Quando Cheever conobbe Modugno

30 Gennaio 2014

Alcuni anni fa mi capitò di ascoltare per la prima volta una famosa canzone di Domenico Modugno intitolata Mariti in città. Il brano in questione, uscito in 45 giri nel 1958 ma già in diffusione dall'anno precedente, racconta in terza persona le fantasie extraconiugali del protagonista di un topos degli anni '50, quello del marito che, accompagnati i figli e la moglie nei luoghi deputati alla villeggiatura, resta solo in città a lavorare.

 

 

Ammetto che questa canzone mi ha ossessionata per alcuni mesi e che tuttora mi pare particolarmente riuscita per via di una capacità inconsueta per l'epoca - invero comunque ben a fuoco nella discografia di Modugno - di centrare senza reticenze e retorica, una certa peculiarità dell'uomo del proprio tempo. In questo caso al centro del brano c'è una caratteristica più spiccatamente maschile: quell'autoproclamarsi ricco di belle speranze da tombeur de femmes che vengono puntualmente tradite da una clamorosa goffaggine, funesto impedimento al compimento reale dell'adulterio. A conferire al brano un'altra cospicua dose di simpatia farsesca c'è poi la musica: un motivo irresistibile, italianissimo, pronto a conquistare la radio e stabilirsi provocatoriamente, pungente come uno spillo, negli appartamenti degli italiani alla fine degli anni '50.

 

Anche i turisti stranieri, senz'altro, furono rapiti da quella melodia così tipica, ripetuta in modo vagamente ossessivo e probabilmente si ritrovarono a canticchiarla camminando per le strade della capitale o facendo avanti e indietro sulla battigia di qualche spiaggia delle nostre coste proprio con la stesso umore con cui oggi ci si approccia senza volerlo e spesso passivamente a una qualsiasi hit estiva. La conferma di quest'ultima ipotesi arriva diretta e sorprendente da un racconto dell'autore americano John Cheever intitolato proprio Marito in città uscito sul New Yorker il 4 luglio 1964.
Eccone l'incipit:

Anni fa in Italia girava una canzone popolare intitolata Mariti in città. La melodia era semplice ed orecchiabile come un motivetto di strada. Le parole dicevano 'La moglie se ne va, il marito sta in città, il povero marito, rimane incustodito' e trattavano la condizione degli uomini soli in quel modo spensierato e farsesco che sembra ormai tradizionale, come se essere soli fosse una condizione fondamentalmente comica, proprio quanto lo sarebbe rimanere impigliati in una lenza da pesca. Il signor Estabrook l'aveva sentita mentre era in viaggio in europa con la moglie (14 giorni, 10 città) e qualche tessuto capriccioso della sua memoria era rimasto impressionato in modo indelebile dalle parole e dalla musica. Non se l'era dimenticata: e anzi, sembrava proprio che non riuscisse a dimenticarla, anche se la canzone era in contrasto con il suo modo di vedere le potenzialità dell'essere soli.

 

Cheever, che visse stabilmente in Italia per dieci mesi proprio nel periodo in cui la canzone uscì, aveva dunque individuato perfettamente l'elemento piacevolmente tormentoso della musica e delle parole della canzone di Modugno della quale però sembra non aver colto - senz'altro per questioni strettamente socio-linguistiche -, l'aspetto ironico, il fint'allegro e la capacità di attivare nell'ascoltatore un senso del ridicolo e di pena per il protagonista. Tuttavia, proseguendo nella lettura del racconto, capiremo - e sarà lo stesso autore a dircelo - che la storia del signor Estabrook, destinato a restare solo in città senza figli e senza moglie, non sfuggirà alle stesse "restrizioni farsesche di quel motivetto di strada".

 

John Cheever

 

Il protagonista della storia si avvierà alla sua vacanza casalinga in solitudine cercando di mettere in ogni modo a frutto il senso di pace e insieme di vuoto conferito alla sua vita dall'assenza del resto della famiglia ma finirà per ridursi proprio nelle condizioni che quella canzonetta gli aveva indicato.
Dice Modugno "La moglie se ne va e il marito sta in città, il povero marito rimane incustodito" e così, effettivamente, finirà il signor Estabrook. Incustodito, dimagrito di sette chili e costretto a farsi stringere i pantaloni in vita, il nostro protagonista si getterà tra le braccia della sarta, amerà non per caso per un momento o poco più, l'unica donna che, in quei giorni di solitudine, si troverà nelle condizioni di doversi prendere cura di lui - anche solo perché fare modifiche ai capi d'abbigliamento è il suo lavoro.

 

Ecco dunque che Estabrook finisce per rappresentare, in prosa, il protagonista di quel motivetto di strada: se Modugno raccontava di un'agognatissima scappatella con una donna "veneziana che sta sempre in sottoveste sul balcone a canticchiar" con la spensieratezza e la bramosia del desiderio - destinato a restare tale per il ritorno della moglie in città -, qua Cheever racconta come le migliori intenzioni di un uomo solo (ascoltare Bach e soffermarsi per ore e ore al telescopio) siano destinate a deragliare non appena costui incapperà nel mancato soddisfacimento di uno di quei bisogni primari solitamente affidati alle attenzioni della moglie.

 

Da una parte dunque una canzone popolare molto riuscita, capace di accalappiarsi le attenzioni di più generazioni e colonna sonora del meno riuscito omonimo film di Luigi Comencini del 1958, dall'altra un racconto straordinario, poche pagine in grado, proprio come quel motivetto e quelle rime, di aggrapparsi alla mente del lettore per sempre. Da una parte l'uomo che tanto vuole e nulla riesce a ottenere e dall'altra intenzioni di fedeltà sciolte nel calore di un'inattesa breve storia d'amore nell'estate cittadina, tra il profumo dell'acero e di una pelle nuova da accarezzare.

 

Ci suggerisce infine Cheever "L'adulterio è un luogo comune, è il soggetto di gran parte della nostra letteratura, del nostro teatro, del nostro cinema. Ci scrivono le canzonette", a noi resta il dubbio che ci stia dicendo così solo perché, alla fine, le mogli in città tornano sempre.

 

Potete leggere per intero Marito in città in John Cheever, I racconti (Feltrinelli, 2012)

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