La spia nel corpo di qualcun altro

9 Marzo 2016

Lo stile di spionaggio della CIA è ormai un’attività umana totalizzante. Comunque vogliate chiamarla – misurazione dell’audience, indagini di mercato e così via – tutti gli uomini sono arruolati come cacciatori in questa forma di spionaggio. (MARSHALL MCLUHAN, 1971)

 

Con l’uscita del primo romanzo di Fleming, Casino Royale (1953), seguito a distanza di qualche anno anche dalla sua prima riduzione cinematografica, la nuova immagine della spia è molto più definita, riconoscibile e dispone di una forte identità visiva rispetto al passato. È altamente connotata socialmente e culturalmente: incarna infatti la quintessenza dell’astuzia, del talento e dello stile britannico, esibito da un supereroe di origine scozzese, ma che ha sposato in pieno l’allora nascente modernità londinese. In tal senso Bond è quasi un’icona confezionata ad hoc per promuovere un certo tratto culturale a livello internazionale. Egli è l’esaltazione dell’eroe borghese che difende l’Occidente dai suoi nemici, è paladino delle virtù liberali nonché di uno stile di vita mondano e godereccio. La capacità disvelante di ciò che è nascosto, remoto, occultato, non riguarda soltanto la cospirazione globale di qualche società segreta, ma anche i processi che caratterizzano una civiltà avviata verso un consumismo sempre più massivo.

 

Una simile società votata ai valori promossi dallo stesso agente segreto come avanguardia del gusto e dello stile tende a occultare come suo crimine più intollerabile il mondo della produzione. In quale film hollywoodiano è rappresentato il processo produttivo in tutta la sua intensità? Solo in un posto: nei film di James Bond. L’agente penetra nella fortezza del suo avversario e allora vedi, sia che si tratti di produzione di droghe, sia di armi, che quello è l’unico posto oggi in cui puoi assistere al processo produttivo. Ovviamente la funzione dell’agente segreto consiste nel far saltare in aria, distruggere, reprimere ancora una volta il luogo della produzione (Žižek 2001). Per Žižek, nonostante incarni i sommi valori della società borghese, Bond si contrappone alla sfera produttiva a tal punto da renderla dapprima visibile agli occhi del pubblico di massa, attraverso un processo di svelamento, per poi farla saltare in aria in virtù dell’equazione “lavoro = crimine”. Si tratta dunque di un super-borghese – espressione di un controllo totalizzante della tecnica e dell’informazione sul pianeta, sui popoli, ma anche sulla natura, e che assomiglia antropologicamente alla super-élite che è giunta oggi a dominare il pianeta, scatenando una nuova lotta di classe dei ricchi contro le classi meno abbienti (Gallino 2012). 

 

L’alta definizione identitaria di Bond è sapientemente marcata dalla contrapposizione con nemici che invece risultano più opachi, meno definiti nelle origini e nella nazionalità, tendenzialmente ibridi nella natura e nello stile di vita. In un vecchio saggio degli anni Sessanta, ripubblicato in varie edizioni in Italia a all’estero, Umberto Eco ha evidenziato come gli antagonisti di 007 siano assimilabili per una serie di caratteristiche comuni: «Il Cattivo nasce in un’area etnica che va dalla Mitteleuropa ai paesi slavi, al bacino mediterraneo. Di regola ha sangue misto e le sue origini sono complesse e oscure; è asessuato oppure omosessuale o in ogni caso non sessualmente normale» (Eco 1965, p. 90). La sostanziale indeterminazione identitaria dell’antagonista, unita ad altri attributi negativi tra cui una «cupidigia elevata al rango di paranoia», marca i tratti della figura dell’eroe che invece esprime valori e abiti prettamente occidentali. Tuttavia, «alcune opposizioni assiologiche non funzionano solo nel rapporto Bond-cattivo, ma anche all’interno del comportamento di Bond stesso: così Bond di regola è leale, ma non disdegna di battere il nemico impiegando un gioco sleale, barando col baro, e ricattandolo (cfr. Moonraker e Goldfinger)» (ibidem). Questa ambiguità tipica dell’uomo spietato fu probabilmente colta dai commentatori al di là della Cortina di ferro, dove i film di Bond furono vietati fino al 1974 a causa del mix dirompente di sesso, violenza e consumismo. Tanto che Yuri Zhukov nel 1965 descrisse Bond ai lettori della “Pravda” come «un assassino fuori controllo e partigiano della violenza che protegge gli interessi della classe dei padroni: questo è l’eroe preferito della società borghese» (Albion 2005, p. 209).

