Speciale
La madre di tutte le danze
Perché l’Africa? Da parecchi anni lettera27 si dedica all’esplorazione di temi legati al continente africano e con questa nuova rubrica vogliamo aprire un dialogo con i protagonisti culturali che si occupano dell’Africa. Qui potranno esprimere opinioni, raccontare storie, stimolare il dibattito critico e suggerire idee per ribaltare i tanti stereotipi che circondano questo immenso continente. Ci piacerebbe aprire con questa rubrica nuove prospettive: geografiche, culturali, sociologiche. Creare stimoli per imparare, per essere ispirati, ripensare e condividere conoscenze.
Elena Korzhenevich,
lettera27
Qui l'articolo introduttivo della serie: Why Africa?
Questo testo è dedicato alla memoria di Didier Schaub
“Perché l’Africa?” Davanti alla domanda, il primo impulso è stato quello di imitare l’attore americano che recita nella pubblicità del caffè, e rispondere: “What else?”. “Cosa, altrimenti?”
Sono figlio di Lydia e Simon, due eroi bassa. Sono il prodotto di questi due esseri appartenenti a un popolo costretto a combattere per la propria libertà; due figli dell’Africa. Perciò: cos’altro? Cos’altro se non questa terra di ombre e fantasmi che aspettano di essere rivelati? Cos’altro, oltre ai milioni di storie che aspettano di essere raccontate? Oltre alle storie che leggevo a mio nonno senza capirle davvero, ma catturato dal mistero dei libri, capaci di racchiudere tra le pagine interi mondi? Guerre, meraviglie, popoli, amore, ira, il tutto tradotto nella sottile magia delle parole.
Conrad non sapeva quanto aveva ragione quando chiamò questo continente il cuore di tenebra. Non sapeva di quale tenebra si trattasse in realtà, e trovò la parola giusta grazie a un equivoco.
Che cosa diciamo quando diciamo “Europa”, o “Africa”? Ci sono persone che, con “Africa”, sono convinte di dire qualcosa di preciso: le ammiro, perché io ancora non so che cosa sia “l’Africa”, e dico “Africa” sapendo che se cercassi una definizione capace di calzare a pennello la complessità del continente mi troverei perso in un limbo. Proprio come l’uomo che venne da me durante la mostra Africa Remix, convinto di sapere che cosa fosse l’Africa, e mi accusò di essere un provocatore perché avevo invitato alcuni artisti provenienti dall’Egitto, la Tunisia, il Marocco. Mi limitai a mostrargli una mappa dell’Africa pubblicata dall’Istituto geografico di Francia. Mi lasciò in pace, ma sono sicuro che quella sua idea distorta non è cambiata.
Il punto oltre cui non siamo più in grado di riconoscere quello che pensiamo di sapere coincide con il momento in cui perdiamo la presa sulla realtà sensibile e la trasformiamo nella nostra realtà personale. Il regno del linguaggio è il regno dell’esperienza e il regno dell’esperienza è il regno della percezione. E il corpo, in quanto visibile, è apparenza, ed è fonte di equivoco per questo. Anziché volerlo situare ad ogni costo in una geografia data, rischiando di cadere nella trappola del pregiudizio, dovremmo provare a considerarlo come una pagina bianca, una maschera, una traduzione.
Potrei decidere, per citare Bili Bidjocka, che “io sono l’unica donna della mia vita”. Questa diventerebbe la mia realtà, la mia storia, la mia presa di posizione, e nessuno avrebbe il diritto di negarlo. Potrei dire di essere peruviano, o qualsiasi altra cosa io voglia essere. Perché non un uccello? Le parole possiedono qualcosa di cui il corpo è privo: la facoltà di trasformare quello che vediamo in qualcosa d’altro. È per questo che tendiamo a credere alle loro bugie. In principio, dice la Bibbia, fu il verbo. Ma persino il verbo richiede una certa padronanza. Affermare di essere specialisti in una qualche disciplina non basta per riuscire a convincere un uditorio. Non a tutti è dato di essere buoni narratori. Incrociamo di continuo il cammino di questi “specialisti”. Arrivano sventolando il loro curriculum come una bandiera e spiegando che lavorano da trent’anni su, poniamo, il Camerun. Hanno pubblicato molti libri e si considerano un’autorità in materia. Appena scoprono che io sono di origine camerunense iniziano a tenermi la loro lezione sul Camerun. Ma che cosa possono significare, per me, i loro trent’anni di studi, se confrontati con la mia memoria? Con questa memoria che è racchiusa nel mio corpo e mi racconta storie che non si trovano in nessun libro? Il corpo è un’ombra perfetta. È l’oggetto che crediamo di vedere quando, di fatto, non abbiamo idea di che cosa significhi in realtà.
