Big Eyes. Se Tim Burton si ripete
Verrebbe da dire, e lo si è detto e ripetuto da più parti, che da qualche tempo a questa parte Tim Burton abbia cambiato stile, che abbia cambiato i soggetti dei suoi film, anche le atmosfere. Si dice che abbia mutato e rimasticato la propria idea di cinema e che forse abbia definitivamente perso la vena. Effettivamente Big Eyes sembra andare in una direzione leggermente diversa da quella che nel corso del tempo aveva fatto sì che per tutti quei film realizzati alla maniera del regista californiano venisse coniato l’aggettivo «burtoniano». Ma al di là del disappunto dei fan più accaniti (di cui francamente interessa ben poco), ciò che più di tutto il resto incuriosisce in questo film è il mutato rapporto che Burton instaura con la materia che si trova a manipolare. Gli elementi formali – la fotografia insolitamente limpida e accesa, le tinte pastello, i colori morbidi e caldi delle scene e dei costumi – paiono infatti tratteggiare un universo visivo incongruo con quasi tutto ciò a cui il regista ci aveva abituati. Nonostante ciò sostenere che Burton si sia allontanato dal proprio stile, o dalla propria idea di cinema, non sembra essere del tutto vero, e in fondo anche in Big Eyes gli elementi che ci ricordano il suo cinema sono molteplici e evidenti.
A cominciare dalla protagonista, quella Margaret Keane della quale il film vorrebbe essere al contempo una biografia e un omaggio (la pittrice, oggi ottantottenne, è una vecchia amica di Burton), qui interpretata da Amy Adams. Un personaggio non integrato, con una personalità debole, fuori dal tempo, incline a lasciarsi plagiare (non solo dagli uomini ma anche dalle sette religiose) e seppur di carattere candido e amorevole assolutamente incapace di stare al mondo e di adattarsi alla società. Un personaggio, insomma, non troppo dissimile da tanti altri raccontati da Burton nel corso del tempo, e che soprattutto ricorda Ed Wood, un altro artista emarginato per cui il regista ha sentito un’attrazione così forte da volerne dipingere la biografia e al quale per certi versi crede di somigliare.
In Big Eyes, inoltre, come in quei film in cui le tinte gotiche e horror sostituivano i colori vividi e brillanti, l’inquietudine e la malinconia burtoniana si nascondono in quei buchi neri, sofferenti e carichi di angoscia, che sono gli occhi di bambino dipinti da Margaret: icone dello sconforto e della inadeguatezza che risiedono nell’animo dell’autrice.
No, Burton non è cambiato. Anzi, Burton è tutto lì, e anche in Big Eyes è più che mai presente, visibile ed evidente. Quello che non va nel film, semmai, non è tanto il fatto che si sia messo a fare altro, ma proprio il modo in cui tenta di ripetere se stesso.
La storia di Margaret Keane e del marito Walter, che si attribuì per anni il merito dei quadri con i bambini dagli occhi grandi e tristi, è infatti, soprattutto, l’ennesima rivisitazione da parte di Burton di temi come la mistificazione, la costruzione fantasiosa dell’esistenza, la favola come riflesso del quotidiano, trattati in passato soprattutto in due film come Ed Wood, ancora, e Big Fish. Questa volta, però, il biopic di Burton è artefatto, discontinuo, e a partire dagli attori – Christoph Waltz che gigioneggia senza freni è a tratti insopportabile – non riesce a portare a termine la mediazione che intende attuare.
Sin dall’inizio del film, con la citazione di una frase di Andy Warhol che esprime apprezzamento per i dipinti di Margaret Keane soprattutto perché piacciono alle masse, Burton non sembra far altro che cercare una giustificazione. Del resto le gesta tutt’altro che mirabili di Margaret nella vita sono in qualche modo il riflesso della sua arte: un’arte francamente priva di spessore, modellata su illustrazioni infantili e bruttine, opere che non si fatica a definire kitsch, mirabili solo perché popolari ed estremamente redditizie. La questione artistica, invece, unico argomento di vero interesse nel film, viene liquidata attraverso la disputa fra l’inetto Walter e il supponente critico d’arte interpretato da Terence Stamp, dando la comoda illusione che fra i due litiganti – uno troppo ottuso per capire la differenza fra profitto e ispirazione, l’altro troppo reazionario per concepire il lato pop dell’arte, o almeno per comprenderne la portata – sia proprio Margaret a salvarsi. Anche se a ben vedere le qualità della protagonista non la pongono in nessun momento al di sopra degli altri. Se Ed Wood e Ed Bloom, il protagonista di Big Fish, erano sufficientemente folli da portare la narrazione sul piano del fantastico e dell’onirico, perché entrambi erano dei sognatori, la troppo terrena Margaret non porta il film da nessuna parte, e anche quando tenta di reagire alla condizione di subordinata finisce per farlo in seguito a un altro, ennesimo ricatto ideologico: quello della religione. Finendo per togliere al film non soltanto quella poesia e quel candore che il regista insegue da sempre, ma anche per diventare un personaggio bidimensionale, remissivo e sottomesso, a cui, in ultima analisi, rimane difficile, forse impossibile, assegnare quel ruolo da eroina femminista, da donna emancipata, da figura rivoluzionaria degli anni Cinquanta che Burton le riconosce. Quel che resta è in realtà una donna condannata a occhieggiare da con aria spaurita, aliena e rassegnata, come i suoi celebri bimbi dai grandi occhi…