 

 

Il paradosso della nostra epoca è che, da un lato, si riaffacciano i fantasmi di una nuova guerra fredda deideologizzata, e dunque una nuova ribalta per i servizi segreti di tutto il mondo, mentre, dall’altro lato, la globalizzazione del capitale e la concomitante penetrazione di Internet negli ambiti più reconditi della vita quotidiana delle persone, hanno totalmente diluito l’immagine della spia. Già nel pieno dello sviluppo del primo Web tale idea era suggerita dai protagonisti della new economy, capaci di creare un impero e di imporre uno standard monopolistico di utilizzo delle tecnologie facendo leva su un’immagine morbida e confidenziale, molto distante da quella dei vecchi yuppies degli anni Ottanta. Per questo ancora Žižek ha voluto instaurare un paragone tra i malvagi della saga di 007 e i nuovi padroni del mondo della net economy. Pertanto se «nei primi film di James Bond il genio cattivo era una figura eccentrica, vestita in modo stravagante o altrimenti con l’uniforme grigia del commissario maoista, nel caso di Bill Gates non c’è più bisogno di questa ridicola messa in scena – il genio del male si trasforma nell’individuo della porta accanto» (Žižek 1999). Ma la presunta malvagità di Bill Gates ha a che vedere con la sua capacità di dominare il mercato dei personal computer grazie all’affermazione di un sistema operativo diffuso universalmente. Il passaggio dal vecchio Web al Web 2.0 ha definitivamente smantellato qualsiasi barriera di separazione tra lo spazio pubblico e quello privato, sfruttando le reti di relazione, di emozioni e di esperienze nel tipo di mentalità che altrove ho definito come “neo-totalitaria” (Barile 2010).

 

Allo stesso modo il caso Snowden ha posto al centro di tale incredibile vicenda un esperto informatico che decide di tradire la NSA, organizzazione dentro cui ha prestato fedele servizio, per rivelare al mondo il complesso sistema spionistico attraverso cui gli USA hanno sorvegliato i potenti e i cittadini dell’intero pianeta. Tuttavia l’immagine di Snowden non ha molto a che vedere con quella dell’agente segreto, semmai con quella di un giovane geek, che il cinema americano ha esportato nel mondo a partire dagli anni Ottanta, ovvero da Giochi di guerra di John Badham (1983). Ma questa volta al posto del giovane autodidatta informatico che salva il pianeta sconfiggendo il mega-computer dell’esercito, troviamo un tecnico, un uomo d’apparato che per motivi imperscrutabili decide di tradire il suo paese per consegnare l’allarmante verità al mondo intero.

 

L’ultimo libro intervista di Zygmunt Bauman e David Lyon lavora esattamente sull’intersezione tra nuove forme di consumo e di comunicazione. Gli autori esaminano fenomeni come il tracciamento degli utenti-consumatori in un mondo che integra dinamicamente virtualità e fisicità, ma anche le pratiche diffuse di sorveglianza che dal paradigma vetusto del Panopticon seguono nuove direzioni. In un contesto totalmente mutato l’icona della spia cede il passo a nuove entità più astratte e disumanizzate, che esercitano la sorveglianza e il controllo attraverso dispositivi di automazione. Ne sono un esempio i droni, sia quelli di taglia superiore usati per bombardare o uccidere, sia quelli dalle «dimensioni paragonabili a quelle delle libellule o di un colibrì», che, progettati per «essere invisibili anche quando li abbiamo davanti agli occhi», faranno entrare la guerra nell’era «post-eroica» (Bauman, Lyon 2014, pp. 4-5).

I Big Data attivano al contempo retoriche utopiche e distopiche. Da un lato sono visti come un potente strumento di risoluzione dei mali della società, mettendo a disposizione il potenziale di nuovi insights in campi molto diversi come la ricerca sul cancro, il terrorismo e il cambiamento climatico. Dall’altro lato, i Big Data sono visti come una nuova e inquietante espressione del Grande fratello di turno, autorizzando l’invasione della privacy, lo smantellamento delle libertà civili e l’aumento del controllo da parte dello Stato e delle aziende (Boyd, Crawford 2012, pp. 663-664). Questa massa di informazioni, che è in grado di ridurre la complessità dell’agire umano a un mero calcolo descrittivo o inferenziale, rappresenta una sorta di enorme bacino in cui si raccolgono le confessioni esplicite e implicite, volontarie o inintenzionali di tutti gli utenti della rete. Non è forse un caso che la storia remota di questo odierno filone di ricerca (e di applicazione delle tecnologie digitali) abbia un passato socialista (Morozov 2014), rinforzato dall’interesse della cultura sovietica nei confronti del potenziale di trasformazione della cibernetica. In un certo senso noi tutti siamo principalmente un insieme di dati, mentre le nostre scelte di consumo, d’interazione con gli altri, di produzione autonoma di contenuti dicono di noi molto di più di ciò che pensiamo. Per questo motivo il tema del self-branding, incrociato con quello dei Big Data, apre uno scenario estremamente complesso delle nuove possibilità di sfruttamento cognitivo degli utenti. 

 

Questo testo è tratto dal libro a cura di A. Abruzzese e da G. P. Jacobelli, Bond, James Bond. Come e perché si ripresenta l'agente segreto più famoso del mondo (Mimesis edizioni). Le ultime notizie su Berlusconi spiato dagli americani rilanciano, a distanza di qualche anno, la questione della sicurezza e dell’informazione come risorsa strategica e sensibile. Qui discuto il problema ben prima che Spectre venisse alla luce.

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