Sono molto sensibile alla luce. Lavoro in penombra e cerco di dare forma alle ombre. Non contorni, forme. È questa, fra l’altro, la mia idea di mostra. Tra il progetto di partenza e la mostra allestita c’è quella strada complessa che porta alla produzione di una realtà concreta. Si può dire lo stesso per ogni altra forma d’arte. L’idea dell’ombra mi piace perché ha a che fare con un invisibile che è ancora presente. Le ombre non sono assenti, ma nascoste, inafferrabili. Quando le vedove di plaza de Mayo si riunivano per chiedere la liberazione dei loro cari arrestati dalla dittatura erano in una condizione di intima comunione con quegli uomini scomparsi (los desaparecidos). Sting ha cercato di descrivere quel che stavano provando in una bellissima canzone, Dancing with the missing. Il protagonista del romanzo Il bevitore di vino di palma di Amos Tutuola si trova in modo analogo alla presenza degli spiriti (ghost) quando decide di andare nella città dei morti per ritrovare il suo spillatore di vino di palma. La stessa parola viene ripresa nel termine ghostwriter, che designa chi realizza nell’ombra un lavoro che non gli verrà mai attribuito. Ed è interessante notare che ghostwriter, in francese, si traduce con nègre, che significa “negro”.
Simon Njami. Photo David Damoison
Non possiamo, a questo punto, non ricordare Uomo invisibile, di Ralph Ellison, in cui lo scrittore afroamericano descrisse l’esistenza negata della popolazione afroamericana all’epoca della segregazione. Anche Vito Corleone, il protagonista de Il padrino di Francis Ford Coppola, a suo modo è invisibile. Ma nel suo caso l’invisibilità significa potere. Agisce nell’ombra, facendo offerte che le persone non possono rifiutare. Usandole come un burattinaio usa le sue marionette. Senza mettersi in mostra, anzi nascondendosi, per farci credere che i suoi pupazzi godano di vita propria.
Mi piacciono le forze nascoste. Le forze che non si possono afferrare né descrivere hanno sempre stimolato la mia immaginazione come qualcosa che appartiene al regno delle sensazioni o dell’intuizione. Per un curatore, uno scrittore, un artista, si tratta di una posizione ideale. È Santu Mofokeng, il fotografo sudafricano, che si imbarca nella missione inverosimile di “Rincorrere le ombre” (Chasing Shadows).
Penso che le ombre siano il cuore di ogni tentativo artistico di rivelare l’invisibile. Penso a Hegel, quando afferma che la conoscenza sensibile è la più ricca ma anche la più imperfetta, perché non può essere compresa con l’intelletto (F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. It. V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 169.). La cosa che mi sembra interessante è che questa definizione potrebbe calzare alla perfezione su quella che chiamo “shadowiness”, lo “stare nell’ombra”. Le storie sono cose immaginate che diventano reali, come scrisse Boris Vian nella prefazione al suo romanzo La schiuma dei giorni: “questa storia è vera, dall’inizio alla fine, perché l’ho inventata, dall’inizio alla fine”. È questo che mi piace delle storie. Le storie sono pura invenzione, piccoli aggiustamenti che operiamo sulle nostre vite. Rappresentano la traduzione perfetta che ci permette infine di decifrare il significato di un’ombra.
Ma cerchiamo, a questo punto, di rispondere alla vera domanda che ci riguarda: “Che cos’è l’Africa?”. Posso proporre che l’Africa è un’ombra. Un’invenzione che investiamo delle nostre emozioni, idee e preconcetti. L’Africa non si può mostrare, è ciò che senza poter essere mostrato è presente come un’evidenza, come suggerisce James Baldwin nella raccolta di saggi dal titolo L’evidenza delle cose invisibili.
