ll senso del ridicolo / La verità è che non gli piaci abbastanza

16 Settembre 2019

Ogni domenica mattina, da cinque anni, ricevo – un’amica volenterosa mi ha iscritta alla newsletter – una mail intitolata “La Persona Giusta per Te”. La compila una life coach che cura corsi di seduzione online. L’oggetto della mail include il nome di chi la riceve. Così ri­sulta sempre un po’ minaccioso. Credo che la tizia che la spedi­sce la invii apposta la domenica mattina perché immagina sia il momento in cui la zitella è più vulnerabile, sola nel letto e con tutta la giornata davanti.

“Fare il primo passo: sicura sia il caso, Irene?”

“Perché sei ancora single, Irene?”

“Come evitare di sembrare una facile, Irene?”

“Dove conoscere uomini interessanti, Irene?”

“Quando è il caso di iniziare a fare sesso con un uomo, Irene?”

“Perché ti piacciono gli stronzi, Irene?”

Il 3 marzo scorso: “Perché nessuno si innamora di te, Ire­ne?” (Oh, ma che cazzo vuoi?)

 

Se è vero che ogni testo reca dentro di sé, come quelle di un personaggio-ombra, le tracce del suo destinatario ideale, basta leggere gli oggetti di queste mail per immaginarsi le ri­ceventi ipotizzate. Signorine un po’ meste, senza grandi possi­bilità caratteriali o sociali e inclini ad attaccarsi a esemplari nocivi ma a portata (i famo­si “stronzi”); che amano troppo; insicure; che si invaghiscono di mediomen qualunque inclini a considerare “facile”, e quindi scartabile, una ragazza che va a letto presto.

 

Mi ha sempre affascinata, credo in una sorta di sindrome di Stoccolma, la varietà e la capillarità delle regole supplementari a cui una femmina, specie se non accompagnata, è sottoposta in ogni epoca. Regole e canoni taciti, come lo sono molte regole e canoni del vivere sociale (anche per i maschi: molti trovano soffocante il canone del “vero uomo”); ma soprattutto, e questa invece è una specifica tutta femminile, enunciati e scritti in modo sistematico. Non esiste alcuna categoria non professionale a cui sia offerta come alle donne – per mezzo di rubriche sui giornali, riviste, manuali, trasmissioni televisive, tutorial – una serie tanto ampia e articolata di istruzioni per appartenervi. Il tono di questi testi è quasi sempre quello della tremenda newsletter su come trovarsi un fidanzato: condiscendente, normativo, petulante.

Spesso questi testi fanno sorridere: è al loro potenziale comico, ma non solo, che sarà dedicato l’intervento di Maria Cassi e mio al festival Il senso del ridicolo di Livorno. Io vi ho dedicato anche un saggio, che si intitola Galateo per ragazze da marito (Bompiani Amletica leggera): è proprio alle ragazze da marito, cioè alle nubili, considerate schegge impazzite a rischio prostituzione in epoche dove l’accesso femminile al lavoro era limitato e bersagli privilegiati del marketing in quella odierna, che è dedicato il maggior numero di regole, utili spesso più a restare zitella, cioè al proprio posto, per sempre, che a trovarsi un marito davvero.

 

 

 

Queste regole riguardano tutto e sono spesso buffissime, quasi assurde. La linea, ovviamente: il Galateo della Contessa Clara nel 1955 prescriveva di lasciare un “letto funebre esiguo” per non pesare sulle spalle dei cari, e la Vera Signora di Elena Canino, di un anno precedente, consigliava alle donne grasse di parlare accentando molto le vocali “più smilze, come la e, la i, la u” ed evitare le altre; in ogni decennio si avvicendano diete fantascientifiche come quella dell’agar-agar, scritta nell’Enciclopedia della Donna (1963), che comportava riempirsi lo stomaco di questo addensante naturale, perché gonfiasse e attutisse la fame.

Il vestiario: “il sex appeal è nemico dell’eleganza”, scriveva Donna Letizia nel suo Saper Vivere, e il modello è quello delle regine inglesi di ogni tempo il cui bosom, il petto, deve essere un monticello senza fessure idoneo ad appendervi medaglie e onorificenze più che a sedurre; o semmai la Fanny del romanzo di formazione 1929 di Alfredo Panzini, La pulzella senza pulzellaggio, la cui protagonista era ragazza da marito ideale in quanto optime septa, “ottimamente difesa”, da vesti simili a sai e da una madre presentissima.

Il contegno: Matilde Serao prescriveva alle signorine, nei loro rapporti con maschi non consanguinei, “molta grazia, ma non civetteria; molta finezza, ma non di­sputa di spirito; molto garbo, con una leggera tinta di freddez­za”, e soprattutto di dar loro del lei.

