Quando Hemingway sognava i leoni

8 Dicembre 2024

Il titolo del libro di Matteo Nucci, Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway, richiama la frase finale di Il vecchio e il mare, “The old man was dreaming about the lions”, e il sogno ricorrente di Santiago, il vecchio pescatore che da ragazzo aveva visto i leoni su una spiaggia dell’Africa, da lontano, dal ponte di una nave, e non li aveva più dimenticati. Quando era felice sognava i leoni.

Quanto all’eroismo fragile, la grande libraia Silvia Beach, nel suo libro di memorie Shakespeare and company (1956), fu forse la prima ad accostare i termini fragile e sensibile a Hemingway: “Qualunque cosa facesse la faceva con serietà e competenza (…). Era il più severo critico di sé stesso. (…) fu Joyce che una volta mi fece notare che quel darsi arie da duro era tutta una montatura. Era vero il contrario, era un tipo fragile e sensibile”. Il coraggio, il gesto shakespeariano di sfida alla sorte (si muore una volta sola), per Hemingway erano un antidoto alla malinconia, all’inesorabile passare del tempo, alla morte, all’ingiustizia: “Uno scrittore che non ha il sentimento della giustizia e dell’ingiustizia farebbe meglio a scrivere un annuario scolastico piuttosto che dei romanzi” (da un’intervista a George Plimpton, Paris Review, 1958).

Riparlare di Hemingway fa bene a chi lo ha letto da giovane, e si è appassionato a quelle storie di coraggio e dignità individuale immerse nel gran fiume degli eventi collettivi, della storia. E fa bene a chi lo conosce poco, solo per alcuni libri molto noti, come Il vecchio e il mare o Addio alle armi, oppure per una vita che ha ispirato sentimenti contrastanti. Molti hanno affiancato la passione per le opere – lo stile nitido ed efficace, le vicende tragiche e coinvolgenti –, all’empatia per un uomo che, con tutti i suoi limiti, ha speso la sua vita su tanti fronti di guerra: la grave ferita a Fossalta di Piave, nel luglio del 1918, mentre neppure ventenne prestava servizio nella Croce rossa americana; la partecipazione alla guerra di Spagna nel 1936; l’arrivo con gli Alleati a Parigi, nel 1944, da giornalista ma in prima linea. Altri ne hanno mal sopportato gli eccessi temperamentali, la passione per l’alcool e la caccia.

Sognava i leoni è una buona occasione per riprendere in mano le storie dello scrittore americano. Nucci si confronta con la sua passione giovanile per le opere di Hemingway senza fare sconti, con disincanto e qualche durezza, rimarcandone pregi e punti deboli. La forza della scrittura di Hemingway si appoggia su due precetti, la teoria dell’iceberg e quella di una “parola scritta che comunichi direttamente ai sensi”.

Il primo, Hemingway lo espone nella lunga intervista del 1958 a George Plimpton:

Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quello che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. Grazie alla parte che non si vede”. Un continuo lavoro di elisione per eliminare il superfluo e rafforzare l’essenza più profonda e vera delle sue storie.

Il secondo si richiama alla famosa prefazione di Joseph Conrad a Il negro del Narciso, un vero e proprio saggio sullo scrivere: “Il compito che mi spetta e che tento di assolvere, è di riuscire, col potere della parola scritta, a farvi udire, a farvi sentire; è, soprattutto, di riuscire a farvi vedere”. Hemingway declama spesso questo assunto nelle interviste, senza citare la fonte. Il suo apprezzamento per Conrad era noto ed esplicito, sin dall’articolo che scrisse nel 1924 sulla Transatlantic Review in occasione della scomparsa dello scrittore anglo-polacco, ma citare quel principio senza fare il suo nome era forse un modo per aderirvi in toto, senza riserve. A Conrad lo legava anche il senso dell’integrità personale, il desiderio di essere all’altezza della situazione nei momenti più difficili.

