Mile End. My land. Neverland
Zurigo, check-in desk dell’Easyjet, il ragazzo sorride, si direbbe stupito o forse contento di vedere il mio passaporto svizzero e passa all’italiano, stentato ma anche perché vorrebbe proprio usare la parola giusta. Oggi si può depositare pure il bagaglio a mano senza costi supplementari, e esaurite le poche informazioni, orario, gate, tempo per arrivarci, quasi faccio una domanda in più perché mi sembra un po’ deluso di non aver qualcosa di importante da comunicare, invece saluto e leggero me ne vado.
A Gatwick si cammina a lungo per il controllo passaporti, però subito dopo ecco i miei bagagli, la dogana non controlla i miei 30 pacchetti di sigarette a 3,50 fr. l’uno e vado verso il treno a passo spedito, conosco bene l’aeroporto e le opzioni per andare verso casa. Conosco bene la fila per fare il biglietto: a dipendenza di quanto ci metti prendi un treno diverso e cambia il percorso. Il cicaleccio dei viaggiatori, italiani, spagnoli, indiani, russi, spagnoli, italiani, è incalzato dagli addetti alla colonna che appena si libera un automatico gridano «Next one! Next one!!» come i tenenti nei film di addestramento reclute. Cresce l’ansia di riuscire a vedere in tempo il distributore libero quando arriverà il mio turno. Intanto il tempo, malgrado le esortazioni degli addetti, passa e non so più bene a che stazione mi conviene andare. Smanetto con il free wi-fi dell’aeroporto ma l’ipad è sordo alle grida di incitamento e tra valige e scatti in avanti mi arrendo, chiedo a un tenente quand’è il prossimo treno per Blackfriars. Snocciola informazioni in un guscio gutturale di inflessione londinese.
Capisco che tra 7 minuti c’è un treno per London Bridge poi altre cose da fare. Quando scatto solerte al mio automatico mi intasco due «Next one! Next one!!», i biglietti e un chilo di moneta, poi per dimostrarmi nonchalance prendo una Cornish pie al volo e corro al binario, dove non si può fumare, e mangiando cerco di connettermi al wi-fi per capire cos’erano quelle cosa da fare a London Bridge ma arriva prima il treno dell’informazione, e attendenti al binario iniziano a dire «Get in!» e già fischiano i fischietti mentre la gente si accalca nei vagoni centrali senza tempo per distribuirsi negli altri. Vagoni centrali stipati si sta in piedi, specchiati negli smartphone, e non c’è modo di procedere da un vagone all’altro. A London Bridge si esce sotto il vetro scosceso dello Shard (la scheggia) di Renzo Piano (o di Pusterla? «Vento d’altura, cieli a perpendicolo. Il mattino / oggi è una lastra di vetro verticale / da cui cadono cose»).
Amiri Shongeeth, Platform, Mile End. 2012
Decido di andare a piedi a Monument, dall’altra parte del ponte, e prendere la District line. La vista dal ponte è drammatica. A est il cielo è sereno, in lontananza i grattacieli anni ’80 di Canary Wharf, il Tower Bridge e la torre-prigione, la corazzata Belfast e il pullulare di nuovi grattacieli della finanza, il cheesegrater (la grattugia), il walkie talkie (o fryscraper: con la sua forma concava l’estate scorsa ha fatto da lente e sciolto le capotte delle auto parcheggiate lì sotto). A ovest il cielo è plumbeo ma il sole tramonta sotto la calotta di nuvole e getta una luce bellica sopra i mattoni della Tate Modern, spettrale su St Paul, incerta sul parlamento e via dicendo. Arrivato dall’altra parte il monumento che si chiama Monument, una colonna dorica di 62 metri, fa quasi tenerezza in confronto a tanto impero verticale, tanta capitale orizzontale. Quasi. È la colonna isolata più alta al mondo, costruita a 62 metri dalla bottega del fornaio del re dove nel 1666 ha avuto inizio il grande incendio di Londra. Un’iscrizione latina sul monumento accusava i cattolici (Popish frenzy) dell’incendio, e il poeta Alexander Pope, sentitosi tirato in causa, aveva risposto scrivendo: «Dove la colonna di Londra, puntata contro il cielo, / come un alto prepotente, alza la testa, e mente»).
