Quentin Tarantino. Django Unchained
Come di tutti gli altri film di Quentin Tarantino, di Django Unchained risulta quasi impossibile dare definizioni, comporre etichette o tentativi di incasellamento in categorie filmiche, ordini estetici o specie cinematografiche. Anzi, per capire meglio di cosa si parla, per comprendere il significato e sviscerare il più possibile i contenuti dell’opera è senza dubbio consigliabile, piuttosto, capire quello che Django non è. E a voler essere precisi, ma anche un po’ pignoli per la verità, Django in prima analisi non è nemmeno un western. Non lo è nell’ambientazione (il sud e non l’ovest), non lo è nelle dinamiche della storia (manca l’emblema del western per antonomasia: il duello) e non lo è nemmeno, cosa più importante, per quel che riguarda le dinamiche stilistico-estetiche della regia di Tarantino. A ben vedere l’unica materia che cala la pellicola nell’universo filmico del genere della frontiera è la miriade di citazioni, più o meno evidenti, con la quale il regista riempie, come di consueto, tutta la pellicola. Prestiti, calchi e omaggi derivanti nella quasi totalità dei casi, dagli spaghetti-western italiani degli anni sessanta e settanta, ma anche, a dire il vero, dalla tradizione americana (il regista di The Great Train Robbery, Edwin S. Porter è citato espressamente, solo per fare un esempio).
Ma sarebbe inesatto sostenere, tuttavia, che il film sia il risultato di un rimescolamento di generi volto a far emergere dalla congerie di pellicole di serie a, bi e zeta cui si rivolge, un’idea di cinema originale, singolare e personale come avviene in tanti altri film di Tarantino, a cominciare dall’opera-monumento Pulp Fiction. E anche prendendo in esame il precedente lavoro del regista di Knoxville, quel Bastardi senza gloria che rappresenta senza dubbio il lavoro più convincente e problematico degli ultimi anni e di cui Django è parso a molti una sorta di naturale prolungamento, ci pare di poter osservare quanto quest’ultimo film ne raffiguri invece, in qualche modo, il termine opposto. Innanzi tutto nell’uso del citazionismo, utilizzato quasi come uno stratagemma utile a calare la pellicola nel clima di un western che, come visto, è solo di facciata e che in Bastardi senza gloria risultava invece impeccabile nel punteggiare in modo molto raffinato il clima onirico e soffocante che si respirava nella Francia occupata della II Guerra Mondiale prendendo a prestito il cinema di registi come Ophüls o Pabst in maniera quasi subliminale. Ma anche l’uso del genere, che nel film del 2009 sembrava asservire perfettamente la storia, ora sembra essere meno puntuale del solito nel coniugare personaggi e narrazione. Emblematico in tal senso è il fatto che una delle sequenze meglio riuscite del film, quella incentrata sulla scorribanda degli incappucciati del Klu Klux Klan, risulti essere una sorta di sberleffo al cinema di David W. Griffith, forse una simpatica presa in giro, ma di certo tutt’altro che un omaggio. A voler azzardare a tutti i costi un paragone tra le opere della filmografia tarantiniana, si potrebbe dire che Django abbia più tratti in comune con il minore Grindhouse – A prova di morte che con il succitato Inglorious Basterds.
In fondo l’interesse di un autore che come si sostiene da più parti, ha una spiccata attitudine a mostrare ma una scarsa propensione a dire, pare essere, invece, quella di rendere un doveroso e violento schiaffo all’imbarazzante passato dell’America schiavista della metà dell’ottocento. Cercando, parimenti che con il film precedente nel quale gli ebrei trovavano un fantasioso quanto stuzzicante riscatto, di tributare una degna redenzione al popolo degli schiavi. E non è un caso che sia proprio nella costruzione narrativa che il film risulti più convincente. Tarantino prende a prestito un mito – specificamente quello della Saga dei Nibelunghi – come avrebbe potuto fare tranquillamente Anthony Mann o in tempi più recenti Walter Hill e lo rielabora secondo i suoi schemi di sempre, ridimensionandone, cioè, i contenuti secondo ben più prosaici istinti (la vendetta su tutti) e attualizzandone i personaggi con la solita maestria. Su quest’ultimo punto in particolare vale la pena di notare che privato delle squisite caratterizzazioni di Monsieur Candy e soprattutto dell’inarrivabile dr. Schultz di Christoph Waltz, il film avrebbe senz’altro risentito degli accumuli caricaturali assegnati al protagonista. Motivo per cui tra l’altro, il finale, con la scomparsa dei personaggi di contorno e complice anche l’eccessiva durata della pellicola, perde inevitabilmente di tono sino a risultare insolitamente poco incisivo.