Nel corso degli anni, l’eccessiva attenzione riservata alla sua biografia ha distolto lo sguardo da pagine ineguagliabili nonostante i molti imitatori, originali nonostante alcuni riferimenti stilistici; ha distratto l’attenzione da testi dove non si riesce a immaginare una parola da aggiungere o una da togliere tanto sono accurate e incisive. Non sempre, ma di sicuro in racconti come Le nevi del Kilimangiaro, La breve vita felice di Francis Macomber, Gli uccisori, Un posto pulito illuminato bene, in molti capitoli di Fiesta, Addio alle armi, Morte nel pomeriggio (specie il XX) e Il vecchio e il mare. Tutti attraversati da un profondo senso di integrità e dignità personale, nelle vicende narrate come nelle scelte sintattiche. Nei primi tre racconti i protagonisti tentano troppo tardi di ritrovare il proprio onore perduto, ma reagendo con stoicismo e dignità danno senso e grace under pressure alle loro esistenze. Nel quarto, Un posto pulito illuminato bene – citato da Joyce nel suo elogio dello stile di Hemingway –, la scena è semplice, quasi un dipinto di Edward Hopper: un Caffè ancora aperto a notte inoltrata, un vecchio solitario, due camerieri, uno dei due ha fretta di chiudere, l’altro vorrebbe dare più tempo al vecchio e a sé stesso. Il tema del racconto è proprio il tempo, e la notissima preghiera al nowhere racchiusa nelle pagine è rivolta a tutti coloro che si sentono vinti da sempre, consapevoli che l’uomo è per sua natura sconfitto, eppure insistono nel rincorrere quell’istante di eternità che ci è concessa, quell’eterno presente in cui si dimentica il fuggire del tempo: “Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano (…)”. Una preghiera che, sottolinea Nucci, non ha un significato nichilistico, ma “proprio il contrario: la forza dell’uomo che riconosce la propria fragilità, la propria fallibilità, la finitezza, in cui è costretto a passare i suoi giorni”.

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Il libro di Nucci segue un filo cronologico ma senza indulgere in troppe annotazioni biografiche, ne ripercorre i romanzi e i racconti, gli intrecci con le esperienze di una vita vissuta sin troppo intensamente, percorsa a una velocità tale da rendere inevitabili errori e i rimpianti. Si possono non condividere i giudizi molto severi sui dialoghi tra Frederic Henry e Catherine in Addio alle armi (mentre elogia invece le pagine di guerra e di paesaggi), e gli entusiasmi senza riserve per Morte nel pomeriggio. Ma entrambi vengono illustrati con una dialettica così tesa ed espressiva da rendere quei giudizi comunque coinvolgenti.

Tra le fonti della critica letteraria citate nel libro, è bello che venga ricordato Giovanni Cecchin; i suoi Invito alla lettura di Hemingway e Con Hemingway e Dos Passos sui campi di battaglia italiani della Grande Guerra sono stati un po' dimenticati e meriterebbero davvero di essere riletti.

Riguardo la guerra, dopo averne viste e vissute tre, nella prefazione all’edizione di Addio alle armi del 1948 Hemingway descrisse il suo punto di vista con parole chiare e nette: "Il titolo del libro è Addio alle armi e, eccettuati tre anni da quando è stato scritto (nel 1929 ndr), c'è stata quasi sempre una guerra di qualche genere. C'era qualcuno che diceva, "perché questo tizio è così preoccupato e ossessionato dalla guerra?", e ora dal 1933 (presa del potere da parte di Hitler ndr) forse è chiaro perché uno scrittore debba interessarsi al continuo, prepotente, criminale, sporco delitto che è la guerra. Siccome di guerre ne ho fatte troppe, sono certo di avere dei pregiudizi, e spero di avere molti pregiudizi. Ma è persuasione ponderata dello scrittore di questo libro che le guerre sono combattute dalla più bella gente che c'è, o diciamo pure soltanto dalla gente, per quanto, più ci si avvicina a dove si combatte e tanto più bella è la gente che si incontra; ma sono fatte, provocate e iniziate da precise avidità economiche e da demagoghi arroganti che sorgono a profittarne."

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Ernest Hemingway, foto di Yousuf Karsh, 1957.