Ciò che le storie permettono di fare è parlare di momenti, idee e sentimenti che sono invisibili; creare una forma di pluralità, di “essere noi”, che supera ogni confine. Quando un narratore parla, è al centro del gioco. Lo vediamo e sappiamo che sta creando un mondo di fantasia. Sta ricordando, e, nel ricordare, crea. All’ascoltatore non si chiede di essere d’accordo, ma di credere. Una storia non è diretta al nostro cervello, ma al nostro io più intimo. Ogni volta che sento dire “c’era una volta”, vengo catturato. Recupero quei momenti magici della mia infanzia in cui non esisteva una realtà a cui sottostare. Un territorio di libertà e di oblio. Sprofondo. Se il narratore è bravo. Se il suo sguardo ha il potere di diventare il mio. Ricordo che in Camerun le favole iniziano sempre con uno scambio tra il narratore e il suo pubblico: a ginglayè!, esclama il narratore, e il pubblico risponde: wessé! Il narratore conclude poi la sua introduzione rituale con le parole: mi ang mi lam (belle storie), mi ntebek di Benguè (le bugie d’Europa).
Ci sono, è ovvio, diversi modi di raccontare una storia, e le immagini suggerite non possono venire alla luce senza uno sguardo che dia loro forma. Ma che cos’è uno sguardo? Qualcosa che organizza il mondo in base a una determinata persona. È un corpo – come suggerisce il “c’era una volta” –, che diventa personificazione del tempo. Potremmo smettere di usare l’espressione “punto di vista” e sostituirla con “punto del tempo”, perché il modo in cui definisco il mio tempo non ha niente a che fare con la semplice facoltà di vedere. All’Avana, un amico arrivato tardi a un appuntamento fece una battuta a proposito del “tempo di Cuba”. Si fanno battute simili anche sul tempo in Africa. Ma quel giorno non mi andava di lasciarmi invischiare in visioni del tempo che non avevo scelto. Così ho tolto la maschera africana, la più visibile, e ho indossato quella svizzera. Quella che mi permette di giocare con le percezioni e le dimostrazioni. Era un gioco epistemologico in cui mi avventuravo con grande piacere. Tempo, maschere, apparenze… potevo scomparire quando volevo, e riapparire in una forma nuova. Come uno spirito. Come un’opera d’arte, che racchiude sempre una molteplicità di significati.
Quando si parla di vedere o sentire è come se si parlasse di leggere. Siamo esseri composti di molte cose diverse, e sono queste cose che informano circa il nostro sguardo e il modo in cui ci raffrontiamo alle nostre storie più private. La storia, in questo senso così particolare, può essere assimilata a una rovina, o a un insieme di rovine. Toshome Gabriel, studioso raffinato e che, per questa ragione, era più di un semplice narratore, ha dedicato alla memoria uno scritto brillante, in cui proponeva che la memoria andasse considerata nello stesso modo in cui si guardano le rovine. L’esempio di cui si serviva per illustrare la sua idea, – che forse era inventato e forse no, non fa molta differenza – è una splendida metafora filosofica. Parla del libro che aveva cambiato la sua vita quando aveva diciassette anni. L’esperienza fu così intensa che prese a leggerne brani ai suoi amici, per convincerli ad avventurarsi nello stesso viaggio. Trent’anni dopo, si imbatté nello stesso libro e lo rilesse. Lo riconobbe a stento: a stento poteva credere che quello fosse il libro che aveva cercato di far conoscere. Rimaneva solo un sentimento, uno stato d’animo, qualcosa che non poteva essere scritto, che solo lui poteva cogliere e che, ovviamente, nel corso della sua vita si era evoluto in qualcosa di totalmente altro. La trasformazione che aveva vissuto da ragazzo non poteva essere vissuta di nuovo. E quell’esperienza, che aveva cercato di condividere, probabilmente non poteva essere condivisa, perché era l’intima esperienza di se stesso.
Andrew Tshabangu, On sacred ground
Lo sguardo è la nostra posizione nel tempo e nello spazio. È quel che ci permette di leggere un libro e renderlo unico nel ricordo. Questa forma di ricordo potrebbe chiamarsi ombra, perché è composta di quell’insieme di elementi contraddittori che lo psicologo francese Henri Delacroix definì “il caotico mondo delle sensazioni”, a indicare che tutti condividiamo lo stesso caos interiore e ciò che chiamiamo linguaggio è lo strumento che può trasformare questo caos informe. Lo stesso caos può assumere forme diverse, secondo il linguaggio che si usa. Il concetto principale che il linguaggio porta in primo piano è quello di traduzione, e la cosa potente di questa traduzione è lo stile, perché per sua natura non può essere tradotto senza essere reinventato, proprio come una poesia o un gioco di parole. Se non si conosce il gioco di parole, non lo si può cogliere. Che cosa può fare quindi l’arte? Qual è la sua funzione nella costituzione di un ricordo e che tipo di rovine lascia dietro di sé? A quali rovine mi riferisco quando dico Africa?
