Ogni lettore è Lìberos
La comunità del libro nata in Sardegna si prepara a replicare in tutta Italia con una campagna di equity crowdfunding: abbiamo chiesto a Francesca Casùla, co-fondatrice di Lìberos, di spiegarci come partecipare e sostenere il progetto.
A meno di due anni dalla vittoria al bando Che Fare, Lìberos ha lanciato una campagna di equity crowdfunding con l’obiettivo di esportare fuori dalla Sardegna un paradigma di comunità attorno alla filiera del libro che di fatto si è già affermato come modello di innovazione culturale in Italia. Come funziona la campagna? E perché è importante partecipare?
È importante precisare che Lìberos è un’associazione culturale, e tale rimane. Ad essere invece un’impresa culturale è la startup innovativa nata da alcuni soci dell’associazione per sviluppare il progetto in modo che crei vero sviluppo (leggi: occasioni di lavoro retribuito – ormai è necessario specificarlo – nel settore culturale): tenere in piedi un’intera filiera che comprende produttori (editori e scrittori) e commercianti (librai), oltre a soggetti non profit, è l’obiettivo primario per cui è nato Lìberos. Grazie alla vittoria del premio CheFare abbiamo avuto la possibilità di perseguire questo obiettivo in modo costante e strutturato, non cioè affidato ai ritagli di tempo e di energie che ciascuno poteva offrire, come inizialmente avevamo pensato, e in questi due anni dalla vittoria abbiamo portato a sostenibilità questo circuito. È evidente che un progetto etico che si sostiene con quello che fa e non per quello che è (non abbiamo nessun contributo istituzionale) di questi tempi ci rende molto orgogliosi.
È coerente con questo la scelta dell’equity crowdfunding (quella forma in cui, a fronte del contributo versato, si riceve un vero e proprio titolo di partecipazione a una società), rispetto al puro crowdfunding: non ci dispiacerebbe se qualcuno volesse sostenere il progetto perché ne riconosce il valore (soprattutto in termini culturali e sociali), ma la vera sfida è cercare persone e aziende che ne comprendano le potenzialità economiche, dirette e indirette, e che quando dicono “bisogna investire in cultura” non pensano che debbano farlo altri (la politica, per esempio) ma cominciano col farlo loro per primi. Penso ad esempio al nostro mondo, il mondo del libro: è vero, conosce una crisi mai vista prima, ma se pensiamo davvero di essere un settore dalle enormi potenzialità economiche, se pensiamo che un’alternativa a lasciar morire tutti i mestieri del libro esista, come possiamo convincere il resto del mondo a investire su questo, se non lo facciamo noi per primi? Ecco perché mi aspetto (nonostante le difficoltà tutte italiane evidenziate bene da una puntata di Report) che siano soprattutto gli attori della filiera del libro a cogliere per primi questa opportunità, e a dimostrare che ci credono non solo a parole e non solo coi soldi pubblici.
In Sardegna Lìberos ha coinvolto 130 comuni, 250 operatori del settore e una comunità di 7000 lettori. Vorrei chiederti da chi è composto il modello Lìberos e cosa lo rende differente dal contesto di disintermediazione che, dal self publishing all’e-commerce, contraddistingue il mercato librario su Internet. Quanto i due ecosistemi confliggono? Come possono integrarsi, ammesso che ciò sia possibile?
La risposta in sé è semplice, ma contiene tutto lo spirito con il quale è nato Lìberos: la filiera del libro è composta da persone. Persone reali che in Sardegna si sono riconosciute in un codice etico mettendo in rete le proprie professionalità e relazioni al servizio del lettore che è, e rimarrà, il primo beneficiario di questa azione congiunta. È importante che lui, il lettore, lo sappia, perché quando viene coinvolto nelle azioni che gli operatori fanno sul territorio a nessuno viene più in mente di dire che i libri sono cari o di pretendere che siano scontati: far vedere da vicino quanto valore aggiungono al prodotto le persone che lavorano nella filiera del libro è la maniera più efficace per promuovere, insieme alla lettura, i promotori della lettura. Chi ha portato suo figlio a un laboratorio in libreria o chi ha potuto fare una domanda dal vivo al suo scrittore preferito non si sogna di pensare che gli conviene comprare il libro online, “tanto è lo stesso libro”.
