L’identità tra rete e “realtà”: I used to be Pamela

13 Maggio 2014

Prendiamo due situazioni qualunque della mia vita quotidiana: in una ci sono io che scambio due parole di circostanza col mio vicino di posto (già, ero in tribuna) aspettando il concerto dei Queens of the Stone Age; nell’altra ci sono sempre io, ma stavolta sto commentando una foto postata sulla pagina Facebook ufficiale della medesima band. Quale dei due contesti è più “reale”? Dove la mia identità è più “virtuale”? Sono domande che hanno segnato lo studio di Internet almeno dal 1984, l’anno in cui “The Second Self” di Sherry Turkle finiva sugli scaffali delle librerie. Ora che i pomeriggi passati a far finta di chiamarsi Pamela sulle chat anonime sono esclusiva di pochi nostalgici, i tempi sono maturi per un cambio d’approccio. Il “dualismo digitale”, ossia l’idea che vi sia una netta discontinuità tra il mondo sociale offline e quello online, ha finora dominato gran parte del discorso pubblico e accademico intorno ai social media. Peccato che, mentre veniva alternativamente dipinto o come un cyber-spazio egualitario capace di garantire libere sperimentazioni identitarie o come un focolaio di pericolosa devianza sociale, il Web stava cambiando, e molto rapidamente.


Dal predominio del nickname a quello di nome/cognome/data di nascita; dal conoscere nuovi amici in chat al ritrovare i vecchi su Facebook – per non parlare dell’“amicizia” dovuta alla mamma, al capo e al vicino; dalla libertà espressiva del gender swapping (il cambio di sesso “virtuale”) al controllo peer-to-peer dei nostri conoscenti, sempre ansiosi di smascherare un passo falso, manco fossero attivisti di Wikipedia. Una laurea millantata su Linkedin, una fidanzata immaginaria su Facebook, una citazione rubata su Twitter: orrore! E mentre nell’ultimo decennio l’utente anonimo diventava “nonimo”, l’utopia democratica si trasformava in distopia oligarchica e la presunta libertà mutava in tracciabilità, è divenuta sempre più palese l’impossibilità di segnare un netto confine tra identità e socialità fisica e digitale, offline e online. La penetrazione sempre più capillare dei social media nella quotidianità ha portato le nostre vite, le nostre “vere” vite, ad immergersi sempre più placidamente nel territorio digitale. È difficile ricordarsi se una conversazione abbia avuto luogo su Facebook, via SMS, via WhatsApp, via Skype, telefonicamente o dal vivo; forse questo perché non percepiamo nessun confine significativo tra situazioni sociali delimitate elettronicamente e fisicamente. Tornando all’identità, questo non si traduce con “siamo sempre gli stessi, online e offline” ma, piuttosto, con “non siamo mai gli stessi, né online né offline”.


L’identità non va considerata come una proprietà stabile dell’individuo, ma come la risultante di un processo sociale, un equilibrio transitorio e, soprattutto, contestuale; perché è proprio il contesto in cui ci troviamo a co-costruire la maschera identitaria che comunichiamo – con le parole, il tono di voce, la postura, i vestiti che portiamo indosso. Che le identità degli “attori sociali” siano da considerarsi come agglomerati contradditori di “rappresentazioni” fatte di omissioni, iperboli e invenzioni narrative lo diceva (ben prima dell’arrivo di Internet) Erving Goffman, il quale enfatizzava il carattere artificiale, drammaturgico, strategico delle presentazioni del self (il “Sé”, definito in termini filosofici, psicologici e sociologici) giocate sui molteplici palcoscenici della vita quotidiana.


Dagli anni ’50 ad oggi il numero dei palcoscenici sociali a disposizione è cresciuto in maniera esponenziale, in particolare per i membri delle classi privilegiate del mondo. Se le identità pubbliche del tipico italiano di inizio ’900 erano in sostanza quelle del padre di famiglia (a casa), del buon cristiano (in chiesa), del bracciante (al lavoro) e del re della briscola (al bar), oggi le nostre sfaccettature identitarie non si contano più. Si tratta di un processo di espansione che, nella vivida descrizione di Joshua Meyrowitz, inizia con il diffondersi dei media elettronici tradizionali (televisione in primis), che avrebbero contribuito all’indebolimento delle storiche identificazioni religiose, di genere, di classe e alla creazione di nuove identificazioni, fluide e de-localizzate. La nuova mediatizzazione digitale ha ulteriormente accelerato il medesimo fenomeno, incrementando sia il repertorio di parti che possiamo recitare, sia il numero delle situazioni adatte per la messa in scena. Per condividere la mia identità di fan dei Queens of the Stone Age non devo più aspettare di trovarmi fisicamente al concerto, ma posso interagire quotidianamente online con migliaia di fan come me. La realtà sociale contemporanea, usando le parole di Nathan Jurgenson, è “aumentata”.


Certo, passando dagli atomi ai bit una differenza c’è, ed è enorme: sui social media vige il “digito ergo sum”. Scegliamo le foto “adatte” da caricare e le pagine “giuste” alle quali dare un like, così come quali brani ascoltare pubblicamente su Spotify e quali no. È una scelta riflessiva e sempre intenzionale. Sul Web non si arrossisce e non si inciampa, la comunicazione è unicamente volontaria, e così la “rappresentazione” goffmaniana può procedere teoricamente senza intoppi. Anche se, in realtà, in alcuni contesti digitali fortemente “ancorati” alla vita sociale offline – come Facebook – la norma comunitaria implicita è quella della verosimiglianza, e la costruzione dell’identità individuale assume marcatamente i tratti di una pratica collettiva. Non puoi continuare ad avere come unica foto quell’orsetto soltanto perché non ti piaci esteticamente: i tuoi amici ti “taggeranno”, tu ti “staggerai” dalle foto più improponibili, ma prima o poi dovrai cedere alla legge non scritta del “sii come sei veramente”. Oggi che in Italia di utenti Facebook attivi ne abbiamo 26 milioni, a suonare virtuale e flessibile sembra piuttosto la nostra identità al parco o al pub, senza i nostri dati anagrafici e libri preferiti perennemente incollati in fronte.


Nel 2012 La Stampa, riportando i dati di un sondaggio certo non indimenticabile, titolava “La vita virtuale non è reale, lo dice Intel”. Di esempi come questo ce ne sarebbero a bizzeffe. Ci siamo intestarditi sul confine tra online e offline, dimenticandoci che sia l’ambiente fisico che quello digitale sono estremamente variegati al loro interno, scomponibili in contesti sociali dove è più o meno possibile costruirsi un’identità virtuale – al bancone del bar come nel forum online, alla cassa del supermercato come nella chat anonima.


A perdere consistenza dunque non è tanto l’aggettivo “virtuale”, quanto piuttosto “reale” – il suo sacro, intoccabile opposto. Il sociologo Manuel Castells lo scriveva già nel 1996: “quando i critici dei media elettronici […] affermano che il nuovo ambiente simbolico non rappresenta la ‘realtà’, si riferiscono implicitamente a una nozione assurdamente primitiva di esperienza reale ‘non codificata’ che non è mai esistita. Tutte le realtà vengono comunicate attraverso simboli. […] In questo senso, tutta la realtà è percepita in maniera virtuale”.


@massimoairoldi

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