RADIOGENIE / Andrea Camilleri e la radio: un’ipotesi di radio futura

27 Ottobre 2019

Inizia oggi "Radiogenie", una nuova rubrica a cura di Tiziano Bonini e Rodolfo Sacchettini, uno spazio dedicato alla cultura dell'ascolto, ai suoi autori, alla rinascita dei contenuti sonori e dei generi radiofonici su altri supporti (smartphone, podcasting).

 

Dai microfoni di Radio Uno le parole di Andrea Camilleri rivolte al pubblico hanno più la durezza dell’ammonimento che la cordialità dell’invito: «Da troppo tempo gli addetti ai lavori della Rai sono condizionati dalla routine e sono poco aperti alle proposte degli ascoltatori… d’altronde si rischia di cadere nella demagogia. La piazza, manipolata dalla società di massa, quando ha fatto richieste giuste? (…) Teniamo presente che la Rai, quando è diventata più democratica, non è stata mai superficiale (…). Il problema di fare cultura oggi è molto più difficile. Cerchiamo dei prodotti radiofonici da mandare in onda, che provino a interpretare la realtà in cui viviamo… L’invito è a opere originali, non a deliranti monologhi, sfoghi narcisistici, letture di poesie o imitazione di programmi già esistenti. La sfida è a ciò che è vecchio, falso e inutile». 

 

È una trasmissione a puntate, che si inaugura alla fine del 1976 e si intitola Tentazione ovvero invito alla radio. Gli autori sono Camilleri e Marcello Sartarelli. Gli ascoltatori possono inviare prodotti radiofonici, dunque non copioni, bensì registrazioni, opere audio. Arrivano molte audiocassette, da poco diffuse sul mercato italiano. Di interessante però c’è poco. Allora Camilleri presenta radiodrammi sperimentali recenti, li commenta, li discute e poi tenta di definire lo ‘specifico radiofonico’, cioè quell’idea, quella trovata che rende un testo perfetto per la messa in onda. Nei due anni precedenti Camilleri ha realizzato una dozzina di regie di Le interviste impossibili, la trasmissione che riesce a radunare alla radio metà società letteraria, un trionfo, ma anche la fine di una storia, quella che racconta di un rapporto privilegiato ed esclusivo tra scrittori, letterati e mezzo radiofonico. Camilleri è diventato uno dei registi radiofonici più accreditati e più amati dai letterati. In realtà alla radio da molti anni ha affiancato anche l’attività di regista televisivo e delegato della produzione.

 

Eppure con la radio continua a mantenere un rapporto speciale. Quando invita gli ascoltatori a produrre opere radiofoniche, a raccontare la mutazione dei tempi, Camilleri ha alle spalle già vent’anni di carriera e un migliaio di regie, tra teatro radiofonico, radiodrammi, trasmissioni culturali, sceneggiati a puntate. Non è autore di testi, ma adattatore e regista.

Il suo debutto alla radio ebbe un sapore simbolico: nel ’61 cura la regia di Finale di partita di Samuel Beckett, che aveva messo in scena per primo in Italia nel 1958 (ne realizzerà anche una versione televisiva nel 1977 con Renato Rascel). L’anno successivo, nel 1962, vuole far conoscere agli ascoltatori italiani un giovane drammaturgo inglese che arriva dopo la stagione del teatro dell’assurdo. Si chiama Harold Pinter e per le sue opere si comincia a parlare di ‘teatro della minaccia’, perché i personaggi sembrano assediati da una minaccia che prima pare provenire dall’esterno e alla fine si rivela sempre interiore. Il dramma Un leggero malessere è perfetto, perché rappresenta una sorta di manifesto, ma c’è un problema: uno dei personaggi principali, il vecchio venditore di fiammiferi, è muto. Sul palcoscenico di un teatro il muto può funzionare, ma alla radio chi sta zitto non esiste. Camilleri però non desiste. Chiama un giovane attore promettente dell’Accademia, l’allora sconosciuto Carlo Cecchi, e del muto ne fa un vecchio asmatico. Lo racconta molti anni dopo a Loredana Lipperini a Radio 3 Rai: «Cecchi costruì una straordinaria partitura di respiri ora lenti, ora affannosi, come se parlasse».

 

Spiccata capacità nell’interpretazione dei testi, abilità nel trovare soluzioni registiche che esaltino il valore della parola, straordinaria elasticità professionale nel percepire i cambiamenti e le nuove necessità: sono queste le qualità che fin da subito si riconoscono al giovane Camilleri, formatosi a fianco di Orazio Costa all’Accademia d’arte drammatica, e assunto alla Rai con tre anni di ritardo, nel 1957, perché, secondo la dirigenza, proveniente da una famiglia ‘troppo’ comunista.

