Philippe Rahm. Atmosfere Costruite

3 Febbraio 2015

Pensavamo di essere nipoti di Duchamp,

e scopriamo che in realtà

siamo i discendenti di Claude Monet

Philippe Rahm

 

La prima volta che ho incontrato il lavoro di Philippe Rahm era il 2002. Ero incinta e non sarei potuta entrare nel Padiglione svizzero della Biennale di Architettura di Venezia. Il titolo dell’installazione era Hormonorium ed era proibito l’accesso alle gestanti e ai malati di cuore per via di un espediente “a rischio”: l’ipo-ossigenazione dell’aria all’interno del Padiglione. Rahm, e il suo socio Décosterd, avevano provato a ricostruire in piena laguna l’esperienza dell’alta quota alpina. Attraverso una riduzione dell’ossigeno nell’aria e un fenomeno di abbagliamento dal basso, tipico delle distese innevate, il dispositivo alterava il sistema endocrino e neurovegetativo. Il primo artificio produceva ipossia e maggiore produzione di endorfine; il secondo causava una radiazione invertita e conseguente riduzione nella secrezione della melatonina. L’avevano battezzata “architettura fisiologica” e avrebbe dovuto prendere spazio tra il corpo e il luogo, in quell’infraspazio dentro cui emozione e percezione formano coscienza. Qualche anno prima, nel 2000, ad Hannover un altro architetto, Peter Zumthor, aveva compiuto il medesimo esercizio di traduzione dell’identità della Svizzera in un padiglione che assemblava a secco degli assi di legno fresco e resinoso, tenuti insieme da una orditura di cavi in tensione, che ne avrebbero assecondato la deformazione pur garantendone la stabilità. Si trattava di un’esperienza diametralmente opposta in termini di esperienza e di comfort, ma identica sul piano metodologico.

 

L’esperienza del Padiglione di Décosterd e Rahm e il libro Architettura Fisiologica (che aveva il vezzo di essere stampato – in parte – con inchiostro bianco opaco su carta bianca patinata) che ne era il manifesto ponevano, a chi come me si occupa del rapporto tra architettura ed esperienza sensoriale, una serie di profondi interrogativi. Per me andare sulle vette svizzere è innanzitutto un viaggio, dalla città, attraverso una sequenza di periferie, lungo qualche autostrada, fino all’avvistamento dei primi fondali alpini e i finali tornanti montuosi che concludono un viaggio di ore sulla sommità innevata di un monte dove sciare fino allo sfinimento per otto ore. Un viaggio in cui si srotolano paesaggi, ma anche durante il quale il mio corpo subisce dei lenti assestamenti alle condizioni ambientali via via incontrate. Nel Padiglione svizzero invece, la laguna con i suoi umori e le vette alpine erano distanti solo un paio di porte e la profondità di un piccolo disimpegno “polmone” in senso metaforico e fisiologico.

 

L’idea che l’architettura possa diventare una macchina del tempo e dello spazio era così sconvolgente?

La possibilità che l’architettura fosse una macchina fisiologica come una grossa pastiglia chimica per attutire l’effetto jetlag era così radicale? Sembrava allora, che i due artisti-scienziati lavorassero in quell’area di utopia tragicomica che radicalizza le visioni più per esorcizzarle che perché si avverino.

 

Philippe Rahm, Connective Apartments, 2014

 

Uscita dal Padiglione mi scappava un po’ da ridere a pensare che già così funzionavano gli allevamenti di galline in batteria: prima un giorno da 24 ore con un grande sole artificiale a garanzia fisiologica dell’animale, poi 2 giorni da 12 ore, poi 3 giorni da 8 ore e la produzione viene triplicata… fino al tentativo di 4 giorni da 6, quando la natura si ribella, il guscio non calcifica e bisogna inventarsi le uova in lattina per restar sul mercato. In quegli anni in giro per il mondo fiorivano nei centri commerciali post-lasvegas, luoghi con le medesime artificialità, sebbene con opposte ambizioni, rispetto alla ricerca di Rahm. Lo Ski Dome nella baia di Tokyo che faceva sciare i salary men nipponici nelle ore del dopolavoro, con un sole artificiale (ops!) che accelerava il suo corso comprimendo il tempo in fasce orarie organizzate per turni di entrata (fino a 4 giorni artificiali in 1 giorno naturale). Nella finta montagna si trovava un finto chalet alpino (finto per il termine “alpino” non per la perfetta copia architettonica dello chalet) che non può che chiamarsi Belvedere perché le allegorie sono strumenti indispensabili per trasformare tristi scenografie in sogni sensorialisti (la sensorialità è un’altra cosa).

 

Anche Yokohama Wild Blue, che era un grande contenitore, con tanto di palme e finte onde, per garantire la spiaggia caraibica a meno di un chilometro dalla spiaggia nipponica perché quest’ultima non appartiene al sogno turistico di nessuno. Il Giappone è lontano, pensavamo allora. Eppure nel frattempo nei piani terra delle nostre città occidentali sono spuntati, profumati e luminosi, centinaia di centri benessere, di solarium per farci abbronzare in 20 minuti come se fossimo stati anche noi ai Caraibi: stesso principio, stesse allegorie (una imprescindibile gigantografia della spiaggia più bianca) e l’immancabile odore di olio di cocco abbronzante per convincerci meglio di quella finzione.

