Poesia del lutto
Il titolo di un libro, quando ben congegnato, dice spesso tutto quel che c’è da sapere sulla tesi fondamentale che anima le sue pagine meglio riuscite – quasi fosse un monogramma o una miniatura che riflette, nella parte, l’intero di cui è parte. Questa sorta di legge non scritta vale ancora di più se poi tale libro è un libro di filosofia – là dove gli apparenti dualismi sanciti nella copertina rivelano talvolta una più profonda identità concettuale (Essere è tempo, nel capolavoro di Martin Heidegger del 1927; Differenza è ripetizione, nella tesi di dottorato del 1968 di Gilles Deleuze – solo per fare due esempi capitali). Il volume di Francesco Giusti: Canzonieri in morte. Per un’etica poetica del lutto (Textus, L’Aquila 2015) sembra rispettare fino in fondo questa strana regola – se non fosse che, almeno negli intenti, non è certo di un saggio filosofico che si tratta. Almeno negli intenti, si diceva. Perché nella sostanza, questo giovane comparatista e teorico della lirica può contare non solo su una padronanza non comune di un dibattito particolarmente poco noto dalle nostre parti (e frequentatissimo, invece, dalla critica anglosassone), dibattito sulle raccolte poetiche indirizzate a un’amata/o scomparsi, ma soprattutto su un’intelligenza delle sue poste in gioco anche più speculative – se non addirittura, metafisiche – davvero eccezionale. La scelta dell’autore è decisamente condivisibile: da un primo capitolo introduttivo, dedicato alla messa a punto di quanto non si fatica a definire il paradigma di questo “sotto-genere” della poesia occidentale, attraverso la ricostruzione del mito di Orfeo nelle sue innumerevoli declinazioni, si orienta poi su i due pilastri della Vita Nova di Dante e del Canzoniere di Petrarca, per arrivare infine, con balzo significativo, al Novecento (e prendendo in considerazione poeti come: Eugenio Montale, Milo De Angelis, Ted Hughes, Mark Doty, Douglas Dunn, Gabriela Mistral e Patrizia Valduga). Ed è in questa ricognizione, decisamente notevole per erudizione e precisione di indagine, che emerge qualcosa come un basso continuo, un bordone incessante che si ripercuote e risuona, appunto, attraverso tutta la tradizione dei Canzonieri in morte (secondo un nome che è l’Autore stesso ad aver efficacemente escogitato). Questa nota battente consiste esattamente nella distanza con cui la poesia ha, rispetto alla filosofia, “trattato” la morte (perché ne va proprio di un “trattamento”, anche nel senso clinico-terapeutico della parola) – o, come ci invita a dire Giusti stesso, il “morire” e, ancora più precisamente, il “tu muori” dell’amato/a deceduti. Philosophice, la morte ha ricevuto infatti due significati cruciali – secondo un illuminante passo di Herbert Marcuse riportato nel libro: quello di un buco asemantico nell’ambito dell’esperienza umana e che resta strutturalmente non metabolizzabile o, al contrario, quello di evento a partire da cui la vita acquista retrospettivamente senso, che conferisce senso a quanto altrimenti in sé non lo avrebbe (la mera sequela di fatti delle nostre esistenze).
Ecco, il poeta, per dir così, sceglie una terza via, che in qualche modo conserva, senza alcun superamento dialettico, i due corni del dilemma enunciato da Marcuse. Ne conserva innanzitutto il carattere intimamente problematico (di ostacolo insormontabile, anche in forza della polarizzazione appena indicata) e, a ben vedere, sempre fallimentare. In effetti, che si intenda la morte come una pura frattura nell’ordine del senso o invece come datrice di senso, è sempre in quanto per essenza non padroneggiabile che essa si presenta: nel primo caso, evidentemente; nel secondo, poiché comunque questa sua funzione non riguarda il soggetto morente, ma l’Altro (con la maiuscola a capolettera) che sopravvive al morto e che potrà, allora sì, saperne qualcosa di definitivo sul suo (del morto) conto. I poeti passati in rassegna da Giusti, al contrario, accettano di situarsi in una terra di mezzo – la terra che si colloca tra questi due fallimenti nel dominare la morte, tracciando il sentiero tortuoso che dalla fine traumatica di un amore conduce all’impossibilità di redimere veramente quello stesso amore perduto, attraverso la risorsa della parola poetica. Il risultato è la peculiare, ma esemplare, messa in forma di una morte singolare, coniugata sempre alla seconda persona (“tu muori”), mediante un gesto che si ripiega su se stesso, che riflette in primis sulla propria possibilità – che si fa, mi si permetta il ricorso a tale espressione, “meta-poetico”, illustrazione del Poetico in quanto tale – in quanto desiderio mai appagato da parte di un soggetto di riscattare l’“oggetto” (qui, la persona amata). Insomma, come tematizzazione della tensione stessa che incarna il dire di qualcuno intorno a qualcosa, nel suo mancare però sempre il bersaglio prescelto – meditazione, in una parola, sull’errore che immancabilmente affligge lo sforzo conoscitivo umano – viepiù quando si confronta con l’irruzione in senso proprio della “fine”. In ciò sta la portata autenticamente teoretica del lavoro di Giusti: costruire un’idea – un concetto – di Poesia (ovvero, di una delle capitali attività di senso dell’uomo occidentale), che tenga conto del suo sfondo esperienziale ed esistenziale, del suo radicarsi in un vissuto – della sua potenza, addirittura, nel retroagire sulla tessitura di una vita che ha visto l’amata/o morire. Che pone al centro, in altri termini, la relazione simmetrica, anche in absentia, con cui l’io lirico necessariamente si confronta, nella misura in cui sa da sempre che l’oggetto del suo desiderio gli è opaco almeno quanto gli è opaca la matrice della sua spinta ad appropriarsene nel linguaggio. Che si concretizza, in breve, in un gioco di specchi in cui oggetto e soggetto sembrano quasi scambiarsi il posto, perdersi l’uno nell’altro: o finanche ritrovarsi, là dove non si erano mai incontrati (nei segreti, ad esempio, che l’amato/a aveva in vita per il suo amante).