Però non è solo una questione letteraria. Alle orecchie di Camilleri i rumori della radio suonano vecchi. La lunga stagione delle porte che si aprono e si chiudono, dei passi della persona che si avvicina o si allontana, ricreati in studio, va terminando. La tecnologia, grazie anche alle sperimentazioni dei Centri di fonologia, ha compiuto passi da gigante. E compito del regista non è più solo sonorizzare il testo in maniera realistica, orchestrare le voci e determinare il ritmo. Il margine di autorialità cresce. E il primo cambiamento riguarda la qualità del suono.

 

 

Nel 1964 – lo stesso anno della messa in onda di Se questo è un uomo – Camilleri realizza la regia del radiodramma Il Sindaco di Nicola Manzari. Già in tempo di guerra Manzari aveva scritto per la radio, in particolare per Il Terziglio di Silvio Gigli, vera palestra per giovani umoristi e futuri artisti, come Fellini, che aveva debuttato proprio lì con le scenette dei due fidanzatini Cico e Pallina. Immaginate un paesino, non troppo lontano da Bari, abbandonato dai suoi abitanti, che hanno deciso tutti di emigrare. Ne è rimasto uno solo. Si è autoproclamato sindaco. Poi improvvisamente arriva una giovane ragazza straniera bella e curiosa. Chi abitava il paese? Perché se ne sono andati? Scattano ricordi e riflessioni, mentre passeggiano per le strade deserte e cresce la complicità con un finale forse prevedibile. Eppure c’è qualcosa di nuovo, tutto suona diverso. Le voci sembrano inchiodate negli spazi vuoti, hanno un riverbero molto realistico. E l’ascoltatore è come se precipitasse tra i palazzi abbandonati. Anche il silenzio è diverso, più sporco, meno ovattato. E così il mare: sembra di sedere sul bagnasciuga, perché il rumore arriva a ondate con lo spostamento dell’aria. La novità è che per la prima volta in Italia, grazie al nastro magnetico e ad agili registratori, tutte le riprese di un radiodramma si svolgono in esterni. Nessun dialogo e nessun rumore è realizzato in studio. Il mare perde di rotondità e di astrazione e acquista complessità e realismo. Finisce l’era delle bacinelle piene d’acqua. Si aprono le porte anche agli attori non professionisti per restituire spontaneità alla parlata dialettale.  Il pulito realismo radiofonico degli anni Cinquanta cede il passo alle impurità documentaristiche della presa diretta.

 

Dieci anni dopo, con migliaia di ore di registrazione alle spalle, Camilleri continua a sperimentare. Il nastro magnetico si è diffuso ovunque. E alla Rai sono in dotazione nuovi leggeri registratori portatili, i Nagra, ottimi per inchieste e documentari. Nel 1973 la stagione dei documentari radiofonici ha già dato i suoi migliori frutti. Però le nouvelle vague, che investono cinema, teatro, musica, arte e letteratura, da qualche anno sono arrivate anche alla radio, hanno rimescolato le carte e in alcuni momenti hanno rivoluzionato il linguaggio, grazie soprattutto all’opera di una nuova generazione di registi come Giorgio Pressburger, Giorgio Bandini, Carlo Quartucci, Giuliano Scabia… 

Camilleri è interessato soprattutto a un radiodramma fatto di parole, parole poetiche. Per cui il suono, le voci e il ritmo, tornano a essere fondamentali. Ma l’orchestrazione non segue i dettami del realismo, al contrario si cerca di seguire le regole della poesia, della sua potenza evocatrice. È il caso di L’ascesa dell’Effe 6 di Wystan Auden o nel 1968, dell’opera sperimentale Protocolli di Edoardo Sanguineti e la musica di Sylvano Bussotti: «E adesso schiàcciati gli occhi, sfregateli, con le dita, adagio…», mentre la voce acquista un crescente riverbero e invita a un viaggio interiore dove carpire i veri colori del mondo.

Nel 1973  Camilleri realizza il suo capolavoro. Da regista si trasforma in autore, non di testi però, ma di ‘scrittura su nastro’, inventando con l’etnomusicologo Sergio Liberovici un documentario radiofonico che è entrato nella storia della produzione italiana: Outis Topos. Un’ipotesi di radio futura. Su invito della Rai – come racconta agli amici di Radio 3 Rai e in particolare a Lorenzo Pavolini – i due autori si recano alla Barriera di Milano, nella Torino nord, dove vive un sottoproletariato urbano a forte immigrazione meridionale. Individuano la piazza centrale e costruiscono una baracca in legno su cui fissano degli altoparlanti. Trasmettono canzoni alla moda per attirare i passanti che, incuriositi, si avvicinano. Vogliono compiere «un esperimento di autogestione del mezzo radiofonico da parte dei cittadini».