 

Vista da oggi, è chiaro che la ricerca di Rahm raccontava il presente, provava a capire se quell’urgenza di artificiale poteva impattare diversamente sulle nostre vite e nelle città. Costruire una pista da sci nel centro commerciale più alla moda di Dubai è una operazione straordinaria di marketing, virtuosa di ingegneria, straordinaria di scenografia, ma resta un’assoluta idiozia ambientale. La ricerca di Rahm si pone da un’altra parte rispetto a queste speculazioni. Per l’artista svizzero usare i luoghi come organismi può al contrario ottimizzare le caratteristiche ambientali. I suoi esperimenti sono una forma di “bodyarch” in cui corpo e architettura sono un organismo unico, continuo e in perenne trasformazione.

 

Philippe Rahm, Connective Apartments, 2014

 

Ho incontrato più volte Philippe Rahm, una volta portandolo nelle catacombe di Parigi in compagnia del profumiere Maurice Roucel, per capire se i luoghi della morte hanno odore di putrescina o di sperma, perché il confine olfattivo tra un corpo che muore e uno che nasce è più sottile di quanto si possa immaginare. A una sua installazione devo il titolo del mio libro sull’architettura e l’olfatto: architetture invisibili. L’ultima sua pubblicazione Atmosfere costruite. L’architettura come design meteorologico a cura di Massimiliano Scuderi (Postmedia Books, 2014) presenta dei dialoghi tra Rahm e Scuderi su tre temi fondamentali: lo spazio invisibile, l’architettura meteorologica, la città termodinamica, e include i relativi progetti. La luce, la temperatura, la pressione, l’umidità, i suoni, gli odori, il tempo, i ritmi sono gli ingredienti di cui l’architettura si compone, sono i materiali da cui la forma scaturisce. Molti sono i progetti collegati alla termodinamica e ai fenomeni di convezione, conduzione e irraggiamento: Convective Apartments (2014), Digestible Gulf (2008).

 

I mutamenti climatici diventano vapori, brume e nebbie in grado di agire sulla percezione dei luoghi, di costruire spazi evocativi profondi in cui i sensi sono strumenti per l’interpretazione e materiali da costruzione. Ma anche le distorsioni spazio-temporali sono parte della chimica architettonica delle opere di Rahm. Il progetto Diurnismo (2007) parte dalla nascita della città moderna che scopre la luce elettrica che le consente di essere sempre accesa, e lavora invece sulla notte perenne. Da un lato c’è il nottambulismo di un mondo aperto 24 ore, dal lato di Rahm c’è un diurnismo che prova a creare la notte perenne modificando il ritmo di produzione della melatonina. Si tratta di un esercizio fisiologico che apre un rapporto dialettico con quella città sempre disponibile che è già la rete.

 

Philippe Rahm, Diurnismo, Centre Pompidou, 2007, ph. Adam Rzepka

 

Rahm lavora sul vuoto dello spazio, sul contenuto, sull’invisibile, sul negativo, sul clima tra le pareti, ci dice che l’architettura non si spegne mai: «ma il vuoto gradualmente ha acquisito uno spessore: con Evangelista Torricelli e Blaise Pascal nel XVII secolo l’aria ha assunto una consistenza; nel XVIII secolo, con Antoine Lavoisier e Daniel Rutherford essa diventò chimicamente scomposta in particelle elementari di ossigeno e nitrogeno; è stata caricata attraverso i batteri di un valore biologico con Luis Pasteur nel XIX secolo e modulata da onde elettromagnetiche nel XX secolo. Se gli architetti del passato erano ridotti a lavorare sul solido, oggi siamo molto più abili a lavorare direttamente sullo spazio stesso e a progettare l’atmosfera determinandone la temperatura, l’odore, la luce o il vapore».

 

Il progetto Astronomia domestica (2009) è un prototipo di appartamento che viene occupato in base ai movimenti dell’aria dovuti alla differenza di temperatura. In sezione si capisce che la composizione dello spazio ha una matrice termica che solo attraverso una termografia si riesce a decodificare alla vista. Idem Stanze evaporate (2011-2012). Abitazioni convettive (2010) mette in forma addirittura il buonsenso degli avi: perché dobbiamo stare in casa in maniche corte con un termostato inchiodato sui 27 gradi per 365 giorni all’anno? Perché dobbiamo riscaldare una stanza nella quale non stiamo mai alla stessa temperatura della cucina che di per sé è anche riscaldata dai fuochi accesi per cucinare? La sezione della casa risponde a un raumplan termico che configura di volumi in base alle temperature ottimali. «Mantenere precise temperature in luoghi specifici potrebbe far risparmiare molta energia grazie all’adeguamento della temperatura alle relative esigenze». Abbiamo bisogno che lo dica Rahm sebbene sia un pensiero primario di chiunque vada a pagare una bolletta della luce o del gas.

 

L’ultima parte del libro è dedicata alla città termodinamica, in cui alla città automobilistica del XX secolo si prova ad aggiungere (non sostituire) la città ciclabile: altre pavimentazioni, altre facciate, altri rapporti, altre velocità/sonorità. Atmosfere costruite è un libro straordinariamente attuale perché nello sforzo di occuparsi di architettura all’interno del corpo sposa la medesima missione dei nuovi media: di farci vivere dentro spazi fisiologici almeno quanto negli spazi virtuali. Il soggetto di Rahm non guarda lo spazio da fuori, ma da dentro. E questa inclusione del punto di vista all’interno del corpo è il rilancio verso il futuro della sua ricerca. Questo pensiero è una novità assoluta. Reload!

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