 

Di tutte queste regole molto è tramontato (salvo forse l’ossessione per la magrezza, diventata di decennio in decennio più stringente). Gode invece di grande appeal, anche presso le più progressiste, la mitologia del principe azzurro.

Certo, adeguata ai tempi. Quando la newsletter per trovarmi il fidanzato mi chiede se so distinguerlo da un rospo, si riferisce a un principe azzurro ben diverso da quello il cui arrivo sognavano le mie nonne (che poi chissà se lo sognavano, essendo generazioni molto concrete). Nelle narrazioni dell’amore di fine Ottocento era un prati­co intreccio fra il primo innamorato, spesso oggetto di pure fan­tasticherie, e le considerazioni di ordine economico delle due famiglie. Durante il fascismo, che voleva liberare la donna da romanticherie e mollezze, era un ideale in discredito. Negli anni del boom economico era l’affidabile futuro padre di famiglia. Oggi, in epoca di amori tiepidi e disimpegnati, è quello che ci si piglia.

Basta fare un giro nella blogosfera, sezione “single è bello”, reparto empowerment, per trovare decine di narrazioni di sedicenti principes­se contemporanee che, proprio come le favole, seguono crismi sempre uguali. Lei: non bellissima ma di carattere. A volte si definisce “autoironica” o “solare”. Principes­sa autoincoronata, ha baciato molti rospi. Poi a un tratto ha deciso che “meritava di più”. Più del trombamico. Più del match su Tinder. Più del collega sposato. E quando lo ha deciso, zac: il principe è comparso. Nella narratologia dell’in­contro col principe, modello 2019, lei inizialmente non lo con­siderava, abituata ai rospi. Ma poi lui ha insistito, si è mostrato “davvero interessato” e lei ha capito l’antifona. Ha imparato a indossare la corona da principessa, cioè a volersi bene. E quindi non si accontenta più.

 

 

Il mantra non accontentarsi è insieme un’ovvietà (chi so­sterrebbe mai che lo spirito giusto, in amore, è accontentar­si?) e un elenco di prove che lui deve superare perché lei pos­sa trovarlo degno. Il principe azzurro infatti non è quasi mai tale per sue caratteristiche intrinseche: è bello, è intelligentis­simo, ci piace tanto, è scopone. No, la sua, proprio come nelle fiabe, è una funzione narrativa. Il principe azzurro è tale, cioè, solo in base alle cose che fa. Di base deve:

– chiamarci varie volte al giorno,

– manifestarci chiaramente e da subito evidenti intenzio­ni serie,

– tollerarci in ogni nostra immaturità, insicurezza, patur­nia,

– non mostrare in tutto questo percorso incostanze nem­meno minime, tentennamenti nemmeno ragionevoli, ombre di dubbio. La sua ex: dimenticata. Le sue insicurezze: mai esi­stite. Il suo carattere: scomparso, in nome dello Schema di Propp. È un principe.

– Ultimo, e più importante: aspettarci con pazienza finché non decideremo che sì, possiamo concederci. Maggiore è il numero di appuntamenti di attesa prima di concedersi, argomentano manuali di autoaiuto, serie tv, romanzi di chick-lit, mag­giori sono le possibilità che anche da un rospo maturi un prin­cipe. Come quella del Parmigiano, anche questa stagionatura del principe è narrata come la fattura di un prodotto d’arti­gianato: l’abilità della signorina sta nel dilazionare il momen­to del cedimento più a lungo che può. Questo snodo del ragionamento è l’architrave di manuali contemporanei molto in voga fra le millennials, come La verità è che non gli piaci abbastanza (2003) e Le regole (1993): in tempi di liberismo sentimentale totale, si mutua dalle teorie economiche l’esigenza di un protezionismo che, riducendo l’offerta, vivacizzi e motivi la domanda. Il comportamento che questi manuali – e newsletter come quella di cui sopra – valorizzano, è cioè quello descritto da un modo di dire triviale, ma efficace: nel fare la preziosa.

 

“Fare la preziosa” è oggi un modo di dire odioso. Si riferisce a chi ha verso una profferta amorosa un atteggiamento di dub­bio o ambiguità, anche se genuino e non strategico. Ma nasce in letteratura. Il preziosismo fu un fenomeno di costume e di gusto, anche letterario, che nacque e prosperò a metà del Seicento. Non si studia molto a scuola; ma nell’immaginario rosa lasciò sedimen­ti importanti quasi quanto quelli che avrebbe lasciato, un seco­lo dopo, il Romanticismo.