 

Gli abitanti che aderiscono al progetto vengono divisi in gruppi, ai quali viene consegnato un Nagra. Sono loro stessi a raccontarsi e a far emergere le problematiche più urgenti del proprio quartiere (sfratti, caro vita, disoccupazione etc.). Anche Camilleri e Liberovici compiono registrazioni, recandosi nelle scuole, ai cancelli della fabbrica, entrando nelle case. Così la vita del quartiere prende corpo dalle voci dei suoi abitanti. I programmi vengono fatti ascoltare in pubblico. La piazza è gremita. Ed è un successo. Si respira un clima da assemblea pubblica. Dalle duecento ore di nastri registrati Camilleri e Liberovici realizzano una specie di taccuino di frammenti, condensato in quarantacinque minuti. Un lungo lavoro di montaggio che trasforma il materiale grezzo in un prodotto compiuto. L’opera vince il primo premio del concorso speciale indetto in occasione dei cinquant’anni dalla nascita della radio al Prix Italia 1974.

Dare voce a chi voce non ha, perché «la radio deve non solo trasmettere ma anche ricevere, non deve solo far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche farlo parlare», lo scrive nell’introduzione e sembra di sentire Brecht alla fine degli anni Venti, quando si immaginava una radio capace di trasmettere «punto a punto», come una ricetrasmittente, e con la forza di andare contro il ‘potere’. Outis topos è un’opera che sta su un crinale della Storia. Prima dell’esplosione delle radio libere, intercetta pienamente quelle che sono le nuove istanze di partecipazione, di racconto, di rappresentanza. La voce degli ascoltatori si può sentire alla radio solo da pochi anni nella trasmissione Chiamate Roma 3131, che ha introdotto per la prima volta alla radio la chiamata telefonica del pubblico. Outis topos è un documentario che mette a tema la questione. Lo spazio del racconto è affidato anche alle parlate dialettali e a modi di dire popolari.

 

La voce è la cartina di tornasole di sesso, età, provenienza geografica, classe sociale, atteggiamento caratteriale (rassegnazione, rabbia, riscatto…). Si crea perciò una dimensione sonora che è esattamente opposta alle voci convenzionali della radio, alle voci “radiogeniche”, chiare, neutre, dalla dizione ipercorretta.

Camilleri capisce molto bene che i tempi sono maturi: la radio ha l’occasione di dare spazio al proprio pubblico e così far conoscere le opinioni, i pensieri, le biografie di gente ‘normale’. Ascoltare le voci della gente alla radio è una sorpresa. Incuriosisce. L’intervistatore scompare, rimane dietro le quinte, è confuso tra la gente. Si creano le condizioni per far emergere pezzi di realtà, apparentemente senza filtri, invece frutto di un attento lavoro di montaggio che permette di intrecciare le voci, metterle a confronto, creando assonanze o dissonanze. Un metodo di lavoro moderno, oggi abituale, all’epoca all’avanguardia, che Camilleri mette a punto anche in un’altra occasione, quando, sempre nel 1973 va a raccogliere le discussioni, le chiacchiere, le opinioni di cittadini di Fiumicino, di ragazze dell’Istituto Nazareth di Roma, di bambini rinchiusi in orfanotrofio, e compone Sinfonia di voci. Natale 1973.

 

Il clima dell’assemblea, tipica forma di aggregazione giovanile negli anni Settanta, trova un esito radiofonico particolarmente felice. Così si ascoltano le intime o aggressive confessioni di giovani studenti che contestano il Natale come festa borghese o lo difendono, ma solo a certe condizioni. Tra slogan, frasi fatte, sincero desiderio di confronto nello spazio di pochi minuti si riesce a dare un bello spaccato generazionale. E non si tratta propriamente di giornalismo, perché la cura registica e la scrittura su nastro (cioè un consapevole montaggio autoriale) sono a servizio di un’invenzione tutta radiofonica che esalta le qualità del mezzo e ne sperimenta i limiti. Così come accade anche nel 1976 per una nuova piccola inchiesta d’autore su Il sogno: cosa sognano gli italiani di oggi? E come interpretano i loro sogni? Camilleri, che per tutta la vita è stato uno straordinario narratore orale, è tra i primi in Italia a capire che la radio è capace di raccogliere e diffondere – cioè mettere in condivisione – anche le minute storie di un popolo in trasformazione, prima dell’esplosione delle radio libere e del boom delle televisioni private che cambierà radicalmente la percezione della “gente” comune. La sua radio è un grande orecchio che sa ascoltare e vuole capire.

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