Google batte tutti

20 Novembre 2013

Depositata lo scorso 14 novembre, la sentenza che dà ragione a Google nella lunga controversia avviata dalla Gilda degli Autori apre un nuovo capitolo nella storia dell’editoria. Dopo otto anni di processo, a Google viene riconosciuto che l’elaborazione digitale di materiali librari protetti da copyright nell’ambito del progetto di scansione e digitalizzazione noto come Google Books, che in questi anni ha riguardato oltre venti milioni di volumi, rientra nei canoni dell’“uso legittimo” (fair use), e pertanto non costituisce una violazione del diritto di copia. Gli aspetti più interessanti di questa sentenza che, manco a dirlo, riguarda uno dei principali attori della nostra società globale dell’informazione, non si limitano però al semplice fatto che l’azienda fondata da Larry Page e Sergey Brin è sollevata dalle accuse.

 

Con tutta la simpatia e il trasporto che in un atto del genere è lecito lasciar trasparire, infatti, la corte mette anche in rilievo la pubblica utilità sociale dell’opera svolta da Google, sia pur nell’ambito di un’attività lucrativa. Sul piano culturale, il contesto di riferimento assunto dalla corte è quello digital humanities, di cui si sottolinea il peso nella pratica attuale della ricerca scientifica, che avrebbero guadagnato grazie a Google un avanzamento tecnologico formidabile.

 

 

Gli elementi considerati dalla corte – l’utilità sociale generale dell’operato di Google e il suo contributo al progresso delle scienze umane – ribaltano dunque l’ottica della Gilda degli Autori, circoscritta e corporativa perché focalizzata sugli aspetti strettamente editoriali della questione e su un’interpretazione restrittiva delle leggi sul copyright, e inquadrando la vicenda sul piano più generale del suo rilievo culturale e politico, giudicando secondo il metro degli effetti.

 

Sul piano del contributo positivo offerto da Google Books alla società, dunque, la sentenza mette in rilievo cinque fattori principali. Il primo consiste nel fatto che è proprio grazie alla digitalizzazione di questa enorme quantità di libri se Google costituisce oggi uno strumento insostituibile per la ricerca bibliografica e la catalogazione. Il secondo riguarda più specificamente le pratiche di data mining e text mining rese possibili dall’elaborazione digitale dei libri acquisiti che, grazie al riconoscimento dei caratteri e alla conseguente trasformazione in testi digitali, possono essere sottoposti ad analisi statistiche o ricerche per stringhe di testo, e riuniti in raccolte in vista dell’immediata costituzione di liste di frequenza o concordanze (tutte pratiche che anche solo un decennio fa avrebbero richiesto anni di lavoro di intere équipe di ricerca).

 

Questo trattamento, inoltre, rende i libri fruibili per i non vedenti e per altri utenti con ridotte possibilità di accesso. Il terzo fattore consiste nel vantaggio procurato alle biblioteche periferiche o che dispongono di fondi limitati (sempre più numerose, come è noto), alle quali il programma offre nuove e razionali possibilità di accesso ai testi e valutazione preventiva sulle acquisizioni. Il quarto fattore riguarda la «nuova vita» data ai libri irreperibili perché fuori commercio, elemento determinante se si pensa che al giorno d’oggi la vita commerciale di un libro si conta in settimane. Quinto e ultimo fattore, l’impulso dato da Google ai canali di accesso tradizionale e di vendita commerciale, ai quali viene data piena evidenza nella pagina di informazione bibliografica di ciascun titolo. Questi cinque fattori, dunque, ad avviso della corte, collocano l’opera di digitalizzazione di Google – che pure ha fini commerciali, riguarda l’interezza delle opere, ed è stata svolta senza formale autorizzazione – entro i confini del fair use, cioè di una pratica legittima ed equa.

 

Da un punto di vista teorico, e in termini più specifici, è interessante innanzi tutto che la disponibilità di accesso ai libri offerta da una biblioteca digitale come la collezione di Google Books sia di fatto implicitamente equiparata alla pratica per così dire off-line del prestito bibliotecario, e interpretata in positivo come una sua estensione. Beni pubblici esclusivi come i libri di una biblioteca – posso liberamente e gratuitamente prendere in prestito un libro, ma se si tratta dell’unica copia nessun altro può leggere quel libro allo stesso tempo – grazie alla digitalizzazione diventano non esclusivi.

