Speciale

Dittatura e contagio / Pandemia: mistero asiatico

27 Ottobre 2020

Mi chiedono: perché l’Asia orientale (e in buona parte quella del sudest) ha reagito meglio del resto del mondo alla pandemia? Non ne ho la più pallida idea, rispondo esagerando un po’. Ma è vero che da mesi divento matto a cercare risposte che non ci sono, o sono molto generiche, al limite del luogo comune. Mi sembra che la questione sia così misteriosa che nemmeno ci si prova, a sbrogliarla. La Corea del Sud è assurta a sinonimo di buona organizzazione: ricordo Come si batte il virus, una bella intervista di Giulia Pompili sul "Foglio" del 12 agosto 2020 al dirigente della sanità nazionale Song Young-Raeche metteva in fila tutte le cosette che, in fondo, noi già sappiamo: tracciare, quindi molti test, seguire i cluster uno per uno (ricordo addirittura, lo scorso marzo, una sorta di albero genealogico a partire da vari pazienti zero, o uno). Meglio della Corea del Sud fece Taiwan: consulto il mio amato worldometers.info e mi segnala i soli sette morti su 24 milioni di abitanti, media che la porta al 189° posto nel mondo.

 

Di Taiwan non si è parlato molto, non è membro dell’Onu, la Cina chiede di obliterarne l’identità, l’Oms di conseguenza obliterò i suoi dati. Il Giappone lo abbiamo avuto davanti agli occhi, direi che non ha messo giù neanche lontanamente un lockdown paragonabile ai nostri, eppure. Naturalmente si parla molto della Cina, il paese più grande del mondo. La Cina fa storia a sé perché le domande qui rischiano di trovare una risposta già confezionata: è una dittatura, quindi la disciplina è ferrea, i cittadini eseguono e il governo può implementare con facilità le politiche di contenimento. E naturalmente aiuta la strutturazione della società civile eredità del comunismo, i comitati di caseggiato, i responsabili di quartiere nelle grandi città. Sul New Yorker del 17 agosto Peter Hessler, docente universitario all’Università del Sichuan, raccontava il lockdown di una regione confinante con l’Hebei ma non soggetta a restrizioni forti come nella zona di Wuhan. È interessante la serenità con la quale gli studenti aderivano alle disposizioni governative, senza paure e senza ribellismi. È un fatto che la Cina il virus lo ha debellato, e durante la recente Festa d’Autunno centinaia di migliaia di persone si sono, di nuovo, messe in viaggio per raggiungere le famiglie. Pare senza conseguenze.

 

L’ottima reazione della Cina alla pandemia sarà oggetto di dibattito infinito, nei prossimi mesi, e immagino che il regime ne farà il grimaldello per propagandare nel mondo l’idea che il suo sistema politico abbia dei vantaggi. Ma l’argomentazione è risibile: anche gli altri paesi dell’area hanno ottenuto gli stessi risultati, e sono democrazie. La domanda dunque resta: quell’Asia ha avuto maggiore capacità di tracciare testare e trattare? Perché mai perfino le democrazie europee tradizionalmente ritenute più ordinate, per così dire, Germania e paesi scandinavi (Svezia esclusa, che ha scelto un’altra strada), hanno comunque risultati di contenimento infinitamente inferiori a quelli di quel pezzo d’Asia? Che cosa hanno fatto loro meglio di noi? Parag Khanna, intervistato da Santelli su Repubblica, 19 ottobre, ricorda che questa parte del mondo fu colpita dalla Sars nel 2002-2003, malattia che fece molta paura perché, anche se meno trasmissibile, era più mortale. Quelle società si chiusero, le loro economie e le borse sprofondarono, le mascherine trovarono ampia diffusione, e così forse le altre misure igieniche di base, le distanze, i contatti, lavarsi le mani. E certo fu l’occasione per sperimentare la capacità di reazione dei sistemi sanitari, cosa che è venuta buona adesso.

 

Noi per raccontare le pandemie abbiamo dovuto rifarci alla spagnola di un secolo fa, chiaro che non ce ne sia memoria nei sistemi sanitari. Khanna suggerisce poi che la ancora forte relazione di fiducia tra governi, élites, e popoli abbia giocato un ruolo importante. La sensazione è che in Cina come in Corea del Sud, Taiwan, Giappone, quando il potere ti racconta il virus e ti propone, o impone, misure di sicurezza, tu esegui e basta. In Italia in particolare è risultato evidente come il governo abbia implementato misure solo nel momento in cui la popolazione era pronta a accoglierle e non prima. In questi ultimi giorni di ottobre il gioco del cominciare a far correre le notizie, testare le reazioni, e solo allora decretare, è stato evidente. Le prime misure di ottobre furono più che altro spunto perché le persone ritrovassero distanziamento, igiene delle mani, magari scaricassero finalmente Immuni. È anche evidente che l’allentamento anticipato delle misure a maggio fu dovuto alla pressione dell’opinione pubblica che non ne poteva più. E quindi il virus non fu debellato in modo completo, come forse in quel pezzo d’Asia. Insomma da noi viene usata come strumento di persuasione la paura, con grave nocumento per la razionalità. Nei paesi asiatici, più banalmente, il governo dispone e tu esegui senza stare a discuterne più che tanto. A proposito della relazione di fiducia tra governi e popoli, molti sinologi insistono nel ricordare l’eredità confuciana in Cina e dintorni, un sistema valoriale che mette in rilievo la partecipazione alla collettività. A me sembra un po’ tirata: i comportamenti individuali in Occidente derivano dalla tradizione cristiana, o dell’illuminismo?