Nel suo tentativo di definire, o semplicemente di cogliere che cosa fosse l’Africa, l’artista El Anatsui chiedeva tempo, che è sempre associato alla saggezza. Un tempo che, come nell’Aleph di Borges, possa contenere tutti gli altri; qualcosa che nessuno dei suoi interpreti potrebbe riconoscere interamente come proprio. “L’ultima volta che ho cercato di scriverti qualcosa sull’Africa, ho usato un foglio di carta pergamena intestata. La mia lettera era piena di spazi bianchi. Adesso posso riempire qualcuno di quegli spazi, perché sono invecchiato ancora un po’.” Ma mentre diventiamo più vecchi i nostri ricordi corrono il rischio di svanire. Di diventare forme indistinte, di diventare un insieme di memorie confuse che ricreano una realtà che forse, come propone Toshome Gabriel, non è mai esistita. Non possiamo, perciò, evitare gli equivoci, perché abbiamo a che fare con qualcosa di molto personale e intimo. Tendo a credere che il tempo sia una danza. E una buona danza deve essere condivisa.
Gli equivoci a cui ho fatto riferimento ci ricordano la nostra umanità e quella storia dimenticata che riposa nella mente di ognuno di noi. È questa la ragione per cui non mi piace il globalismo. Non possiamo ballare tutti una stessa danza creata da tutti nello stesso modo e sullo stesso ritmo. Quando persone diverse raccontano una storia, diventa una storia diversa. E di tutte queste storie abbiamo bisogno per forgiare la nostra. Odio il globale perché vuole dirmi che esistono un solo linguaggio e un solo modo di leggere il mondo. Amo il locale perché genera equivoci, e questi equivoci sono gli spazi interstiziali all’interno dei quali il dialogo può avere luogo. Abbiamo bisogno di questo spazio interstiziale che crea qualcosa di diverso e ci obbliga a dimenticare quello che pensiamo di sapere e prendere coscienza del fatto che non conosciamo davvero quel che sappiamo. Perciò, ogni volta che ci viene raccontata una storia, possiamo dire di crederci, ma ogni volta che raccontiamo una storia a noi stessi dobbiamo tenere a mente che si tratta di un’invenzione.
Jean-Paul Sartre descrisse ironicamente lo sguardo dell’uomo bianco mentre fondava le sue colonie africane, opponendo la luce e l’ombra: “il bianco ha goduto per tremila anni del privilegio di vedere senza essere visto; era puro sguardo, la luce dei suoi occhi traeva ogni cosa dalla sua ombra originaria, la bianchezza della sua pelle era uno sguardo ulteriore, luce condensata. L’uomo bianco, bianco perché era uomo, bianco come il giorno, bianco come la verità, bianco come la virtù, illuminava il creato come una torcia e rivelava l’essenza segreta e bianca degli esseri” (J.P. Sartre, Orfeo nero, trad. it. S. Arcoleo, Marinotti, Milano 2009). Da questa prospettiva, qualcuno potrebbe sentirsi libero di chiamare l’Africa “il cuore di tenebra”. Non dovremmo preoccuparci di questa tenebra, fintanto che la associamo con la magia dell’ombra, la magia del non visto che richiede necessariamente un’iniziazione per diventare intelligibile. Questa magia è racchiusa nelle parole dette, nel mistero del raccontare. Non aspira all’oggettività, al contrario di quella che chiamiamo Storia. La storia può soltanto essere rappresentata, e ogni volta che parlo dell’Africa la rappresento. E la mia rappresentazione, variando a seconda del pubblico ed essendo il frutto del mio incontro con l’“altro”, non è mai la stessa.
Faccio un sogno ricorrente. È notte, mi trovo in un bosco. Fa caldo, sudo. Comincia una strana musica. E sento i piedi, le braccia, la testa, il mio intero corpo presi dal ritmo. Chiudo gli occhi. Quando li riapro, vedo decine di forme che mi invitano a unirmi a loro. Vedo Guevara, Boris Vian, Pushkin, Cassiopea, la regina di Saba e la regina Nginza. Mi fanno dei cenni, li seguo. E balliamo.
E ballo insieme a mia madre. Ballo un valzer, come se fosse la prima e l’ultima danza mai danzata sulla terra.
Perché l’Africa?
Forse per via di questa danza, che è la madre di tutte le danze.
(Traduzione di Caterina Grimaldi)