L'emozione di Alice Munro
Se ripenso, retroattivamente e collettivamente, ai libri di Alice Munro, credo che l'emozione rimasta in me più intatta – tra quelle sezionate con la caparbietà di una vita dalla scrittrice canadese – sia la tristezza. Una tristezza reticente e tenace, di quelle che si riescono a dare per scritto forse solo oltreoceano. La tristezza dei grandi spazi compressi in piccoli nuclei, dell'orizzonte imploso nella famiglia. Tristezza è un termine ambiguo, molto spesso intriso di estetica, o compiacimento. In molti racconti di Munro sembra invece una sorta di codice per decrittare il dolore, una specie di lente con cui esprimere, o nascondere, la violenza imposta (esposta) dalla vita. Dovessi per forza trovare un termine di paragone, fallace come tutti, probabilmente penserei a Carver.
Non tanto per la necessaria brevitas, per quel “short” a far da limite alla storia, a concentrarne i tempi e i fatti, a pressurizzarne la cabina di pilotaggio. Per i dettagli, invece. Scopro l'acqua calda, certo. In Munro ogni dettaglio, sia descrizione o carotaggio, è così centellinato, “giusto”, da sembrare un destino. Si abbarbica attorno al cuore della storia – il dolore – e lo rende comprensibile, comunicabile. Non solo. Molto più subdolamente (e qui sta il border tra sapienza e oltre, chiamiamolo genio, se concedete la parola desueta) le testarde minuzie della tristezza si appiccicano nella memoria remota, inconsapevole, lame pronte a tagliare di fino al prossimo richiamo pavloviano del dolore. Come un ricordo olfattivo, irrazionale, di cui si può perdere l'origine, ma di fatto fuori controllo, indelebile. Una tristezza resistente, dunque.
Nella doppia accezione dell'aggettivo. Che non passa. E che diventa, inoltre, una forma di conservazione della vita, del proprio quid umano (imperfetto che sia, spesso colpevole o renitente) davanti a un dolore sentito come imprescrittibile. Un modo di essere delle persone (dei personaggi, degli eventi, dei luoghi, delle circostanze) capace di renderle refrattarie, idrorepellenti agli acquazzoni (o agli uragani, se vogliamo assecondare le teorie sui cambiamenti climatici) dell'esistente. Certo non l'unico.
L'universo di Munro è un prezioso ecosistema in cui ossessione e variatio convivono mirabilmente. Chiodi ribattuti una vita, e sfumature pressoché infinite. L'eterno détournement della propria biografia (il far di conto con il conto che per definizione non torna) e il gusto per il colpo di scena, o meglio l'evento irrelato che spariglia le carte senza doversi giustificare. Il piccolo borgo in mezzo all'infinito. E all'interno la stanza – lo studio – dove la scrittura (scrittura di donna, ricordiamolo, dettaglio socialmente non secondario nella carriera di Munro, nella sua testarda struggle) si dà, si realizza. In solitudine. Condizione necessaria perché l'occhio, rattristandosi, acquisti quel modus particolare di lucidità.
Dopo l'annuncio del Nobel – un Nobel una volta tanto “politico” proprio perché non politico, o etnico, ma nudamente letterario – ho riletto, riletto molto. Complice il Meridiano che permette, volendolo, sguardi d'insieme. Ho concentrato però l'attenzione (che è un pozzo, non un prateria) sugli ultimi quattro racconti antologizzati. Un po' perché sono convinto che le raccolte più recenti raggiungano un livello di sobrietà e condensazione davvero stordenti, testimoni viventi di un processo di affinamento con pochi pari nella letteratura contemporanea; un po' perché i titoli disegnano una, forse inconsapevole, mappa, la rosa dei venti che soffiano, da sempre, in Munro. Si tratta di Dimensioni, Buche profonde e Radicali liberi, tratti da Troppa felicità (un destino, appunto) e di Uscirne vivi dalla raccolta omonima, la più recente.
Noto a margine che questo è uno dei pochi casi in cui la traduzione (Susanna Basso, notevole il suo lavoro) supera le intenzioni linguistiche dell'autore, che si era “limitato” a scrivere Dear life. Sono tre storie di morte, e una di vita. L'unica scopertamente autobiografica scritta da Munro. Sono, soprattutto, quattro storie di liberazione, di apprendimento del dolore e di volontà, costosa, di uscirne. Sono storie minuziosamente tristi, e ribadisco l'accezione positiva del termine. Geografia, dicevo. La tristezza come percezione dello scarto dimensionale tra sé e lo spazio, le buche profonde in cui, inevitabilmente, si inciampa. I radicali liberi, agenti di invecchiamento e morte (o almeno così dice la vulgata che dalla scienza è percolata nel marketing) composti però dalle parole “radicale” (voce di lotta e di tradizione) e “libero”. La felicità, poi, che è, ironicamente, “troppa”. Perché la vita ci è, nonostante tutto, “cara” (dear).
Ci si potrebbe fermare qui. Senza approfondire la vita di Doree, devastata dalla morte dei figli per mano del padre, quella di Sally funestata dalla colpa per la perdita del figlio Alex, che abbandona la linea borghese per vivere da mendicante, tra il mistico e il teorico radicale (ancora). O quella di Nita che, perso il marito, scampa a un criminale di passaggio. Fino a quella di “io”, che abitavo quand'ero giovane al fondo di una strada lunga, o di una strada che pareva lunga a me e che la pensavo così anch'io. Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo. Donne che misurano le dimensioni della propria perdita. Con le parole, anche. Doree, per esempio, prendeva le lettere di qualunque parola su cui le capitasse di posare lo sguardo e cercava di stabilire quante parole diverse sarebbe riuscita a cavarne. “Gelati”, ad esempio, dava “tela”, “lega”, e poi “lite” e “tale” e “alti” e “lati” e “lieta”. Ancora geografie. Sally si perde, poi ritrova la strada. Di nuovo la banca, lo stesso esercito di perdigiorno, o forse un altro. Il tragitto in metropolitana, il parcheggio, le chiavi, l'autostrada, il traffico. Poi la strada locale, il tramonto che arriva presto, ancora niente neve, gli alberi spogli e il buio sui campi. Le piace quel tratto di campagna, in questo periodo dell'anno. Deve cominciare a considerarsi indegna? Interno giorno: Non era nella camera da letto, dalla quale era appena uscita, dopo aver messo in ordine. E nemmeno nel bagno grande, dove peraltro Rich entrava solo se decideva di usare la vasca. O nella cucina, che negli ultimi anni era diventata il suo regno pressoché incontrastato. Ovviamente non era fuori sulla terrazza di legno raschiata a metà, pronto a sbirciare per scherzo dalla finestra, davanti alla quale, ai bei tempi, lei qualche volta accennava la parodia di uno spogliarello.
Proprio dalla mappa delle tristezze si postula, per contrario, la certezza di una felicità esosa ma possibile. La tristezza è dunque quasi una militanza, sicuramente un processo conoscitivo. Un sapere prezioso che permette, forse, di uscirne vivi. Da vivi.