Festival Contemporanea Prato / La trasformazione. La forma del dolore

Gli Alveari e Phia Ménard 

 

L'ultimo giorno del nuovo Alveare è introdotto dal gesto-soglia di Katia Giuliani, che con The Walk occupa per intero il corridoio-foyer del Magnolfi: una lunga striscia bianca che si tinge progressivamente di segni neri a partire dai passi e dai gesti della performer, costringendo gli spettatori sui due lati dello spazio, a stare vicini – fra loro e al lavoro – e comunque a cambiare posizione, prospettiva, postura. È questo uno dei tratti che distingue e connette Alveare rispetto alla programmazione di Contemporanea, nelle sue edizioni passate e in quella presente. È così nella lettura-dialogo con cui Chiara Lagani, dopo l'impegno spettacolare su L'amica geniale, torna su Elena Ferrante insieme alla studiosa Tiziana de Rogatis per indagarne frontalmente il metodo di “scavo” della realtà, a partire dalla raccolta di articoli L'invenzione occasionale, 52 frammenti pubblicati settimanalmente per un anno sul “Guardian” e ora editi per E/O, con cui l'autrice, sempre incline a sottrarre la propria identità dallo spazio pubblico, ha invece voluto esporsi sul piano personale e teorico. Il cambio di prospettiva torna anche in Once I forget to be a woman di Elisa Pol, un percorso fra parola e danza che assume il rapporto con la montagna come slancio per aprire squarci sul proprio paesaggio interiore (e che non a caso, trattando di ascese alle vette, s'inaugura al suolo, in una paradossale quanto suggestiva scalata “in orizzontale”); nonché in Lingua erotica di Licia Lanera, in cui Danilo Giuva “ricalca” performativamente il discorso alla Camera tenuto dall'ex Ministro dell'Interno Matteo Salvini nel giorno delle dimissioni del primo Governo Conte, mentre in uno scenario da confronto politico televisivo, con tanto di portadocumenti in pelle, abiti formali e minutaggi, l'attrice e regista propone una serie di frammenti gaddiani sul primato – oggi come non mai attuale – dell'eros sul logos nel discorso pubblico, sullo sfondo del rapporto fra il femminile e la politica, anch'esso diventato così acceso negli ultimi tempi.

 

Licia Lanera e Danilo Giuva, Lingua erotica, ph. Ilaria Costanzo.


L'intero Alveare 2019 si definisce proprio a partire dall'invito a 12 artiste che s'interrogano sulla condizione femminile, ma anche la spiazzano continuamente alla radice, portando al Magnolfi una serie di punti di vista criticamente plurali con l'esito di non rimanere – per riprendere le parole della Ferrante dette da Chiara Lagani – “nel gineceo letterario in cui siamo costrette, non solo dal mercato”. Tanto più che la questione della differenza storica di cui le donne sono portatrici, della produzione delle autrici nella creazione del nostro tempo, della potenzialità critica della loro posizione e del rischio sempre presente di assorbimento di un possibile discorso critico sulla propria condizione torna anche in altri lavori presenti al Festival. 

Maison-Mère, uno dei “contes immoraux” (“racconti immorali”) di Phia Ménard, interviene in maniera decisa anche su questi fronti, portando però a Contemporanea una prospettiva completamente altra che illumina la complessità delle questioni implicate entro tale campo di pratica e pensiero. 

 

Silvia Costa, Midnight Snack, ph. Ilaria Costanzo.


In scena, una performer la cui identità rimane inafferrabile, moltiplicata com'è dai numerosi riferimenti esposti da un costume che spazia dal glam allo sport, dal cyberpunk alla quotidianità; nonché da una gestualità che si muove fra le polarità del maschile e del femminile esplorando altre possibilità che da lì s'irradiano, e che è ludica, ginnica, marziale. Attraversando svariate posizioni tradizionalmente attribuite ai generi e ai linguaggi, lo spettacolo non appartiene né al noveau cirque né al mimo – campi in cui l'artista si è formata –, né alla danza – ambito in cui il suo lavoro di norma è oggi inquadrato –, insomma a una qualsiasi identità (individuale o sociale, culturale e scenica) prefissata. Maison-Mère è più che altro un lavoro minuziosissimo sul trattamento del tempo e sulla trasformazione che nel periodo della performance può accadere. 

Lo spettacolo corrisponde alla costruzione di una casa di cartone, fragile eppure pesantissima, condivisa fin nei minimi dettagli a partire da una serie di ritagli di grandi dimensioni: fra estremi che combaciano a fatica, pareti che traballano, pezzi di nastro adesivo che si spezzano, un'azione apparentemente così semplice diventa una vera e propria impresa, raccontando di uno sforzo lungo ed estenuante per la performer e anche per il pubblico che la segue, soprattutto nel momento in cui – prestissimo – s'intuisce dove stia andando a parare, quando colleghiamo i pezzi di cartone che man mano vengono montati all'immagine ancora di là da venire dell'abitazione. 

