Libro, moschetto, libro
Per il mercato del libro nell’Inghilterra dell’età elisabettiana, agli albori del copyright, la violenza istituzionale nelle sue forme più elementari era uno strumento regolativo. Un Decreto della Camera Stellata del 1586, infatti, concedeva agli editori-stampatori-librai membri della Stationer’s Company il diritto di far valere con la forza il loro monopolio assoluto sulla produzione libraria, istituito dalla Stationer’s Charter del 1557. Gli agenti della corporazione avevano dunque facoltà, quando mossi da «ragionevoli cause di sospetto», di penetrare in «abitazioni, laboratori, depositi o botteghe», compiere perquisizioni, sequestrare gli stampati illegali, arrestare i violatori del monopolio, nonché «disfare, bruciare, rompere e distruggere» o ancora «disfare, fondere, segare in pezzi, rompere, colpire con martelli da fabbro o rendere altrimenti inservibili» manufatti e strumenti da stampa insieme a tutti gli accessori. La concessione di simili poteri di polizia a una corporazione di arti e mestieri legati alla circolazione della conoscenza viene spesso spiegata alla luce del fatto che la Corona poteva vedervi uno strumento di censura capillare ed efficace. Studi recenti, tuttavia, mostrano come questa interpretazione non consideri che a quell’epoca la Corona aveva piuttosto un approccio non sistematico alla censura, che veniva trattata caso per caso. Nel testo del decreto, peraltro, non si trovano riferimenti particolari al vaglio dei contenuti, che poi avrebbe richiesto ben altra impostazione. Appare invece evidente che la preoccupazione primaria fosse controllare gli effetti dirompenti della diffusione delle nuove tecnologie di stampa, istituendo meccanismi vincolanti di protezione del mercato. Si trattava insomma, prioritariamente, di limitare la tendenza all’aumento vertiginoso dei livelli di produzione, che rischiava per un verso di ridurre drasticamente la scarsità della merce-libro, e con questa il suo valore, e per altro verso di favorirne la circolazione fuori controllo, e dunque la dispersione dei profitti. Se è vero perciò che l’esercizio del potere regale imprimeva la sua forma violenta al commercio del libro, il ricorso alla brutalità aveva però motivazioni tutte interne al mercato.
La facoltà di penetrare nelle case e nei luoghi di produzione con poteri di polizia e praticarvi l’esercizio diretto della giustizia è una tentazione autoritaria che anima tuttora le gilde e le lobby dei produttori e distributori di contenuti. Al passo coi tempi, fa propria la fantasia panottica che dall’11 settembre va ispirando, con sempre maggior presa sulla realtà, le leggi antiterrorismo. Le stesse grandi quantità di dati e metadati monitorate, analizzate e immagazzinate per stanare i terroristi, infatti, possono servire a individuare i cyber-pirati. E viceversa, perché è ovvio che le letture e le preferenze culturali dicono molto sugli orientamenti politici degli individui, e possono rivelare indizi sulle loro deviazioni criminali. Un primo concreto tentativo di applicazione risale al 2001. Stati Uniti, amministrazione Bush jr. L’associazione dei discografici statunitensi si interessa alla discussione in Senato dello USA Act (che confluirà nel famigerato Patriot Act) elaborando una bozza di emendamento, poi mai presentata, in cui si vagliava l’ipotesi di un’applicazione dei provvedimenti antiterroristici alla lotta alla pirateria on line. Secondo le rivelazioni di Wired, l’emendamento avrebbe addirittura inizialmente previsto la possibilità di hackerare i computer dei privati cittadini per eliminare direttamente i file illegali. L’idea sarà ripresa nel 2005 in Europa. In una lettera aperta al Parlamento Europeo (di cui non si trova più traccia in rete), un gruppo di big dell’industria dei contenuti (tra gli altri, pare, Sony BMG, Disney e EMI) avrebbe chiesto di avere accesso ai dati di navigazione raccolti nell’ambito di inchieste giudiziarie sul crimine organizzato e sulle reti terroristiche. Nel 2014 è la volta dell’Australia, dove in occasione della discussione della legge (ormai in vigore) che impone alle compagnie telefoniche l’obbligo di conservare per due anni i metadati degli utenti per scopi legati alla sicurezza nazionale, una lobby dell’industria cinematografica ha presentato una bozza di emendamento per estendere il provvedimento alla lotta contro la pirateria informatica. Sorveglianza elettronica globale e guerra informatica sono forme della violenza istituzionale interna ed esterna caratteristiche del contemporaneo. Nelle pratiche e nelle tecnologie sviluppate dal complesso militare-industriale, le grandi multinazionali della creazione e distribuzione dei contenuti vedono ancora una volta uno strumento di regolazione protezionistica del mercato, e di nuovo una forma di conservazione dei monopoli, un antidoto alla riduzione della scarsità, un freno alla circolazione incontrollata.
