Kronos: malintesi sulla musica
La lettura di Il pasto di Kronos. Antidoti a un’aporia analogica (Zacinto Edizioni/Biblion edizioni, Milano 2023) sulla musica e sul suo ascolto scritto da un musicista – Francesco Rampichini – ma pensato per lettori appassionati anche non specialisti, è felicemente spiazzante: si tratta di un testo che critica radicalmente molti luoghi comuni sulla musica, talmente diffusi da apparire evidenti.
Il libro affronta il tema dei rapporti tra musica e linguaggio, sostenendo la tesi che essi hanno un’origine comune e condividono un apparato prosodico originario, ma che i loro ambiti si distinguono al punto che non si può comprendere la musica con le logiche del linguaggio. Si tratta di luoghi comuni divulgati, secondo l’autore, anche da grandi interpreti che li avallano con il loro prestigio. Proprio per questo – per consentire un’esperienza della musica più critica e libera da “malintesi” – l’autore si propone di uscire dall’ambito della “professione” per rivolgersi a un pubblico ben più vasto senza rinunciare al rigore argomentativo.
Gli “antidoti” del sottotitolo si riferiscono al tentativo di diradare la selva di clichés e preconcetti sulla natura dei rapporti tra musica e linguaggio che non ne chiariscono ma anzi ne offuscano il senso.
Il luogo comune secondo cui la musica sarebbe, appunto, un “linguaggio universale” contiene per l’autore due errori: «primo, non è un linguaggio, secondo, non è più universale del cinese mandarino (…). Musica e linguaggio hanno in comune aspetti metastrutturali, ma non natura». (p. 9)
La semplice metafora “la musica è un linguaggio” è diventata uno stereotipo, una sorta di dogma fuorviante. Nella musica, sostiene l’autore, troviamo certamente gli apparati d’una prosodia, ma a monte del linguaggio. L’analogia tra musica e linguaggio è dunque una “pista aporetica”.
La riflessione sul rapporto tra i due ambiti dipende dalla definizione che si dà sia della musica sia del linguaggio. Se “linguaggio” è un sistema simbolico che trasmette significati – secondo una tradizione che va da Aristotele a Noam Chomsky – secondo l’autore la musica non veicola significati ma campeggia come una presenza risolta in sé.
La pluralità delle codificazioni etnoculturali l’allontana poi da una pretesa universalità, dato che i sistemi musicali sono estremamente differenziati e vanno decodificati in base a tali differenze.
Il libro contesta dunque soprattutto l’idea, che Rampichini ritiene non euristica, secondo cui la musica sarebbe un linguaggio universale: questa lettura, che potrebbe apparire una valorizzazione – attraverso il tema della universalità – confina la musica o meglio la fruizione della musica nel semplice piano emozionale, di presunte emozioni condivise. Cultori e appassionati dissertano di emozioni, suggestioni, affetti, ma per accedere al senso profondo dell’esperienza musicale il páthos non basta.
L’autore – compositore, esecutore, insegnante di musica in varie istituzioni – ha, insieme ad amici complici dello stesso percorso, come l’architetto Ettore Lariani, innovativamente ideato «l’acusmetria, il codice delle rappresentazioni geometriche nella rappresentazione acustica della prospettiva spaziale». Isolando il suono dal contesto visivo lo propone come fenomeno a sé, potremmo dire nella sua materialità. In un capitolo alla fine del libro, “in margine all’arte” egli distingue l’“artista” che conduce a perfezione ciò che sa, per lui Michelangelo e Mozart, dal “creatore” che «conduce a perfezione ciò che non sapeva di sapere», a suo parere Picasso e Schönberg (p.115). Francesco Rampichini ha dunque fatto il percorso inverso rispetto a quello di Theodor W. Adorno, un filosofo che si è misurato con la composizione, e affronta con strumenti filosofici i contenuti della pratica artistica musicale.
Io che scrivo questi suggerimenti ai lettori ho competenze professionali e un “mestiere” ben diversi da quelli dell’autore, di storica sociale dei mondi del lavoro europei. Se mi permetto di consigliare ai lettori di intraprendere questo percorso è proprio perché questo testo è complesso ma suscita una riflessione innovativa che impone un corpo a corpo con l’ascolto della musica e una riflessione critica che riguarda tutti e tutte.
Secondo Rampichini, da una parte la musica richiede – esattamente come il linguaggio che i bambini apprendono a usare in forma orale e scritta in anni di formazione – uno specifico apprendimento non solo per chi la pratica ma anche per chi l’ascolta. D’altra parte, mentre il linguaggio comunica contenuti altri da sé, la musica è anche esperienza corporea.
Ascoltare la musica significa decodificarne il fenomeno. Ma se la musica non è un linguaggio universale, la parola può essere fruita e percepita come elemento musicale – e qui l’autore manifesta conoscenze scientifiche sui processi percettivi che non possiedo e per cui rimando alla lettura diretta del testo.
Rampichini affronta senza deprecazioni “aristocratiche” ma con rigore il tema non tanto o non solo del rapporto fra musica “leggera” e musica “colta” ma fra diversi modi di ascolto di qualsiasi musica: un tema anch’esso così diffuso da essere popolato di luoghi comuni. L’autore invece sottolinea che ciò che conta non è solo e nemmeno soprattutto la musica che si ascolta ma la postura che si assume nell’ascolto. «Per gran parte delle persone la musica è poco più di un sottofondo … Per un musicista o un ascoltatore iniziato è invece un’occupazione attiva che richiede intenzione, prospettiva, immaginazione». (p. 43)
L’homo sapiens costruì i suoi primi strumenti musicali oltre quarantamila anni fa, ben prima della nascita di qualsiasi linguaggio. Alla domanda sempre riproposta “cos’è allora la musica?” il testo che qui presentiamo risponde: una via sensoriale per esperire la logica, e una via logica per esperire la sensorialità. «Una via però che esige metodo, meta (oltre), odós (via). Una via che porta oltre». p. 11
Senza espliciti rimandi sociali dunque Francesco Rampichini suggerisce un rapporto con la musica che costituisca e alimenti un rapporto critico con il sociale e in definitiva con il mondo.