I limiti dell’opera di Hemingway rimarcati da Nucci riguardano soprattutto il romanzo Di là dal fiume tra gli alberi, un malinconico confronto con la memoria e con la morte, evocato nei monologhi – coinvolgenti e veri – e nei dialoghi del colonnello Cantwell – poco credibili, lontanissimi dai dialoghi perfetti di Fiesta; spiega che Hemingway pare aver perso grazia e originalità, ma ritiene che quel tentativo non riuscito abbia il merito di spingere l’autore a scrivere poi un capolavoro come Il vecchio e il mare. Un testo epico che racchiude i suoi principali temi etici e letterari, compreso quello della morte, della sconfitta, della fine di tutto. Perché con tutti i suoi eccessi retorici in Di là dal fiume tra gli alberi Hemingway ha il coraggio di tentare un diverso modo di scrivere e di affrontare il tema della fine, dello spreco di possibilità, del fare davvero i conti con sé stessi. All’epoca della sua pubblicazione in Italia il libro venne criticato duramente da Alberto Moravia e difeso da Eugenio Montale, Elio Vittorini e Paolo Monelli. Lasciano un senso di amarezza le espressioni usate da Moravia, “dannunzianesimo flaccido” e “tête molle”, utilizzate verso un uomo che nel corso della sua vita si era impegnato e sacrificato su tanti fronti, e sempre dalla parte più giusta della storia (in Italia il fascismo aveva vietato la pubblicazione dei suoi libri). Non così Moravia, se pensiamo alle lettere servili indirizzate negli anni Trenta a Mussolini e a Ciano, e ai giudizi sprezzanti verso i fratelli Rosselli, anche dopo il loro assassinio a Parigi.

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Hernest Hemingway in Italia, 1918.

La difesa più esplicita di Hemingway alle critiche (“uno scrittore finito”, “un libro retorico e inutile”) che accolsero il libro in America, arrivò da William Faulkner ed Evelyn Waugh. Quest’ultimo scrisse: “Ma perché ce l’hanno a morte con lui? Io penso dipenda dal fatto che avvertono in lui qualcosa oggi ritenuto imperdonabile: sentimenti etici decenti. Senso dell’onore, rispetto per le donne, pietà per i più deboli”.

Nucci esalta invece senza riserve il nitido lirismo di Hemingway in Il vecchio e il mare, l’ultimo libro pubblicato in vita, la storia di un vecchio pescatore che dopo mesi di pesca senza fortuna, lotta giorno e notte per catturare un grande marlin, un pesce così grande “che bastava a mantenere un uomo per tutto l'inverno”. E tenta poi di difenderlo dagli squali che arrivano a branchi per portarselo via, morso dopo morso. Si batte contro di loro utilizzando i pochi mezzi che ha, un coltello, un remo, troppo poco. Si dà forza dicendo a sé stesso: “Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai”.

È un lungo racconto nel quale uomo e natura, coraggio stoico e disperazione, rendono tutta la bellezza della vita, quando vissuta veramente. La sconfitta finale, con il pesce divorato dagli squali e ridotto a un grande scheletro, rende il senso di un vivere dove la sconfitta finale è certa e inevitabile, ma ciò che lo giustifica e lo rende accettabile è la capacità di battersi sino alla fine, con lealtà e dignità. Manolin, il ragazzino che lo aiuta per imparare il mestiere di pescatore d’alto mare, ha capito il dramma del vecchio:

«Mi hanno battuto, Manolin» disse. «Mi hanno proprio battuto».
«Ma non ti ha battuto lui. Il grande pesce».
«No. Davvero. È stato dopo».

Non smise mai di scrivere, sino ai suoi ultimi anni vivere e scrivere furono una cosa sola. Oltre a Il vecchio e il mare, del 1952, negli anni Cinquanta Hemingway si dedicò anche ad alcuni romanzi poi interrotti per iniziarne altri, sentiva di avere ancora molto da raccontare.

Sul finire di quel decennio purtroppo, gli eccessi alcolici e i ripetuti infortuni (specie quelli subiti in Africa), le malattie e le cure sbagliate finirono per spegnere la sua capacità di vivere veramente, e quindi di scrivere. Decise allora di farla finita, era il 2 luglio del 1961.

Dopo la sua morte uscirono alcuni inediti quasi compiuti e di buon spessore letterario come Festa mobile (1964), un diario della sua gioventù povera e felice a Parigi, e Isole nella corrente (1970), e altri che per la loro incompiutezza non meritavano di essere pubblicati, come Il giardino dell’Eden e Vero all’alba. Hemingway dedicava molto tempo al lavoro di revisione, sin dai primi racconti – una volta confidò di aver riscritto 29 volte il finale di Addio alle armi –, facile immaginare che non avrebbe approvato quell’arbitrario lancio nel nada delle sue pagine.

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Poi incominciò a sognare la lunga spiaggia gialla e vide il primo leone giungervi sul fare del buio e poi giunsero gli altri leoni e lui stava col mento sul legno della prua dove la nave giaceva ancorata sotto il vento serale che veniva dal mare e aspettava di vedere se sarebbero venuti altri leoni, ed era felice”.

Da Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway.

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