Mentre lo spettatore è condotto a una confidenza obbligata – vuoi per la ripetitività o prevedibilità dell'azione, o per l'empatia generata da un progetto troppo grande da cui l'interprete sembra sempre a rischio d'essere (anche letteralmente) schiacciata –, il meccanismo alla base di questo lavoro è però pronto a rivelarsi. 

 

Phia Ménard, Maison-Mère, ph. Jean-Luc-Beaujault.


Si tratta anzitutto dell'edificazione della propria dimora, vita, personalità – si può pensare seguendo gli sforzi di Phia Ménard fino al momento in cui, mettendo in piedi definitivamente l'edificio, resta intrappolata al suo interno. In seguito, quando avrà aperto delle finestre sulle pareti in forma di squarci strappati al cartone da una motosega, ci rendiamo conto che non è solo un tentativo di liberazione, ma la convocazione di un altro piano del discorso: perché quella che sembra a tutti gli effetti una gabbia o una prigione arriva ad assumere anche una fisionomia che ricorda il Partenone. 

La prospettiva si apre su orizzonti storici, sociali, collettivi, ed entra in gioco così il tema dell'Europa, visto che lo spettacolo è stato creato per un'edizione piuttosto discussa di Documenta che per la sua inaugurazione aveva deciso di spostarsi momentaneamente dalla sede di Kassel – città tedesca fulcro del mercato globale dell'arte, posizionata nel cuore finanziario e politico dell'Unione – alla sua periferia, ad Atene, in un momento in cui la Grecia stava tentando di risollevarsi dopo un inaudito crollo economico e sociale. Il senso del progetto dell'Unione Europea non è messo in discussione solo nei suoi esiti recenti rispetto all'operato delle istituzioni nel campo dell'arte e della politica contemporanee, ma fino alla radice: con il riferimento alla culla storica della civiltà occidentale e uno più velato, spiegato dall'artista, al programma di ricostruzione del Piano Marshall, con cui dopo i bombardamenti mirati che avevano distrutto il continente si propone d'intervenire tramite edifici prefabbricati a cui la Maison-Mère di cartone s'ispira. 

Però, in uno slittamento ancora, ci accorgiamo che quello che viene messo in discussione, in verità, è l'orientamento stesso di una società: perché nel giro di pochi minuti comincia a piovere. Tanto. E non accenna a smettere. Tutta l'ultima parte dello spettacolo è occupata da un diluvio suggestivo quanto spietato che comincia piano piano ad allagare il palco e a impregnare le fragili pareti della costruzione di carta fino a provocare dissesti, sfaldamenti, crolli, che il pubblico osserva impotente insieme all'artista in scena. Il discorso diventa allora, fra l'altro nel giorno di uno dei più grandi Fridays for Future, quello di una specie intera, sempre alle prese con la propria espansione progettuale (e non solo), messa di fronte alla sua stessa catastrofe.  

 

Phia Ménard, Maison-Mère, ph. Jean-Luc-Beaujault.


Alla fine, fra le macerie sature di un fumo che impedisce quasi del tutto la visione (non solo della scena), costretti ad affinare – tecnicamente – lo sguardo, ci rendiamo conto che lo spostamento profondo a cui Phia Ménard ci conduce con pazienza riguarda soprattutto la posizione e la prospettiva dello spettatore, nel teatro come nella vita: provando a smuoverci da una modalità di fruizione canonica in uso soprattutto nella ricerca, fondata sulla dimensione concettuale, analitica, interpretativa e intellettuale; a un coinvolgimento il meno mediato possibile, che mira a colpire su un piano soprattutto sensoriale o emotivo, non tanto o non solo per la suggestione degli “effetti speciali” ma per un lavoro sulla costruzione e manipolazione del tempo – su pause e durate, messe in posa e abbandono alla contingenza, caso e volontà –, che rende l'azione il campo in cui artista e pubblico momentaneamente convivono, partecipando insieme di un percorso interiore e scenico in continuo sviluppo. 

In questo lavoro estremamente materico, fatto di immagini forti eppure così semplici nella loro polverosa, faticosa realtà, le aspettative dello spettatore sono di continuo, non tradite o spiazzate, ma spostate, traslate in maniera progressiva, perché viene portata in scena – ma soprattutto nella testa e nel corpo di ciascuno – un'istanza di cambiamento concreta, palpabile, che Phia Ménard non spiega né illustra, ma “semplicemente” condivide. La trasformazione della materia – noi stessi inclusi – è il fulcro disarmante di Maison-Mère, rappresentativo del percorso di un'artista che, dopo alcuni lavori esplicitamente mirati a indagare la sua esperienza di transizione, negli ultimi anni ha cominciato invece a concentrarsi sulla natura stessa di quel tipo di percorsi, nelle sue implicazioni biologiche, culturali, esistenziali, a partire da un'indagine su elementi naturali come l'aria o l'acqua. L'asse del discorso si sposta così su livelli ulteriori e autenticamente trasversali, come quello del procedere dell'umanità e della tentazione incessante al progresso, con tutta la sua ambizione costruttiva e allo stesso tempo il suo portato distruttivo e auto-distruttivo; o del rapporto fra natura e cultura, fra il fluire della vita e l'ordine del discorso che spesse volte, nel supportare l'approccio alla realtà, non ne favorisce un'azione volta al cambiamento ma anzi rischia d'irreggimentarla secondo mire conservative sempre nuove. (Roberta Ferraresi)

 

Daria Deflorian, Quella cosa là, ph. Ilaria Costanzo.