Il ritratto della Poesia che ne risulta è dunque un ritratto allo stesso tempo pessimistico e speranzoso. Tutto, si potrebbe sentenziare, si condensa ancora una volta nell’aforisma di Samuel Beckett: fallire ancora, fallire meglio. Niente di più, perché forse non c’è nient’altro da fare. Giusti cesella con abilità narrativa intere vicende poetiche e biografiche, non tralasciando di ripercorrere le polemiche, anche le più accese, che questi canzonieri hanno saputo suscitare (si pensi in particolare alla vicenda di Ted Hughes e delle sue Lettere di compleanno, rivolte alla moglie morta suicida Sylvia Plath e che non pochi malumori hanno sollevato, soprattutto in ambienti femministi). Il punto dolente, in effetti, è sempre lo stesso: chi si giova, anche nel senso narcisistico della parola, di tali imprese, a volte quasi troppo insistenti nella loro volontà di restituire un lembo, sia pure minimo, della vita inabissatasi? È l’autore, naturalmente, a trarne beneficio, non foss’altro che per sedare quel corredo di sensi di colpa e di mancanze che la morte nell’amore si trascina sempre dietro (quando, inoltre, anche lo scomparso o la scomparsa è stato anch’egli o anch’ella un poeta, il fardello della messa in parola appare ancora più insostenibile e, allo stesso tempo, potenzialmente vezzoso: è il caso di Patrizia Valduga nei riguardi di Giovanni Raboni).
C’è però un sottile filo conduttore che lega tutte le raccolte inventariate nel libro: la necessità di serbare qualcosa dall’oblio della morte che sia del registro della traccia – qualcosa che sia meno di un’immagine ma più di una parola; qualcosa di quasi animale, che non assassinii, per la seconda volta, l’oggetto del desiderio, attraverso la funzione significatrice, e umana troppo umana, del linguaggio (Hegel diceva, ripreso da Jacques Lacan: il simbolo uccide la cosa). È in questa esigenza primordiale, debitamente sottolineata da Giusti, che forse il narcisismo del poeta lascia il passo ad altro – o all’altro, come si potrebbe semplicemente dire. Lì, nell’assenza che continua a visitare il reduce, nei gesti anche più quotidiani, sino a una quasi-identificazione con chi lo ha lasciato, i canzonieri in morte scoprono forse davvero un mondo non riscattabile, perché già da sempre riscattato: quello dell’amore, come autentico orizzonte di possibilità e di senso dell’intero sotto-genere studiato. Ecco dunque il significato del titolo e, se si vuole, la sua tesi propriamente filosofica: di fronte alla morte l’unica etica possibile è una poetica, e viceversa, la sola forma estetica possibile è quella di certa una condotta di vita, fedele sino allo stremo delle forze all’evento del “tu muori”.
Questo universo così prepotentemente presente ad ogni passo del libro, non diventa mai esplicitamente tematico nelle riflessioni di Giusti – senza però essere messo a margine, come un dettaglio non poi così imprescindibile. Avrebbe davvero senso, infatti, provare a parlare della morte se non ci fosse questo orizzonte di senso amoroso? In fondo, il “tu muori” lo incontriamo perché ci siamo fidati – e fidarsi, per quanto possibile, è il vero e solo atto d’amore che si possa saper fare, l’unica postura assumibile affinché qualcosa si possa salvare, magari per un tempo assai limitato, dalla morte medesima. Ci sarebbe da chiedersi, in altre parole, se il prossimo lavoro di questo brillante ricercatore non sarà orientato su tale aspetto, solo parzialmente discusso nella bellissima indagine che lo ha portato a questa sua prima e importante fatica. Se qui si trattava di mettere a fuoco il tragitto che dall’amore va alla morte, perché non dedicarsi ora apertamente a quello che trascina in senso opposto, dalla morte all’amore – dove quest’ultimo si rivela per quello che è: la condizione stessa di possibilità del “tu muori” singolare, che il poeta ha saputo pensare meglio del filosofo? Se così fosse, allora, si scoprirebbe forse che il gioco di specchi che portano in scena i canzonieri in morte non è altro che il gioco di specchi che balugina negli sguardi e negli inseguimenti reciproci degli amanti – gioco fatto di altrettanti piccoli lutti, prese di distanze, riavvicinamenti subitanei e racconti entusiasmanti.
Il libro: Francesco Giusti, Canzonieri in morte. Per un’etica poetica del lutto, Textus, L’Aquila 2015, pp. 488, € 22,50