Totalitarismi / Orwell, Zamjatin e la menzogna organizzata
Quando si fa una carrellata dei romanzi distopici della prima metà del secolo scorso, di solito accanto a 1984 figurano Il nuovo mondo di Huxley, Fahrenheit 451 di Bradbury e Il tallone di ferro di Jack London. A volte si evoca anche Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, non tanto perché narri un progressivo allontanamento dall’utopia quanto per sottolineare le contraddizioni del processo rivoluzionario nell’URSS di Stalin. Ma di rado viene in mente Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin, un libro al quale Orwell deve molto.
Scritto fra il 1919 e il 1921, Noi è ambientato alla fine del terzo millennio in uno stato supermeccanicizzato e ipercontrollato dal punto di vista sociale, circondato da una barriera di protezione detta “Muraglia verde”. Il romanzo racconta la storia della costruzione di una navicella spaziale, l’Integrale, che dovrà “esportare” su altri pianeti un ordinamento politico perfetto, quello dello Stato Unico. Qui gli abitanti non hanno nomi bensì contrassegni alfanumerici, come quello del protagonista, l’ingegnere D-503, che sovrintende alla costruzione della navicella. Nello Stato Unico ogni attività è accessibile a tutti grazie al fatto che case e edifici sono di vetro. A capo dello Stato c’è un glaciale autocrate, il Benefattore, aiutato nel suo lavoro dai tutori dell’ordine e del controllo, i Custodi. È D-503 a raccontare questa storia ambientata in un lontano futuro e il tentativo da parte di una donna enigmatica, I-330, di dare inizio a una nuova rivoluzione.
Il romanzo fu subito censurato. Proprio nei giorni in cui nasceva l’Unione Sovietica, alla fine del 1922, Zamjatin aveva steso una prefazione, nella speranza di poter ancora pubblicare il suo libro. In questo breve scritto manifesta la preoccupazione per la nascita di uno stato “granitico”, “ferreo” – un aggettivo caro anche a Orwell – e il timore che i “giorni temporaleschi” della Rivoluzione d’ottobre si plachino facendo precipitare il Paese in un “tepore d’entropia”. Benché in un primo tempo vicino alle aspirazioni della Rivoluzione d’ottobre, Zamjatin ora teme, come osserva Alessandro Niero nell’accurata edizione di Noi uscita per Mondadori, che la dialettica tra istanze di rinnovamento e istanze di conservazione s’infiacchisca sempre più. Il romanzo, però, non trovò un editore – sarà pubblicato in URSS solo nel 1988 – e Zamjatin, ingegnere navale e autore di romanzi e racconti satirici, nel 1931 espatriò e si stabilì in Francia, dove morì sei anni dopo.
A parlare dell’autore russo a Orwell fu Gleb Struve, uno slavista di Berkeley che a partire dal 1944 intrattenne una corrispondenza non fitta ma continua con lo scrittore inglese fino alla sua morte nel 1950. Poiché all’epoca l’edizione americana del romanzo di Zamjatin non era ancora disponibile in Inghilterra, Orwell si procurò e lesse la traduzione francese. Il 4 gennaio 1946 pubblicò sul settimanale socio-culturale “Tribune”, che rappresentava la sinistra laburista (a quell’epoca il direttore della rivista era Aneurin Bevan, che nel 1945 lasciò l’impegno editoriale per entrare nel governo Attlee) e delle cui pagine letterarie Orwell era responsabile, un articolo dal titolo Freedom and Happiness, in cui analizzava in modo puntuale quello che definiva un “fantasy” ambientato nel ventiseiesimo secolo. Sebbene lo considerasse “un libro non di prim’ordine”, Noi era “di certo insolito”. Orwell osservava pure che Il mondo nuovo di Huxley derivava in parte dal romanzo di Zamjatin, sottolineando come fino a quel momento nessuno se ne fosse accorto. Dopo aver evidenziato l’impressionante somiglianza tra le due opere, precisava che il romanzo di Huxley era sì strutturato meglio, ma quello di Zamjatin metteva in modo più convincente al centro della narrazione l’aspetto politico.