 

Negli ambienti aristocratici più vicini alla corte francese, fra il 1620 e il 1648 (quando il salotto simbolo del movimen­to, la Chambre bleue dell’intellettuale Madame de Rambouil­let, cessò di raccogliersi) si era diffuso un modo di parlare, di di­scutere e di atteggiarsi improntato alla massima raffinatezza. Il pretesto era vagamente femminista; e non infondato, e non è un caso che il preziosismo sia stato derubricato nella storia a po­co più che un capriccio. Era, cioè, la critica al destino già fissato per le donne delle classi agiate, che potevano scegliere soltanto fra matrimonio di convenienza e convento. Nei salotti si discuteva quindi d’amore, soprat­tutto, e dell’amore più sentimentale e romantico (ante litteram) possibile: non solo perché l’amore è bello e parlarne è una deli­zia, ma anche perché l’amore-quello-vero era il solo antidoto al­la convenzione matrimoniale vigente. Cioè nei salotti delle ric­che signore si coltivava una sorta di ingenuo proposito eversivo (che restava, sia chiaro, totalmente teorico): bombardare l’istitu­zione del matrimonio con quella, incommensurabile, dell’amo­re puro. L’Amore era il feticcio delle conversazioni fra i preziosi, che ne catalogavano ogni manifestazione: il prodotto più me­morabile di questa stagione è l’ossessiva Carte du Tendre, la “Car­ta del Tenero” di Madeleine de Scudéry.

 

La “Carta del Tenero” è una mappa dell’amore, rappresen­tato come un fiume a tre affluenti, il cui estuario dà su un “ma­re periglioso”. La sorgente è giustamente invisibile. L’acqua ini­zia a scorrere da un paesino: Amicizia Novella. Poi, attraverso alcune tappe obbligate – i paesini di Versi Gentili, Biglietto Ga­lante, Biglietto Dolce – arriva, se tutto va bene, al capoluogo dell’amore: Tenerezza-su-Inclinazione. Cioè la condizione in cui l’altro ti piace (Inclinazione) ma gli vuoi anche bene (Te­nerezza). La mappa è disseminata di altre metaforiche città che manifestano ciascuna, via via che ci si allontana dal fiume, una stortura dell’amore: se qualcosa va storto, dal paesino di Bigliet­to Galante si rischia di spostarsi rapidamente nella confinante Tepidezza di sentimenti; e di lì a Leggerezza; e di lì a Oblio. Vi­ceversa, sulla sponda opposta del fiume, se si eccede in serietà di propositi a discapito dell’aspetto dolce dell’amore si può pas­sare dal villaggio di Compiacenza a quello di Sottomissione, e poi di lì sbagliare strada e finire decisamente, anziché a Piccole Cure, al villaggio di Invadenza e di lì a Orgoglio, rocca impervia nell’angolo sinistro della pagina. (Divago: se oggi ci fosse una Google Map del Tenero sui nostri smart­phone, forse, l’algoritmo che registra anche il traffico mostre­rebbe ingorghi di auto maschili alla rotonda fra i paesini di Bil­let Galant e Billet Doux scrive, scrive, ma quando ci vediamo? – e ingorghi di calessini femminili sulla strada fra Sottomissione, Invadenza e Orgoglio. Avremmo nuove inurbazioni: la frazion­cina Cuori-su-Instagram, la morta gora di Ghosting, la bidon­ville di Foto Erotica Non Richiesta, ma anche, per chi cammi­na abbastanza a lungo, l’altopiano di Lucidità, dal quale si vede senza tante mistiche amorose – è il vantaggio di vivere in un’e­poca prosaica – se il villaggio dove ci pare di volerci trasferire è davvero accogliente come ci sembrava visto dai vetri della car­rozza di Prolungata Astinenza).

 

Ma insomma, esiste anche oggi una topografia immaginaria del corteggiamento corretto che ci si aspetta da un uomo. Come ogni regola, è ansiolitica: stare nell’indeterminatezza di un possibile amore nascente è una fatica che siamo sempre meno disposte a sopportare, ed è comodissimo rifugiarsi nel fascino senza tempo del protocollo. Se mi vuole, mi cerca, ripetiamo tutte. Se non mi chiama, la verità è che non gli piaccio abbastanza. E stiamo a casa a non chiamare. Proprio quello che vogliono le regole e i protocolli per femmine di ogni tempo: ciascuno, ma soprattutto ciascuna, al suo posto.

 

Il senso del ridicolo, festival sull'umorismo, sulla comicità e sulla satirà, si svolgerà dal 27 al 29 settembre 2019 a Livorno. Qui il programma completo. Maria Cassi e Irene Soave saranno al festival sabato 28 settembre alle 18:30.

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