Paul Erdős / Matematica del caffé
“Un matematico è una macchina per trasformare caffè in teoremi.” Amava ripeterla spesso, questa boutade, Paul Erdős, noto per essere stato il solutore di problemi matematici forse più prolifico, e certamente più eccentrico, del secolo scorso.
Nato a Budapest nel 1913 da una famiglia di origine ebraica, Erdős abbandonò l’Europa nel 1934 per sfuggire alla minaccia del montante antisemitismo, e approdò all’Institute for Advanced Study di Princeton. Quando al fisico Leó Szilárd – uno dei primi a intravedere le possibilità, anche nefaste, di sfruttamento dell’energia nucleare – fu domandato, negli anni ’50, se credesse all’esistenza dei marziani (un tema all’epoca piuttosto in voga), rispose: “Sono già tra noi, si fanno chiamare ungheresi.” Del gruppo di scienziati marziani che Szilárd aveva in mente facevano parte, oltre a lui stesso, John (János) von Neumann, Eugene (Jenő) Wigner, Edward (Ede) Teller, György Pólya ed Erdős.
Autore di quasi 1500 articoli, molti dei quali in collaborazione e tutti di alto livello scientifico (“non numerantur, sed ponderantur” era un altro dei suoi motti), Erdős, negli ultimi venticinque anni almeno della sua vita, condusse un’esistenza a metà strada tra quella di un monaco e quella di un clochard. Senza fissa dimora, senza affetti famigliari, “he lived out of a shabby suitcase” (così il suo biografo, Paul Hoffman), vagabondando da un convegno all’altro e da una conferenza all’altra, e alloggiando il più delle volte in casa di uno dei suoi numerosi collaboratori. Si presentava non di rado senza preavviso e annunciava: “My brain is open.” Come ospite era un disastro, essendo del tutto incapace di sbrigare qualsiasi faccenda domestica, anche se si accontentava di poco. Un bicchiere di succo di pompelmo o di pomodoro, una tazza di caffè – l’essenziale era mettersi presto al lavoro su qualche nuovo problema.
La frase che ho citato all’inizio, a quanto sembra, non fu pronunciata per la prima volta da Erdős, ma da un altro matematico ungherese, Alfréd Rényi, in una conversazione con il primo: dunque, non in inglese, come viene quasi sempre citata, bensì nella loro comune lingua madre. I due scrissero insieme oltre trenta articoli di matematica, il più importante dei quali è quello, pubblicato nel 1959, sui “random graphs”.
Sarebbe vano, oltre che inopportuno, tentare di spiegare in poche righe che cosa mai sia un grafo aleatorio. Basterà sottolineare una piccola curiosità. Sebbene concepiti dall’immaginazione creativa di Erdős e Rényi per scopi esclusivamente teorici (e piuttosto astrusi), i grafi aleatori hanno in seguito trovato svariate applicazioni in altre discipline scientifiche, soprattutto in relazione alla cosiddetta teoria della percolazione.
Questa teoria fornisce modelli per descrivere una moltitudine di fenomeni diversi, quali il drenaggio delle acque nel terreno, la diffusione di epidemie in una popolazione, e anche – come il suo stesso nome indica – il processo mediante il quale l’acqua bollente, in una moka o in una macchina da bar, attraversa il filtro riempito di grani di caffè tostati e macinati e produce la bevanda profumata che sorbiamo dalla tazzina. Insomma, dal caffè ai teoremi, e dai teoremi di nuovo al caffè: forse i matematici, se si deve credere a Erdős e a Rényi, possono diventare macchine a moto perpetuo.
La rapida diffusione del caffè nell’Inghilterra puritana del Seicento e, successivamente, nel resto d’Europa fu dovuta – secondo la tesi avanzata dallo storico Wolfgang Schivelbusch – alla sua virtù di non provocare la demoniaca ebbrezza delle bevande alcoliche, agendo invece come benefico stimolante dell’intelletto e, al contempo, come inibitore degli impulsi sessuali. Non è dato sapere quanta importanza avesse per il monacale Erdős questo secondo (almeno ipotetico) effetto; di certo, ne aveva il primo, visto che, per sostenere i forsennati ritmi di lavoro che si autoimponeva, il matematico ungherese, oltre a consumare copiose quantità di caffè e di barrette alla caffeina, ricorreva anche a droghe ben più potenti, come la Benzedrina e il Ritalin.