Per Orwell, ciò che fa del romanzo di Zamjatin un libro migliore di quello di Huxley è l’aver intuito l’importanza del lato irrazionale del totalitarismo: il sacrificio di vite umane, la crudeltà fine a se stessa, l’adorazione di un Leader dagli attributi divini. Secondo Orwell, in Noi il fine non è “lo sfruttamento economico”, e nemmeno gli sembra che l’obiettivo sia quello “di intimidire o dominare gli altri”. Inoltre, “non c’è né fame di potere, né sadismo, né durezza di alcun genere”. E rimarca che chi è al vertice “non ha una ragione forte per restarci, e anche se tutti sono felici seppur in modo vacuo, la vita è ormai così inutile che si stenta a credere che una società simile possa durare nel tempo”.
Ritiene pure che il libro di Zamjatin sia più pertinente alla situazione inglese e fa notare come in Noi molti fra gli antichi istinti umani continuino a persistere: si assiste a molte esecuzioni pubbliche e le vittime sono giustiziate per mezzo di uno strumento che “liquida letteralmente le vittime, riducendole a uno sbuffo di fumo e una pozza di acqua limpida”. E conclude dicendo che Zamjatin non pare avere in mente alcun paese particolare, ma solo i fini impliciti della civiltà industriale. Il suo libro non è solo l’espressione di una rimostranza: è uno “studio della Macchina”, del genio che “l’uomo ha inavvertitamente lasciato uscire dalla lampada” e che ormai non può più ricacciare dentro. E ne consiglia la lettura, quando il romanzo sarà pubblicato in Inghilterra.
Nonostante l’iniziale, frettoloso giudizio con cui Orwell liquida Noi definendolo “un libro non di prim’ordine”, è indubbio che tra il romanzo di Zamjatin e 1984 ci sia più di una affinità. Per esempio, come non scorgere nella morte per vaporizzazione, il destino a cui vanno incontro i dissidenti politici nel superstato di Oceania, lo strumento di morte impiegato in Noi, tramite il quale le vittime vengono letteralmente “liquidate”? Quanto ai nomi dei protagonisti, non appena Winston Smith varca la soglia del Ministero dell’Amore dopo il suo arresto, alla minima infrazione la voce dal teleschermo lo richiama all’ordine con un glaciale “6079 Smith W”, dal quale forse occhieggia il nome del protagonista di Noi, l’ingegnere D-503. E dietro Big Brother e il Grande Fratello televisivo di oggi (che nella versione russa si chiama Za steklom – “Di là del vetro” –, come indubbiamente sarebbe piaciuto a Zamjatin) non c’è forse il Benefattore dello Stato Unico di Noi, che con Big Brother non condivide soltanto la B del nome?
Inoltre nell’articolo pubblicato su “Tribune” un aspetto colpisce in modo particolare: nell’elencare ciò che secondo lui manca a Noi, Orwell stila di fatto le sue priorità per 1984: la fame di potere e la sua conservazione, costi quel che costi; il sadismo della Polizia del Pensiero, lo scudo a protezione del Partito; la durezza dei colpi inferti a chi osa dissentire dalla linea del Partito. Ma tra le priorità di Orwell c’è anche la determinazione a mettere in risalto gli aspetti irrazionali del totalitarismo: la ferocia fine a se stessa, il sacrificio di vite umane, la venerazione di un Leader dagli attributi divini. Più che raccontare una storia proiettata nel futuro per mettere in luce le contraddizioni del regime sovietico sotto Stalin, a Orwell premeva scrivere qualcosa che gli stava ben più a cuore, visto quanto dichiara nel saggio Perché scrivo: “Ogni riga seria che ho scritto dal 1936 in poi è stata, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico”.