Invece sul colonnato ridotto dei lampioni noto un cartello mai visto prima, che se la prende con chi getta mozziconi per strada con lo slogan “No ifs, no butts. Stub it. Bin it”, cioè qualcosa tipo “Poche storie. Spegnila. Cestinala”, con l’immancabile gioco di parole che non sto a tradurre. L’ultimo lampione della via è l’unico senza cartello e probabilmente anche l’unico in tutta la città a essere munito di dispositivo per spegnere e cestinare i mozziconi. In genere a Londra l’appello al senso civico si risparmia simili ipocrisie, in alcune zone, in alcuni treni e nella metropolitana, per esempio, semplicemente non ci sono cestini – la sicurezza ha la precedenza su tutto, e nei cestini e nei cassonetti erano esplose diverse bombe dell’IRA – ma ci si aspetta che la popolazione si porti con sé i propri rifiuti fino alla prima pattumiera, come in parte accade. Incuriosito dall’eccezione più tardi andrò a cercare informazioni su questa campagna, scoprendo che sebbene sia promossa da enti nazionali è attiva solo nello Square Mile, quindi la City, il centro finanziario di Londra. L’ipocrisia ha una sua sintassi, è una retorica che a volte pare voglia manifestarsi in quanto tale per dimostrare in modo ancora più eclatante la sua forza.
Questo è un esempio minimo. Un esempio buffo, e distante, sono i cartelli stradali in inglese e spagnolo che sull’isola anglofona di Trinidad si trovano esclusivamente nei luoghi visitati dal presidente venezuelano Chavez per dare l’impressione assolutamente infondata che l’isola fosse bilingue. Un esempio complesso, e altrettanto distante, è la retorica dell’eroismo e del sacrificio della Prima guerra mondiale, contro la quale hanno reagito gli scrittori che sono stati al fronte, Wilfred Owen, Robert Graves, Edward Thomas, Ernest Hemingway per dirne alcuni, rivoluzionando la storia della letteratura con un realismo rabbioso.
Esempio distante, ma così attuale se solo aggiorniamo le parole d’ordine: questo è quel che scrive Hemingway poco prima attraversare il lago Maggiore di notte su una barchetta a remi per approdare a Brissago e arrivare a Locarno (e fare un ritratto degli svizzeri che meriterebbe da solo un intero articolo) in Addio alle armi: “Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall’espressione invano... non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago... Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date”. Ho 600 sigarette con me. Mi propongo di lasciar cadere almeno 60 mozziconi in King William Street. Ecco il primo. Scendo in metropolitana.
Monument. Ho sceso, trascinando valige, almeno un milione di scale e la District line non circola per tutto il suo percorso, quindi mi incammino lungo i corridoi e le scale che collegano Monument, sottoterra, passando dal centro della terra si direbbe (o dalla Giudecca dei traditori dei benefattori, o contribuenti), a Bank (Banca). Lì la Central line mantiene la promessa e, messo in metro, dopo tre fermate sono alla mia stazione, Mile End, o my land.
L’ascesa dantesca al purgatorio trova conferma all’uscita della stazione dove un nero con una voce magnetica e infiniti gingilli sacri ci sprona al pentimento. È una domenica sera, il cielo è blu chiaroscuro, lasciata la strada di traffico si cammina lungo file di case vittoriane e edoardiane con salotti autunnali dietro l’ombra delle fronde nei giardinetti che danno sulla via, anche le cancellate sembrano morbide per tutti gli strati di pittura e il senso, strano, contraddittorio, irrisolto, di tornare a casa.
Mia figlia che non vedo da settimane sta facendo il bagno. Dopo un po’ arriva uno scrittore ottantenne di Trinidad, Earl Lovelace, che passa qui la notte, dopo essere stato al festival Babel a Bellinzona e aver fatto un giro della Svizzera, per tornare a casa domattina. Torniamo a parlare della forza dei Caraibi, la profonda stratificazione di culture che si traduce in libertà linguistica, da nessun’altra parte al mondo gli scrittori si appropriano così della lingua – che sia francese, spagnolo, inglese – e la contaminano con la vita del parlato, dei dialetti, dei creoli, e in questo modo la scrittura che aderisce alla realtà locale è abitata dalla voce umana, quella che parla al mondo. E della debolezza dei Caraibi, la mancanza di comunicazione e rapporto tra le isole. Ma Earl sposta sempre il discorso su un altro piano. A cosa servono queste forze o debolezze, qual è il punto? Vuole dire, cosa si cerca di scrivere, cosa si vuole fare accadere? E io che torno a casa così spaesato forse un po’ lo so: per dare voce e corpo a una poetica della relazione, che non smette di interrogare dove va (i nomi dei villaggi, i numeri delle strade) per capire da dove viene, che non arriva mai, che non torna mai uguale.
Articolo uscito su «La Regione Ticino»