Mathias Énard, ricostruire il Mediterraneo
Mathias Énard è uno scrittore d'eccezione in Francia. Esempio più unico che raro nell’universo letterario d’Oltralpe, è uno dei pochi autori di successo che preferisce scrivere piuttosto che apparire; che si trova più a suo agio sulle poltroncine dei treni – preferibilmente di seconda classe e dirette verso sud-est – che su quelle dei palcoscenici televisivi o dei salotti letterari; che preferisce la vita vera alla sua sterile sublimazione narrativa; Barcellona – porto di mare dove vive dal 2000 e insegna l’arabo all’università – a Parigi, che sembra ormai un museo delle cere dell'élite editoriale francese. Proprio come per Blaise Cendrars e il collega scrittore e giornalista Olivier Rolin – autori ai quali spesso è paragonato e a cui lui stesso ammette di ispirarsi – anche per Énard la letteratura non può e non deve essere un semplice esercizio di stile, ma uno sguardo su ciò che accade nel mondo.
Fin dall’inizio della sua carriera universitaria, Mathias Énard ha cercato con sistematica caparbietà di spostare il baricentro dei suoi interessi – e, di conseguenza, di quella che sarebbe divenuta la sua materia romanzesca – lontano dal suo Paese. Nato nel 1972 a Niort, capoluogo di un dipartimento dell’ovest della Francia, Énard ha studiato il persiano e l’arabo all’Istituto nazionale di lingue e civiltà orientali (INALCO) di Parigi. Dopodiché sono iniziati i suoi lunghi soggiorni in Iran, Egitto, Libano, fino al trasloco a Teheran, dove ha frequentato l’università per perfezionare lo studio del persiano, lingua dalla quale traduce tuttora. I suoi viaggi in Medio Oriente e lo sguardo attento e documentato sui conflitti che non smettono di lacerare quelle terre costituiscono il nucleo narrativo di Zona, il romanzone pubblicato in Francia nel 2008 che gli è valso la consacrazione letteraria in patria (Prix Décembre e Prix du Livre Inter) e che lo ha rivelato alla critica e al pubblico italiano grazie alla traduzione pubblicata da Rizzoli (2011).
Più che un romanzo, Zona è un interminabile flusso di coscienza, “una frase di 500 pagine”, senza punti e senza maiuscole, recitata tutta d’un fiato dalla voce narrante durante un viaggio in treno da Milano a Roma. Grazie ad un sapiente utilizzo delle digressioni, all’interno del monologo del narratore Francis Servain Mirkovic – un membro dei servizi segreti che sta per vendere a un agente del Vaticano una cartella piena di documenti top secret raccolti nel corso della sua carriera – c’è di tutto: i ricordi della gioventù militante con l’estrema destra nazionalista, le battaglie selvagge in Croazia e Bosnia, le missioni da agente segreto in Medio Oriente, le incursioni in Egitto o in Algeria, i suoi amori e le sue delusioni sentimentali. In 24 capitoli – che fanno allusione agli altrettanti canti dell’Iliade – Énard ci propone un caleidoscopio delle guerre e dei massacri che hanno segnato il nostro continente nell’ultimo secolo. Il risultato è una prova di lettura intensa e un’esperienza intellettuale claustrofobica che non concede un attimo di respiro.
Come avviene in quasi tutti i romanzi di Énard, anche quella di Zona è una storia raccontata in prima persona. Questa necessità stilistico-espressiva si rivela essere un’autentica strategia narrativa in grado di evitare che la cultura enciclopedica dell’autore imperversi senza ritegno, mitigandone il rischio di pedanteria e trasformando i riferimenti storici e contestuali in uno sfondo attivo certamente essenziale, ma non a costo di soffocare la psicologia dei personaggi. Le voci narranti dei romanzi di Énard rappresentano quindi un valido strumento per guardare la storia attraverso il filtro narrativo dell’umano. Accade con il protagonista di Zona e le sue disavventure personali, ma anche con quello de La perfection du tir (La perfezione del tiro), il primo romanzo di Énard, in cui il diario di guerra di un cecchino ossessionato dalla perfezione potrebbe tranquillamente prescindere dal contesto storico, ovvero quella guerra civile in Libano mai citata dall’autore e tuttavia facilmente identificabile da chiunque sia stato almeno una volta a Beirut.
Lo stesso discorso vale per il suo ultimo romanzo, Via dei ladri (Rizzoli, 2014). Spacciato da molti critici come un meraviglioso affresco della “primavera araba”, il romanzo è prima di tutto il racconto del percorso di formazione di Lakhdar, un giovane marocchino di vent’anni, che, a dire il vero, la rivoluzione araba la sfiora appena, giusto il tempo di un salto a Tunisi. Così come noi lettori, che di quegli eventi percepiamo solo un’eco lontana. Sia la primavera araba che il movimento degli indignati sono eventi che risuonano nel testo di Énard, ma che viviamo solo attraverso gli occhi e le sensazioni di Lakhdar, le sue avventure erotico-sentimentali, i suoi innumerevoli lavori – da quello di trascrittore di documenti europei digitali a becchino per i corpi degli arabi affogati nel Mediterraneo, – il suo vagabondare come “un cane, un detrito vizioso schiavo dei propri istinti”.