Un altro aspetto degno di nota è quanto Orwell si sia dato generosamente da fare perché Noi fosse pubblicato in Inghilterra, ed è proprio in una lettera del febbraio 1944 allo slavista Gleb Struve che Orwell evoca per la prima volta 1984, accennando agli appunti che sta prendendo per un romanzo che prima o poi gli piacerebbe scrivere. Da allora in più di una lettera a Struve Orwell accenna a Noi e auspica di vederlo finalmente sugli scaffali delle librerie anche nel suo Paese. Non solo, propone di parlarne personalmente al suo editore, Frederic Warburg, cosa che in seguito farà, e con lettere puntuali a Struve torna a chiedere aggiornamenti sulla eventuale pubblicazione del romanzo nel regno Unito. Si impegna pure a far tradurre e dare alle stampe un lungo racconto scritto durante il soggiorno inglese dello scrittore russo. Islanders and The Fisher of Men, due racconti satirici di Zamjatin ambientati in Inghilterra, uscirono poi effettivamente in traduzione nel 1984, in occasione di una data storica per il romanzo.
Nel 1948 Orwell manifesta interesse per la prevista riedizione americana di Noi perché vuole farne una recensione e chiede a Struve se può averne una copia e, in una lettera successiva dello stesso anno, scritta dallo Hairmyres Hospital, in Scozia, dove nel frattempo è stato ricoverato per tubercolosi, informa Struve che quando uscirà la nuova edizione americana di Noi lo recensirà per il prestigioso “Times Literary Supplement”. Alla fine del 1948 gli comunica di aver scritto al suo editore e di avergli suggerito di mettersi direttamente in contatto con lui per accordarsi su un’edizione inglese. In una lettera della primavera 1949 al suo editore, infine, Orwell parla nel dettaglio a Frederic Warburg di Noi e gli scrive che, sebbene abbia delle pecche, lo ritiene un buon libro, al livello del Tallone di ferro di Jack London ma scritto meglio. Dice pure apertamente che Il mondo nuovo di Huxley è in certa misura “un plagio” di Noi e si rammarica che un libro come questo non sia disponibile sul mercato inglese, quando ogni giorno vengono stampati tanti titoli di cui si farebbe volentieri a meno.
Quindi, dal 1944 fino alla sua morte, con grande onestà intellettuale Orwell non solo ritorna in modo costante sul discorso di una nuova edizione di Noi, ma si dà concretamente da fare perché esca in Inghilterra, riconoscendo nella solitaria e sfortunata vicenda di Zamjatin una battaglia comune, quella contro il totalitarismo, che Orwell aveva iniziato nel 1936, come afferma nel saggio Perché scrivo. Una battaglia ingaggiata in particolare contro “la menzogna organizzata” praticata dagli stati totalitari, qualcosa di così radicato nella mente totalitaria da costituirne quasi la caratteristica determinante, come ribadisce anche in The Prevention of Literature, uscito nel luglio 1946 in “Polemic”. In 1984 l’insistenza sulla menzogna, e la conseguente riscrittura della Storia, è così accentuata perché Orwell avverte che questo è uno dei rischi più grandi per lo stato liberale e democratico. Se qualcuno mente in continuazione, ammonisce Hannah Arendt, non si finisce per credere alle menzogne: si finisce con il non credere più a niente. E un popolo che non crede più a niente non sa decidere e “viene privato non solo della sua capacità di agire, ma anche di pensare e giudicare”, come è amaramente manifesto in 1984.
Nota di Lettura
- La corrispondenza con Gleb Struve si può leggere ora in I Have Tried To Tell the Truth 1943-194; Smothered Under Journalism 1946, e It is What I Think 1947-1948, rispettivamente nei voll. XVI, XVIII e XIX di The Complete Works of George Orwell, a cura di P. Davison in collaborazione con I. Angus e S. Davison, Secker and Warburg, London 1986-1998, La traduzione di tutti i testi di Orwell citati nell'articolo sono dell’autrice, Franca Cavagnoli.
- L’articolo di Orwell su Noi di Zamjatin uscito su “Tribune" si può leggere in: G. Orwell, Freedom and Happiness, in P. Davison (a cura di), op. cit., vol. XVIII.
- La lettera di Orwell al suo editore, Fredric Warburg, è in Our Work is To Make Life Worth Living 1949-1950, in P. Davison (a cura di), op. cit., vol. XX, p. 295.
- Il saggio di Orwell Perché scrivo si può leggere in Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di Silvio Perrella, Bompiani, Milano 1996.
Franca Cavagnoli di Orwell ha tradotto per Feltrinelli La fattoria degli animali e 1984.