare l’immaginazione dall’impronta negativa che le è stata lasciata dal moderno. Dice: «Martha Nussbaum ha incluso l’immaginazione nella lista delle capacità umane fondamentali: capacità il cui sviluppo integro è condizione del benessere individuale e dovrebbe essere garantito dalle istituzioni pubbliche». Siamo, senza remore, senza freni, nel campo dell’utopia. Ora, l’utopia è pericolosissima: dallo scorso secolo abbiamo compreso come poche visioni siano saturanti, assolute, come le salvazioni collettive, l’edificazione del socialismo, il Reich del Millennio, ecc. Ma nella presente condizione umana di utopia realizzata virtualmente (mi rendo conto che si tratta di un ossimoro, ma è la nostra vita), lo scarto laterale che la poesia-immaginazione assicura può portarci, secondo Testa, a ritrovare uno «spazio di indeterminazione produttiva».
Bisogna uscire, allora, dalla semplice denuncia dei guasti contemporanei, dalla nostalgia ancora umanistica di una centralità perduta. Occorre piuttosto accogliere in sé le possibilità aperte dal contagio tra Prima Natura (boschi, aree protette, incontaminate) e Natura Seconda, gli imponenti manufatti umani che “segnano il sereno”, come direbbe Pascoli, sporcano il mondo col loro essere già da subito rovine e residui dell’utile. Testa parla di “terzo paesaggio”, di «paesaggio ibrido», di «impurità»: l’insieme dinamico tra erosione e ricrescita, tra uso che si vorrebbe esclusivo e inattesa intrusione dell’alieno. Fa l’esempio dell’ailanto, una specie vegetale portata dalla Cina in Occidente, forse in modo accidentale, e ora endemica, interstiziale. «Il punto focale – scrive – non è tanto la marginalità di tali luoghi quanto il loro carattere sorgivo»; e aggiunge: «è interessante come così possiamo in qualche modo rovesciare un’immagine dominante del modernismo, o se vogliano, un certo tipo di lettura nullista del moderno. La waste land non è solo, e non tanto una landa desolata, un insieme di frammenti ormai privi di vita, spogli di senso, che possiamo solo puntellare. La waste land è piuttosto un incolto, un terreno in abbandono, dove sotterraneamente, secondo logiche che ci sfuggono, si producono forme ibride, germina il nuovo, il mondo a venire».
Se c’è un bersaglio polemico, infatti, nel libro di Testa, è senz’altro il furto di futuro che ci è stato inferto dalla presentizzazione assoluta da parte del neo-capitalismo. Se alcuni credono che la Terra sia piatta, tutti noi abbiamo perso la prospettiva, che è memoria e proiezione. Ma se riuscissimo, dice Testa, a riattivare la facoltà poetica come tensione verso l’individuo, ad articolare la nostra immaginazione nei confronti di quella “democrazia del vivente” che include persone, animali, piante, oggetti, “resti” e “angoli” desueti (e così rapidamente tali), approderemmo a una nuova vastità, contestando la condanna all’obsolescenza e all’emorragia.
Con rigore e slancio, Testa lotta strenuamente contro il negativo, contro il nichilismo di chi – a partire dal Secondo Ottocento – ci ha potuto dire soltanto chi non siamo e cosa non vogliamo. Lo stesso Leopardi, che opponeva Islandese e Natura, come se essi non fossero la stessa cosa, va superato nelle sue dicotomie, perché non c’è differenza tra madre e matrigna: il mondo è una metamorfica, fruttuosa decadenza, è uno snidarsi continuo di sentieri divergenti. Come analogia poetica, allora, è meglio la ginestra, perché è anch’essa un arbusto piuttosto infestante e apparentemente incongruo, ma in verità decisamente appropriato al luogo in cui insorge. Tutto sta a forzare l’ostruzione mentale che ci sottrae all’apertura speranzosa, all’incontro concreto, all’incedere verso la «materia sognante». E quell’incedere, sintetizza Testa, è proprio la poesia, ritmo, scarto e vertiginosa individuazione di istanti, vissuti, visure.
Tuttavia, in questa ampia amicizia con l’indeterminato, la “Poesia” può essere a sua volta un nemico insidioso. Basta considerarla, come fanno molti storici della letteratura o della cultura, una regina decaduta, un’antologia di forme eccellenti, un museo archeologico che fatica a rinnovare le etichette da porre accanto ai reperti. Oggi nulla è più al centro, ribatte Testa, dunque è futile parlare di marginalità. E se la “Poesia” è solo una compianta «essenza fissa, invariante», bisogna contrastarla con tutti i mezzi. Contro la poesia s’intitola infatti l’ultima sezione del libro, che invita a vivere e scrivere «quasi la poesia non avesse ancora avuto luogo». È necessario riprendere il celebre interdetto di Adorno («scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie») e assumerlo come paradossale bussola destabilizzante: solo una poesia barbara sarà in grado di abitare propriamente il mondo nella sua complessa e inattesa figuralità, senza farsene estraniare da tutte le forme di “alienazione controllata” che subiamo. Testa è ben conscio che l’entusiasmo per la poesia è a sua volta un fenomeno “pop”, avverte il «pericolo di integrazione, di normalizzazione della poesia». Per questo termina le sue note parlando di «critica della poesia», di «un fascio di pratiche, non riducibili ad unum», per fuggire da ogni forma di aulica sclerotizzazione come dal suo opposto illusorio, la confusione indiscriminata, narcisistica.
A mo’ di commento, posso aggiungere che solo chi possiede una mente filosofica e critica può permettersi di dismetterla. Il ritmo e l’immaginazione, come anche la “giustizia poetica” nei confronti dell’esistente, sono frutto di una devoluzione, di una dimenticanza, raffinatissime. Autorizzare la speranza, come dice il titolo, significa pur sempre renderla autoriale; e solo un autore fa tesoro delle proprie rinunce, acquista il rovescio verbale di ciò che perde. È questo, semmai, che deve renderci perplessi – magari solo per un attimo – davanti al “fascio di pratiche”: l’incubo contemporaneo è proprio quello di non sapervi distinguere la massa delle produzioni seriali, consolatorie o provocatorie fa lo stesso, che piuttosto ha autorizzato, con molte ragioni, la disperazione. Il libro di Testa è bello e importante: è al tempo stesso sanamente smitizzante e necessariamente mitico. Ha il pregio di una chiarezza aperta e testarda, di una coordinazione logica piena di derivate, di radure, di feritoie. Non so quanti poeti riusciranno a detestare la poesia, per viverla amorosamente come “massimo conduttore” verso il regime impareggiabile delle cose.
Italo Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Interlinea 2023.