Ciò che è di fondamentale importanza nei libri di Énard è dunque la scelta del punto di vista e la sua originalità. Un ottimo esempio in questo senso è Parlami di battaglie, di re e di elefanti (Rizzoli, 2013). Come raccontare in modo diverso lo shock culturale tra oriente e occidente? Ecco la soluzione proposta da Énard: prendere in prestito il punto di vista di Michelangelo e imbarcarlo in un’ipotetico viaggio a Costantinopoli, nel 1506, per esaudire la volontà del sultano Bajazet, ovvero progettare un ponte sul Corno d’oro – l’estuario che divide in due Costantinopoli, – impresa in cui il suo rivale Leonardo Da Vinci aveva fallito. Attraverso la quotidianità dell’artista fiorentino, per le strade brulicanti della città, così come nel suo atelier, i suoi incontri, le sue perplessità, il suo smarrimento, Énard cerca di ricucire a modo suo quella frattura apparentemente incolmabile tra la cristianità e il mondo musulmano che tanto lo addolora. E per farlo utilizza una medicina dai miracolosi effetti cicatrizzanti: l’arte.
Forse in molti non lo ricordano, ma Mathias Énard non ha aspettato queste ultime e fortunate traduzioni per sbarcare in Italia. Vi fece capolino per la prima volta nel 2009. Si trattava di un libro bellissimo e strambo che – forse proprio per questo motivo e nonostante le ottime critiche – rimase lontano dai riflettori. Si intitola Breviario per aspiranti terroristi. Lo pubblicò la casa editrice romana Nutrimenti e ricordo che quando afferrai il libro per la prima volta, la presentazione dell’opera mi stupì per la sua originalità: “Manuale di terrorismo destinato ai principianti, questo libro, corredato da una cinquantina di illustrazioni, informerà in maniera utile l’amante del saper vivere e, se necessario, del saper morire. Per saperne di più, approfitterà delle dieci lezioni di saggezza di un maestro in materie esplosive. Gli autori ci tengono a declinare ogni responsabilità relativa alle conseguenze estetiche, politiche o digestive legate alla messa in pratica dei consigli qui raccolti. Ogni somiglianza a persone presenti o future sarà di certo sorprendente, ma non impossibile”. Ecco l’esempio di un’allegoria ironica e riuscitissima che ricorda le opere di Swift e di Voltaire, un modo originale per denunciare il fondamentalismo islamico e le sue derive terroriste.
L’originalità delle opere di Énard, dunque, non risiede solo nel punto di vista, ma anche nel formato. Se il Breviario, infatti, si avventura nel campo del pamphlet satirico, L’alcool et la nostalgie (Alcol e nostalgia) è invece l’audace trascrizione di un racconto radiofonico, un genere di intrattenimento ancora molto diffuso in Francia su emittenti radiofoniche come France Culture. Efficace e intensa sia nella versione radiofonica sia in quella cartacea, questa storia ci riporta a bordo di un treno, sulla Transiberiana, e nella pelle di un altro personaggio totalmente enardiano, intento a riportare il corpo del suo amico defunto Vladimir nel suo villaggio natale.
Da Mosca a Novossibirsk, 4mila chilometri “di paesaggi ovattati e nevi immacolate” vissuti sul filo dei ricordi di un’amicizia vissuta al ritmo di droghe, amore e follia. Altrettanto interessante è la graphic novel Tout sera oublié (Tutto sarà domenticato), illustrata da Pierre Marquès (lo stesso illustratore del Breviario). Vi si racconta l’impresa di un artista che vent’anni dopo la guerra in ex-Jugoslavia è incaricato di progettare un monumento ai caduti che non sia “né Serbo, né Bosniaco, né Croato. Qualcosa che non sia di parte. Che tenga conto delle sofferenze di tutti”. Anche in questo caso è questione di arte – come nel caso di Michelangelo – e di punto di vista: la vicenda personale del protagonista alle prese con il rompicapo che gli è stato commissionato è il prisma attraverso cui si legge la storia “di una guerra dimenticata, più che terminata”.
L’immagine di scrittore viaggiatore, di "filosofo" brigante, di intellettuale anticonformista che Énard ha consegnato ai suoi lettori corrisponde perfettamente non solo al suo stile – sporco, bastardo, traboccante di odori esagerati, di colori accesi, di lenzuola da lavare, di polvere, di asfalto e di binari – ma anche alle sue scelte editoriali: membro del collettivo di scrittori che ha fondato la rivista (ora casa editrice) “Inculte” – una delle più originali del panorama editoriale francese, a cui si deve, tra l'altro, la traduzione in francese del mensile americano “The Believer” – Énard ha pubblicato la quasi totalità dei suoi libri per Actes Sud, una casa editrice di provincia (la sede legale è ad Arles, nel sud della Francia) che, anche grazie alle sue opere, si è lanciata nel novero delle migliori realtà editoriali francesi, come testimonia il Prix Goncourt ottenuto da Jérôme Ferrari nel 2012, che con il suo Sermone sulla caduta di Roma (E/O, 2013) ha tolto ai soliti giganti editoriali francesi il monopolio del premio. Aspettiamo con ansia che arrivi anche il momento di Mathias Énard, non tanto perché la sua opera abbia bisogno di un riconoscimento che ne confermi il valore letterario, ma solo per il gusto di vederlo in smoking. Almeno una volta.