Quella cosa là: Daria Deflorian 

 

Un coinvolgimento che mira a colpire su un piano soprattutto sensoriale e emotivo, casa di cartone, identità, trasformazione… Temperature analoghe a quelle che Roberta Ferraresi racconta per Phia Ménard le ho ritrovate – diversamente – nel primo lavoro visto negli Alveari al femminile, Quella cosa là, scritto e interpretato da Daria Deflorian, con un bel pezzo di testo tratto da L’événement di Annie Ernaux.

Si accumulano spettacoli in un festival; ancora di più in questa architettura, inventata ormai anni fa dal direttore artistico di Contemporanea Edoardo Donativi, gli Alveari: brevi pezzi commissionati ad artisti da mettere uno di fianco all’altro, in un unico edificio caratterizzato da luoghi capaci di suggestione, falansterio, prigione, varco verso altre Zone. Si accumulano visioni, in un festival, a volte fino allo stordimento. Quella cosa là, l’avvenimento, ha fatto scolorire e svanire tutto l’altro che ho visto, bello, brutto, frammenti estratti da spettacoli, studi, esperimenti, interazioni… tutto.

La temperatura, bassa, sommessa, la voce, masticata, trattenuta dentro quasi, fino alla confessione, allo squarcio d’intimità, con pennellate nella memoria e cerchi che si allargano, piano, placidamente, da un dolore personale a quello di una parte del mondo, cercando, ancora, la bellezza del vivere. Svelamento, rovesciamento, emotività forte, come scrive Roberta Ferraresi di Phia Menard. Ma senza ricorsi materici, basandosi solo su una parola che esce quasi a fatica, sussurrata, trattenuta più che portata, quasi a nasconderla, a ritirarsi, a mascherare una sofferenza o una vergogna, con l’attrice al centro di cerchio di pubblico, distante, come assediata, insidiata. 

Il contenuto che diventa forma, il negarsi, il negare la vita, nel lago di sangue dell’aborto, di un aborto improvviso, con ricovero in ospedale, mentre la giovane allieva della scuola di teatro provava. Ma anche la mancanza di vita, di vocabolario, in un paese straniero, i primi anni di Daria in Francia, in quella Parigi che aveva visto da giovane tra le sue montagne, immaginata in qualche lucina nella valle scura, come dall’ultimo piano di un palazzo nella metropoli notturna. La mancanza di lingua, e i tragitti solitari dalla camera a una libreria, a cercare i volumi, i romanzi di Annie Ernaux, e leggerli forsennatamente, a tradurli col vocabolario. Fino all’incontro con quello (e la voce qui forse si abbassava ancora di più, si maschera), L’événement, il libro del viaggio verso la mammana, verso l’aborto clandestino, la sonda conservata dentro di sé, il fidarsi, come un migrante deve fidarsi dello scafista. “Si perseguitano gli scafisti, si deplora la loro esistenza come trent’anni fa quella delle mammane. Non si mettono in discussione le leggi e l’ordine mondiale che fanno sì che esistano” scrive Ernaux, e riferisce Daria guardando, facendoci vedere kossovari in attesa sui moli di Calais. 

 

L’aborto, la crisi di denutrizione dell’allieva della scuola di teatro, “ma a noi ci nutrono Pina Bausch e Carmelo Bene…». La domanda a una ragazza incinta: cosa si prova? Come tenere un passerotto vivo dentro. E poi, dopo questo calvario, raccontato con pudore che somiglia a distanza accettata, a un sorridente arrendersi al fato, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, questa concatenazione: arriva la voce, una voce, un dialogo con un ragazzo che fa trasalire, giovane, come se lui, quello che non c’è, fosse venuto a trovarla, a Daria: “Ho detto dentro di me: Oddio, è come se mi fosse venuto a trovare. Come a dirmi: Guarda che se io sono così presente dentro di te, ci sono. Non è che sia sempre necessario venire al mondo per vivere” … “Che bella cosa che mi è successa oggi”. Un sorriso, sommesso, quasi silenzioso, sul mondo, su di sé.

Forse il teatro deve tornare a essere questo, ruvidezza, verità, nudità, riluttante, svuotato, stanco di stile (rubo queste belle espressioni a Ignazio De Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata, e ad Alessandro Berti, attore e regista), con un rigore perfino straziante, che trasforma la sofferenza in domanda interiore, in ricerca di accordo contro le tempeste. In arreso sorriso di sfida. (Massimo Marino)

 

L’ultima fotografia, di Ilaria Costanzo, ritrae un momento di Quella cosa là di Daria Deflorian.

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