Pedro Almodóvar. Gli amanti passeggeri

12 Aprile 2013

Che Gli amanti passeggeri sia un film girato con la mano sinistra, che sia un divertissement del tutto personale – perfino autoreferenziale – del suo autore e un momento di sollazzo e divagazione è fuori di ogni dubbio. Che sia, per questi motivi, un’opera trascurabile, anodina e superficiale come è stato scritto da più parti, è tutta un’altra questione. In fondo Almodóvar è uno di quei registi, estremamente prolifici, capaci – come Woody Allen o i fratelli Coen tanto per dire – di alternare opere di indiscutibile rilevanza e straordinarietà, ad altre che potremmo definire “di alleggerimento” senza tuttavia perdere nulla in efficacia, arguzia e qualità. E nel caso de Gli amanti passeggeri il regista iberico ci pone di fronte a un lavoro che pur mettendo a nudo alcune delle pecche del suo cinema e lasciandosi eccessivamente andare, in alcuni momenti, a indugi narcisistici, coglie il momento storico attuale con incredibile lucidità e pertinenza.

 

 

Il film racconta dell’Airbus-340 della compagnia Península in viaggio fra Madrid e Città del Messico che, a causa di un’avaria al carrello, è costretto a restare in volo attendendo di ricevere l’autorizzazione a compiere un atterraggio di emergenza. Sull’aereo, mentre tutti i passeggeri di seconda classe sono stati narcotizzati per evitare scene di panico, il personale di volo, insieme ai due piloti, si prende cura del ristretto gruppo di viaggiatori ospite della prima classe. All’interno di questa trama insolitamente snella ed essenziale, Almodóvar dà vita in maniera molto libera a un universo mistificante nel quale la rappresentazione, che procede per episodi, interludi e ripetizioni, rischia di far sì che la trivialità del linguaggio e i tratti grotteschi assegnati ai personaggi possano essere scambiati per sfacciate provocazioni o divertiti indugi in salsa queer. Mentre non fanno altro che incarnare, nella sapiente astrazione per mezzo della quale si muove l’autore, i caratteri parossistici, eccentrici e archetipici del genere comico.

 

 

Già, la commedia. Forse s’è dimenticato da molte parti, e qua da noi un po’ di più, che la trasfigurazione e la riduzione entro termini essenziali di caratteri peculiari riconducibili a categorie, gruppi sociali o collettività in genere – vale a dire la rappresentazione della società tramite bozzetti, maschere e mondi o microcosmi dal carattere universale – raffigurano l’agire più tipico del genere commedia applicato al cinema. Tipicità che non appartengono, tuttavia, a quei pastiche piccolo-borghesi fatti di tradimenti coniugali, manuali d’amore, ex e natali al mare in montagna o in crociera ai quali la farsa nostrana si affida con grande fedeltà da più un ventennio. E a proposito di crociere, pare davvero lampante la similitudine, e l’altrettanto evidente contiguità con il presente, fra il volo della Península, azzoppato e costretto a girovagare nel cielo sopra la città di Toledo sperando di toccare terra al più presto e di portare in salvo i passeggeri, e una certa nave da crociera abbandonata ai flutti del mar Tirreno, alle cure di un capitano sciagurato e di un equipaggio non all'altezza. Al di là della tragedia della Concordia, per la quale è giusto portare rispetto, ci pare che (as)trarre le peculiarità comiche della “maschera” Schettino e dell’evento del naufragio per applicarle a personaggi e situazioni quali quelli che popolano un film come questo sembrano assomigliare, non sia un’intuizione tanto geniale da farci pensare che non potesse saltare alla mente di qualche sceneggiatore del Belpaese. Eppure la rappresentazione tutt’altro che edificante che Almodóvar propone di una nazione (la “península” cui si riferisce potrebbe non essere solo quella iberica) e, forse, di un continente sempre più instradato verso la catastrofe, pare di enorme pertinenza e di assoluta sagacia.

 

 

Il sospetto che viene, quindi, è che il regista stia dipingendo un quadro sconsolante sull’involuzione, ormai del tutto compiuta, della “classe padrona”. Ritratto cui la Spagna si presta perfettamente del resto, essendo la nazione che più di ogni altra in Europa ha visto la propria ascesa e il proprio declino consumarsi tanto in fretta da confondersi quasi l’una nell’altro. E andrebbe letto in questo senso l’accentuato côté anni Ottanta di cui la pellicola è rivestita: gli arredi dell’aereo, gli abiti degli steward e, ovviamente, l’intermezzo danzato sulle note di I’m So Excited delle Pointer Sisters. Non si tratta soltanto, per Almodóvar, di tornare, anche visivamente, a fare il cinema che faceva quasi trent’anni fa, quanto più di voler mostrare, attraverso le modalità enunciative che gli sono consone, un ribaltamento di prospettiva enorme. Ci mostra come del vitalismo di quegli anni, dell’edonismo camp postfranchista (esattamente agli antipodi, allora, di quello reaganiano e thatcheriano), della rivoluzione sessuale e dei costumi e dell’esplosione della queer culture, sia rimasto ben poco, nonostante l’Europa, nonostante il miracolo economico e nonostante Zapatero. No, oggi il popolino che viaggia in seconda classe dorme, mentre una casta borghese senza qualità si stordisce di droga, alcol e sesso interpretando l’eredità degli anni Ottanta dell’emancipazione e della speranza, in una maniera profondamente reazionaria. Una situazione di cui la Spagna, come si diceva, non è solo il modello negativo di più facile individuazione, ma anche, sembra dirci Almodóvar, lo specchio in cui tutta l’Europa rischia di vedersi riflessa.

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