L’azione del caffè quale stimolante della creatività matematica – sebbene manchino esempi iconici paragonabili a quello di Balzac e della sua cafetière veilleuse – è documentato almeno in un altro caso celebre. Henri Poincaré, uno dei grandi protagonisti della scienza tra fine Ottocento e inizio Novecento, affronta in un articolo del 1908, originariamente pubblicato su una rivista di psicologia e poi ripreso in Science et méthode, il tema dell’invenzione nel campo della matematica. Per avvalorare la tesi secondo cui l’invenzione è l’esito di un lungo “lavoro inconscio”, guidato dalla “sensibilità estetica” che si manifesta a livello cosciente sotto forma di improvvise “illuminazioni”, Poincaré rievoca, in pagine di sapore quasi proustiano, le proprie esperienze personali.
Da quindici giorni – racconta, riandando con la memoria al 1880 – si cimentava con un difficile problema matematico riguardante certe particolari funzioni. “Ogni giorno rimanevo una o due ore seduto a tavolino, provavo un gran numero di combinazioni e non giungevo ad alcun risultato. Una sera, contrariamente alle mie abitudini, bevvi una tazza di caffè nero e non riuscii a prender sonno: le idee scaturivano in una ridda, le sentivo quasi cozzare le une con le altre. Fino a quando due di esse non si agganciavano, per così dire, a formare una combinazione stabile. Al mattino avevo stabilito l’esistenza di una classe di funzioni fuchsiane, quelle che derivano dalla serie ipergeometrica.”
Ma se si pensa agli effetti del caffè sull’attività intellettuale, non ci si può limitare soltanto alla bevanda in quanto tale: occorre considerare anche il luogo di ritrovo, il locale pubblico che da quella bevanda prende il nome. Dalle prime coffee-houses aperte a Londra a metà del Seicento al parigino Café Procope fino al Café Central e allo Herrenhof della Vienna fin-de-siècle, per menzionare solo pochi esempi, il ruolo svolto dai caffè nella storia della letteratura, dell’arte e del pensiero filosofico è ben noto: luoghi di ritrovo, zone franche per la discussione e il confronto, spazi nei quali è anche possibile isolarsi, leggere e pensare. Due caffè hanno segnato più di altri la storia della matematica del Novecento.
Nell’inverno 1934-1935, a Parigi, un gruppo di amici – tra i quali Jean Delsarte, Szolem Mandelbrojt, Jean Dieudonné, Henri Cartan e André Weil – prende l’abitudine di incontrarsi al Café Grill-Room La Capoulade (oggi scomparso), in Boulevard Saint Michel. È questo l’atto di nascita di Nicolas Bourbaki, il matematico collettivo che con la sua opera Éléments de mathématique, articolata in numerosi volumi, tanto supremamente astratti quanto originali, avrebbe trasformato in profondità la concezione complessiva di questa scienza e il suo stesso linguaggio.
Più o meno negli stessi anni in cui Bourbaki metteva in cantiere i primi fascicoli del suo monumentale trattato, tra il 1935 e il 1941, nella città, allora polacca di Lwów (L’viv in Ucraino, Leopoli in italiano), una compagnia di tipi piuttosto anticonformisti si ritrova quasi ogni sera nell’affollato Kawiarnia Szkocka, il Caffè Scozzese. Stefan Banach, Stanisław Mazur, Hugo Steinhaus, Karol Borsuk, Stanisław Ulam non consumano solo caffè, è pur vero, ma si danno anche ad abbondanti libagioni di birra: e discutono di topologia, di analisi funzionale di teoria degli insiemi, azzardano congetture, si sfidano proponendo problemi che vengono annotati in un apposito registro, tenuto in custodia dal gestore del locale. A queste riunioni, per lo più chiassose, partecipano occasionalmente come ospiti illustri matematici forestieri che si trovano di passaggio a Lwów. Anche loro sono invitati a cimentarsi con i problemi già inseriti nel registro del Kawiarnia Szkocka e a suggerirne di nuovi. Nel luglio del 1937 John von Neumann, sempre perfettamente a proprio agio nelle occasioni conviviali, propone un arduo quesito sulle algebre booleane mettendo in palio per il solutore una mai assegnata “bottiglia di whisky di misura maggiore di 0”.
Ma quella dei rapporti tra whisky e matematica è un’altra storia.
Questo testo è estratto da Pantagruel, n. 1, “La filosofia del cibo e del vino”, a cura di Elisabetta Sgarbi e Massimo Donà, ed. La Nave di Teseo, pag. 941, che ringraziamo.