 

Ho i miei dubbi. In ogni caso le argomentazioni che trovano le radici dell’ottima reazione alla pandemia nella differente strutturazione delle società dell’Asia orientale mi convincono poco anche perché poi c’è il sudest, area ugualmente meno colpita. Birmania, Thailandia, Cambogia, Laos, Vietnam, qui l’economia di strada è così diffusa: mi è difficile pensare che in paesi come quelli, abituati, per così dire, a una certa confusione, le restrizioni funzionassero come in Cina, o solo come da noi. Non vedo quelle società come rigidamente strutturate nella relazione tra sudditi e potere, anzi. Perché l’Asia ha reagito meglio? Brancolo nel buio. 

 

Foto di Greg Girard.


Se ora torno a parlare del giudizio sul sistema di potere in Cina, apparentemente cambio discorso. Ma non è così: la reazione della Cina al virus, le immagini delle folle sui treni e sui mezzi di trasporto, ma anche semplicemente in visita a note attrazioni turistiche, stanno facendo il giro del mondo come a dirci: visto, lì, come si sta bene, liberi dal virus? Noi qui, oppressi dalla seconda ondata (e magari da prossimi numeri da incubo sull’economia) e alla ricerca di colpevoli e soprattutto di possibili alternative, troveremo presto chi ci spiega che, in fondo, la democrazia non è tutto, e che sistemi ‘differenti’ (laggiù si usa dire ‘con caratteristiche cinesi’), funzionano meglio del nostro.

 

Un esempio è un esaustivo e argomentato articolo di Giada Messetti su "Domani" del 21 ottobre, La Cina trova una normalità tra Confucio e controllo sociale. Messetti elenca l’efficacia delle misure messe in campo dal governo cinese in termini di chiusure, tracciamento, adeguamento delle strutture ospedaliere, e giustamente a questo aggiunge come fattore decisivo il controllo ferreo sull’informazione che consente di veicolare messaggi univoci, senza dibattiti che li mettano in discussione. L’origine di questa efficacia (e, mi pare di capire, del sistema politico cinese che Messetti anche altrove descrive non come una dittatura, ma semplicemente come ‘autoritario’) starebbe (opinione condivisa da molti sinologi) nella tradizione confuciana che si tradurrebbe in un forte senso della collettività, in una accettazione dell’autoritarismo, consentendo la dongyuan, la mobilitazione del popolo. Molti sinologi utilizzano il termine ‘armonia’, come distintivo della società cinese, ma io non posso non ricordare che i blogger che si vedono cancellate le loro pagine dalla rete dall’apparato di censura statale usano dire, sarcasticamente: mi hanno armonizzato. Su un versante opposto, l’ultima settimana di settembre ha visto una polemica attorno a un servizio di Gabanelli per TG7, poi doppiato da una pagina sul "Corriere" del 5 ottobre, molto critico sul regime.

 

Nel solito stile televisivo, per cui in tre minuti si mettono insieme un sacco di cose con un linguaggio un po’ sensazionalistico, da effetto wow acchiappa pubblico, Gabanelli mette in fila tutto quello che giustamente va raccontato sulla dittatura in Cina: intanto le responsabilità nella fase iniziale dell’epidemia, e poi tanti aspetti del regime repressivo, e delle sue mire imperiali: Xinjiang, Hong Kong, Mar Cinese Meridionale. Tra i miei conoscenti sinologi o giornalisti che si occupano del paese da anni, sicuramente con un occhio più attento e anche più vicino alla realtà di tutti i giorni, molti si sono arrabbiati. Direi più per lo stile, e per una certa superficialità di esposizione, che per il contenuto. La risposta più interessante è venuta da Pieranni sul "Manifesto" del 28 settembre (Il doppio standard dei media italiani sul laboratorio Cina). Pieranni nota una certa schizofrenia dei media italiani sulla Cina, tanto pronti ad articoli in cui acriticamente si esalta la nuova era cinese, le centinaia di milioni di persone strappate alla povertà, quanto poi a dimenticare quell’entusiasmo e invece sparare giudizi negativi a raffica. Pieranni però derubrica a ‘storture’ certi aspetti di quella che si rifiuta di definire una dittatura.

 

Il titolo dell’articolo cita un po’ ambiguamente il "laboratorio Cina": ed è inquietante pensare che, chissà, i risultati delle ricerche nel laboratorio Cina possano un giorno essere proposti altrove. In sostanza qui di carne al fuoco ce n’è parecchia, e sarebbe bello evitare che, in piena seconda ondata, la discussione intorno alla natura del regime cinese inondi i soliti orrendi talk show televisivi e esondi poi sui social: luoghi comuni a manetta, benaltrismi, comizi ai quali nessuno risponderà mai nel merito ma cercando la battuta: lo show, appunto. Gabanelli non ha risposto all’articolo di Pieranni, sui social ho visto persone di cui ho grande stima schierarsi di qua o di là senza entrare nel merito e sciogliere la matassa. Che va sciolta, perché la matassa cinese è una delle materie attorno a cui si va costruendo il nuovo mondo, bipolare con USA e Cina a guardarsi in cagnesco (e chissà l’Europa), post-Covid, e sulla soglia di una rivoluzione digitale. Insomma l’invito è a trovare luoghi di incontro, a discutere: la Cina è una dittatura? E quindi noi come ci relazioniamo?

Resta inevasa la mia domanda iniziale. Cosa è successo in Asia orientale e del sudest, così diverso da quel che è successo a casa nostra (e nelle Americhe, e in India, in Australia, in Sudafrica…)? Ottobre, Italia, urge tornare a un ragionare più disteso anche su questa seconda ondata, a lasciar da parte la maledetta emotività, la paura o non paura. La lagna sul governo e sulle regioni. Tra le questioni su cui ragionare c’è anche questo mistero asiatico. 

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