Ci voleva una forte comunione di intenti per superare le divergenze tra i diversi soggetti della filiera del libro. Divergenze che spesso nascono da un’esigenza di sopravvivenza, quelle tra autori, librai, biblioteche, associazioni culturali, editori. Questo legame è reso possibile dal riconoscimento reciproco delle competenze e del ruolo sociale, andando oltre antiche categorizzazioni autoreferenziali a compartimenti stagni. Dopo aver fatto per anni come i capponi di Renzo, si è finalmente capito che conviene a tutti fare cordata, anziché tirare ciascuno il proprio angolo di una coperta sempre più corta.
Su questa pianta si sono innestati con entusiasmo gli enti locali, soprattutto i piccoli comuni a rischio spopolamento, che hanno individuato nella co-progettazione culturale una delle possibili vie per garantire un’offerta culturale alle proprie comunità. La collaborazione, quasi la simbiosi con Lìberos, è stata cercata soprattutto per riprendere a “fare comunità” anche attraverso il libro, l’incontro tra concittadini, il rapporto diretto con gli autori, i confronti aperti sui temi.
È chiaro, quindi, come per noi l’intermediazione in ambito culturale non sia un’ingombrante sovrastruttura da demolire, scavalcando ogni valutazione professionale o sfruttando le scorciatoie della vendita on-line e del self-publishing, quanto piuttosto il valore aggiunto che viene dato dalle competenze. Gli “algoritmi” sui quali si costruisce il successo di Lìberos si chiamano esperienza, competenza, empatia, solidarietà, professionalità, condivisione, reciprocità.
Quando penso all’editoria e al libro in Italia mi viene in mente “Lista d’attesa“, il film di Juan Carlos Tabìo in cui un folto gruppo di passeggeri mette radici in una stazione al centro di Cuba e si interroga sul suo futuro in attesa di un autobus che forse non passerà mai. Come fare per smettere di lamentarsi perché gli Italiani non leggono e cominciare a fare davvero qualcosa perché le cose cambino?
Sono molto felice che tu mi faccia questa domanda, perché quel film mostra chiaramente, in modo divertente, come in ogni situazione, anche la più difficile, ci sia chi aspetta soluzioni dagli altri e chi si chiede “cosa posso fare, io, intanto che arrivano le soluzioni o per trovare soluzioni?”. Come fare, dunque? Cambiamo la domanda: cosa posso fare io?
Per cambiare le cose non servono effetti speciali o proposte rivoluzionarie. Sarebbe sufficiente mettere a sistema le buone pratiche esistenti, dar loro risorse e dignità, renderle replicabili con leggi e finanziamenti appositi. Quali sono queste buone pratiche? Sono le centinaia di esperienze quotidiane veramente efficaci e innovative di promozione dei libri nelle scuole, in biblioteca, nelle librerie. Sono quelle che mettono insieme più attori della filiera che con la condivisione di idee, energie, progetti, rendono più redditizia la collaborazione rispetto alla competizione. Ma essenzialmente son quelle dove l’attore protagonista è il lettore. Un lettore che si sente protagonista del mondo del libro è il miglior testimonial della lettura che possa esistere, il suo passaparola, la sua passione, può realmente contagiare chi non legge.