La forma attuale del capitalismo delle multinazionali genera anche un altro tipo di sovrapposizione paradossale, che si rivela nella composizione delle quote di capitale dei grandi gruppi editoriali. Così, nel 1980, il gruppo Matra di Jean-Luc Lagardère, leader mondiale nel mercato delle armi – in particolare nel settore delle tecnologie di sorveglianza, reti satellitari, individuazione di obiettivi e riconoscimento, nonché in quello missilistico – acquisisce Hachette e avvia una campagna di espansione nei settori del libro, della carta stampata e dei media. Benché a quell’epoca attraversasse una fase di crisi, Hachette era non solo una delle più importanti case editrici francesi, ma anche e soprattutto l’icona stessa dell’editoria moderna come attività imprenditoriale e industriale rivolta al mercato di massa. Quando nel 2013 cede le sue quote del gigante dell’industria aerospaziale e militare EADS (dove nel frattempo è confluita Matra), il Gruppo Lagardère è ormai il sesto gruppo editoriale al mondo, e uno dei più importanti nel campo dei media. Non si tratta di un caso isolato. Una decina d’anni fa anche il gruppo Reed Elsevier (da poco ribattezzato RELX Group), che nella classifica mondiale dei grandi editori oscilla tra il secondo e il terzo posto, e che gestisce ad esempio Science Direct, il più grande database di periodici scientifici, è stato coinvolto in un’accesa polemica per le sue tangenze con l’industria militare. Fino al 2007, infatti, Reed Exhibitions, una divisione del gruppo che è a sua volta il più grande operatore al mondo nel mercato dell’organizzazione fieristica, curava regolarmente fiere di armi ed equipaggiamenti militari nel Regno Unito, negli USA, in Europa, nel Medio Oriente, in Brasile e a Taiwan. Una di queste fiere, la DSEI che si tiene ogni due anni nei Docklands di Londra, si distingue in particolare ripetutamente per l’esposizione di bombe a grappolo, e altre armi proibite, mentre in altri eventi fieristici si segnalano munizioni all’uranio impoverito e strumenti di tortura. Al contempo, nel numero formidabile di riviste scientifiche e mediche pubblicate da Reed Elsevier c’è The Lancet, punto di riferimento assoluto della letteratura medica, che in diversi articoli denuncia gli effetti devastanti delle stesse armi esposte nelle fiere di cui sopra. Il comitato scientifico della prestigiosa rivista non tarda a denunciare il controsenso, e Reed Elsevier è costretta a recedere di fronte alle proteste della comunità scientifica internazionale.
In questo quadro può essere utile menzionare anche il caso del gruppo editoriale Bertelsmann-Random House, il quinto più grande al mondo. Nel 1998, a pochi mesi dall’acquisizione del gruppo editoriale statunitense Random House dell’omologo tedesco Bertelsmann, l’amministratore delegato Thomas Middlehof evoca in un discorso pubblico il passato della casa editrice Bertelsmann durante il nazismo, sottolineando come si fosse trattato di una delle poche imprese di proprietà non ebrea chiuse dal regime, e alludendo in particolare ad alcune pubblicazioni considerate sovversive. In una serie di interventi che hanno grande risonanza, il giornalista Hersch Fischler denuncia però l’incongruenza di quelle dichiarazioni. Il gruppo editoriale dà allora incarico a una commissione scientifica indipendente di ricostruire la storia di Bertelsmann sotto il nazismo. Il rapporto della commissione metterà in evidenza come in realtà la casa editrice Bertelsmann abbia avuto stretti legami con gli apparati come fornitore dell’esercito e delle SS, e come abbia operato attivamente nella propaganda di regime.
Il mercato del libro vorremmo immaginarlo lontanissimo dalla violenza e dal commercio delle armi, e incompatibile. Ma dobbiamo ricrederci. Non solo perché ne uccide più la lingua che la spada, e perché in nome di questo o quel Libro si compiono le peggiori efferatezze. Ma anche perché quando si parla di mercati e di commerci, nel momento in cui le cose defluiscono nell’astrattezza del denaro, ogni opzione diventa facilmente neutra, indifferente, disponibile, dimentica di origini, scrupoli e implicazioni, e quindi convertibile a piacere. “Libro e moschetto, fascista perfetto” era il motto della Milizia universitaria. Ma anche pecunia non olet rende bene l’idea.