 

Che sia riconosciuta la legittimità della creazione progressiva di nuove possibilità di accesso alla fruizione permessa dalla trasformazione di beni esclusivi in beni non esclusivi, o che sia considerata ammissibile la replicazione virtuale e immateriale di un atto finora soltanto materiale, non è né banale né scontato, come dimostra la nota vicenda di Napster: posso prestare il mio CD a un amico senza che la società degli autori ed editori abbia alcunché da ridire, ma se “presto” l’mp3 dei pezzi contenuti nel medesimo CD a migliaia di “amici” mettendoli a disposizione su un sito di scambio peer to peer si aprono le cateratte dei cieli, e a poco vale appellarsi al paradosso del sorite. Una sentenza che inquadra positivamente la rimozione delle barriere materiali che limitano la diffusione delle opere d’ingegno attribuendo al valore sociale che ne deriva un peso maggiore rispetto alla semplice garanzia del monopolio sul diritto di copia, dunque, è indice di un notevole mutamento di rotta della giurisprudenza su queste materie.

 

Che poi un atto qualificabile prima facie come una violazione del copyright sia riconosciuto in seconda analisi e quanto ai suoi esiti non solo legittimo, ma anche socialmente commendevole e politicamente raccomandabile, bisogna dirlo, è stuzzicante. Questa sentenza prende posizione in materia valutando che l’operato di Google, per quanto fosse formalmente illegale nel momento in cui è stato compiuto originariamente, ha avuto esiti socialmente vantaggiosi nell’interesse comune. Raramente finora si era derogato all’inviolabile sacralità del copyright, difeso dagli interessi di un oligopolio tenace e influente.

 

Almeno sul piano formale, si tratta di un precedente che potrebbe avere un peso decisivo nel destino giudiziario di molte pratiche di hacktivism riconducibili allo stesso schema. Per esempio, chi restituisse al pubblico accesso i risultati di ricerche scientifiche svolte da dipendenti pubblici come i docenti universitari, finanziate con fondi tratti dalla fiscalità generale, compirebbe sì un atto di pirateria informatica, ma in vista di un interesse più alto e di un principio prevalente di equità. In ogni caso questa sentenza ricolloca la questione del diritto di copia in un orizzonte più vasto, dove la garanzia del diritto d’autore deve armonizzarsi con le istanze della libera diffusione del sapere, del progresso delle scienze, della possibilità di accesso alle conoscenze e dell’impulso alla creatività.

 

 

Poco importa dunque, almeno da questo punto di vista, che il risultato sia stato ottenuto da un soggetto la cui quotazione in borsa sfiora i duecentocinquanta miliardi di dollari, cioè largamente in grado di retribuire orde di azzeccagarbugli capaci dei sofismi più bizantini, perché la controparte non era da meno. In altri termini, per quanto critica possa essere nei confronti di Google su altri fronti, una lettura progressista di questa vicenda nel contesto generale della questione della proprietà intellettuale e del diritto di copia deve concentrarsi sui suoi potenziali sviluppi progressivi, perché c’era poco da parteggiare a priori per l’uno o l’altro dei contendenti.

 

Questa sentenza, insomma, mette in rilievo gli effetti positivi dell’operato di Google nell’ambito del progresso scientifico e sociale, e li considera prevalenti. Quanto al tema specifico del diritto di copia, poi, la corte valuta che l’intervento del programma di digitalizzazione sulle opere, per quanto esteso, sistematico e automatizzato, e dunque non autoriale, almeno non secondo i canoni tradizionalmente intesi dell’autorialità, può nondimeno considerarsi creativo e innovativo, il che lo differenzia rispetto a una semplice – e fraudolenta – riproduzione di materiali protetti.

 

Sul piano politico come dal punto di vista giuridico, la principale obiezione che si può far valere – il cui più influente portavoce nel dibattito culturale è Robert Darnton – è la posizione di monopolio che Google va consolidando nel campo dell’accesso all’informazione libraria (e all’informazione tout court). Proprio su queste basi, infatti, lo stesso giudice che ora dà ragione a Google, in passato aveva respinto l’accordo stipulato con la Gilda degli autori e quella degli editori, cioè la versione aggiornata del famoso Google Settlement.

 

Per altri aspetti, poi, che il trattamento trasformativo di grandi masse di dati senza previa autorizzazione guadagni in legittimità non è una buona notizia da ogni punto di vista, perché questa apertura rischia di sgomberare la strada anche a pratiche di immagazzinamento e analisi di dati svolte con altre finalità, anche a fini di spionaggio, sorveglianza e controllo. Sono argomenti che possono valere nelle aule dei tribunali statunitensi, ed è bene che ciò avvenga. Ma ovunque nel mondo, e qui in Italia, la battaglia per l’accesso all’informazione e per la libera circolazione del sapere va combattuta sul fronte della politica istituzionale, e prima ancora su quello della cittadinanza attiva. Ancora oggi la patria di Aldo Manuzio contribuisce soltanto per il 7% ai fondi di Europeana, ma aspettando le prossime elezioni per eleggere un premier sensibile a questi temi, ciascuno di noi può già, tanto per fare un paio di esempi, caricare un testo su archive.org o contribuire a migliorare Open Library.

@andreavirgola

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