Quello che andrebbe finalmente evitato è il far calare dall’alto i progetti senza un reale coinvolgimento delle comunità dei lettori, trattati troppo spesso come semplici consumatori. Tutto ciò che non parte dalla base non è realmente partecipato e condiviso, e dunque non può produrre i risultati che dovrebbe avere qualsiasi politica culturale: la crescita sociale, civile ed economica di una comunità. E di creare comunità di lettori in ogni paese e città d’Italia dovrebbe preoccuparsi oggi chi ha il compito di promuovere il libro e la lettura. Abbandonare gli slogan e le manifestazioni spot, lavorare tutto l’anno con le tante realtà eccellenti che in tutta Italia fanno realmente promozione della lettura, soprattutto nella scuola e in biblioteca, dare risorse ad iniziative che dimostrino realmente di incidere nella realtà socio-culturale del proprio territorio, questo sarebbe un buon punto di partenza.
Spesso, sulla stampa di settore e ai festival della cultura, sembrano scontrarsi due tendenze ideologiche archetipiche e antitetiche: una prima tendenza che identifica la cultura come un settore che non può rispondere a leggi economiche e ha bisogno di essere finanziato a priori a prescindere dalla qualità del contenuto; una seconda tendenza che identifica l’innovazione culturale con il mondo stesso delle startup e rischia di ridurre la cultura al social networking. Come si fa per muoversi fuori dagli assunti ideologici e mettere in luce e sostenere il valore là dove è effettivamente tale?
Sarebbe banale dire che la virtù sta nel mezzo, e infatti non lo dirò. La virtù sta nel preferire l’et et all’aut aut. Se pensiamo ai social network viene in mente – per restare in tema di citazioni – La fiera delle vanità, a essere ottimisti; il rotocalco che ne evoca il titolo, ad esser più sinceri. Ma basta dirlo in italiano, rete sociale, per sentire in bocca tutto un altro sapore: quello della comunità, della vita reale, della partecipazione, anche della solidarietà. Se questa comunità, questa rete sociale ha a disposizione uno strumento tecnologico, una piazza virtuale dove moltiplicare le proprie relazioni e con esse le opportunità di fruizione culturale e di condivisione, vediamo che non c’è nessuna scelta di campo da fare, nessun manicheismo: et et. Sia virtuale che reale.
Anche sulla vexata quaestio pubblico o privato, profit o non profit, inseguendo le ideologie si perdono per strada le opportunità. La cultura non può affidarsi ai soli finanziamenti pubblici non solo perché sono pochi e aleatori, ma anche perché questo significa rinunciare in partenza a tutte le possibilità di ibridazione e di divulgazione che la mentalità imprenditoriale obbliga ad avere. Mi spiego meglio: porsi il problema di come comunichiamo le nostre attività, di quanto siamo capaci di coinvolgere un pubblico più vasto è un problema che chi fa impresa non può non porsi, mentre chi è finanziato a monte può permettersi di trascurare. Questo significa che lo Stato non deve finanziare la cultura? Niente affatto, significa solamente che chi vuole occuparsi di cultura dovrebbe (dovrà sempre più) farlo tamquam non esset. Anche perché il più delle volte ci azzeccherà.
TwLetteratura sostiene la campagna di equity crowdfunding di Lìberos: per partecipare, consulta il sito internet liberos.it e aderisci al progetto su Smarthub.
Francesca Casùla (@akribia) – Originaria di Neoneli (OR), di formazione classica, un po’ bibliotecaria e molto editor, è cofondatrice di KaraLettura, Lìberos e Isterre, una start up innovativa a vocazione sociale. Tutte queste cose hanno a che fare coi libri e l’innovazione culturale. La rivista Vita l’ha indicata come uno dei 100 talenti under 35 che cambieranno l’Italia. Da ottobre 2013 siede al tavolo inter-istituzionale per la realizzazione del Piano Nazionale della lettura del MiBACT. È Digital Champion per la provincia di Oristano. Sogna un mondo con il 100% di lettori.
Link Video: https://www.youtube.com/watch?v=KrTO2ubTzAI&x-yt-ts=1421828030&x-yt-cl=84411374
Questo pezzo è tratto da http://www.twletteratura.org