Conrad: il cuore di tenebra del colonialismo

3 Agosto 2024

“Era il 1868, avrò avuto nove anni o giù di lì; mentre guardavo una mappa dell’Africa e puntavo il dito sullo spazio vuoto che allora evidenziava il più grande mistero del continente, dissi a me stesso con una sicurezza e un’audacia ormai lontane dal mio carattere: quando sarò grande, viaggerò sin laggiù”.

Joseph Conrad evoca questo ricordo sia in A Personal record, una sorta di divagante autobiografia, sia nel lungo articolo Geography and Some Explorers.

Con quello spirito, dopo quindici anni di navigazione in tutti i mari del mondo e aver raggiunto il grado di capitano della Marina mercantile inglese, Conrad nel 1889 decide di mollare tutto e di visitare il più grande di quei blank space, il Congo, nel cuore profondo dell’Africa.

Una scelta perseguita con determinazione, coerente con quel sogno giovanile, stimolata dalla fama acquisita dal grande esploratore Henry Morton Stanley, ma che appare per molti versi inspiegabile. Conrad era a un punto cruciale della sua vita. Divenendo capitano della Marina più importante del mondo aveva raggiunto un obiettivo inimmaginabile per un polacco (il suo vero nome è Józef Teodor Konrad Korzeniowski) vissuto sino a 17 anni lontano dal mare e che aveva imparato la lingua inglese solo a vent’anni. Nell’autunno del 1889, inoltre, aveva iniziato a scrivere il suo primo libro, Almayer’s Folly. Eppure fa di tutto per farsi ricevere dal direttore generale della Société Anonyme Belge pour le Commerce du Haut-Congo, il potente Albert Thys, uno dei maggiori collaboratori di re Leopoldo II del Belgio, chiedendo un incarico in Congo. Ha esperienza di mare, conosce bene il francese, e la sua candidatura è sostenuta dalla vedova di un suo lontano cugino, Aleksander Poradowski, che si era rifugiato in Belgio dopo i moti del 1863 contro l’oppressione della Russia zarista in Polonia. Lei, Marguerite, è una donna di grande vivacità intellettuale, una scrittrice con molte conoscenze a corte; diverrà una delle persone più importanti nella vita di Conrad, il carteggio tra i due è il più significativo e intimo dell’intera, estesa, corrispondenza dello scrittore. 

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Joseph Conrad nel 1922.

Agli inizi del 1890, Conrad ottiene la promessa di comandare un battello fluviale della società belga. Arrivato in Africa nel giugno di quell’anno, si rende subito conto della durezza del clima, delle malattie che colpiscono dopo pochi mesi quasi tutti i funzionari della Société e dello sfruttamento feroce dei nativi, usati come dei quasi schiavi nella costruzione della ferrovia, negli scavi minerari, nell’accaparramento delle zanne di avorio degli elefanti. I suoi scrupoli, la sua diversità intellettuale e morale rispetto a funzionari votati solo a far soldi, gli creano gravi problemi di incompatibilità. Non gli viene affidato il comando di una nave, ma solo un incarico di ufficiale a bordo del Roi des Belges, un battello a vapore con ruota poppiera, per un viaggio lungo il fiume Congo che sarà una delle esperienze più dure e pericolose della sua vita, con conseguenze permanenti sulla sua salute.

Viene colpito da malaria, rischia di perdere il manoscritto del suo libro, comprende di aver fatto uno sbaglio enorme, rimpiange il mare. In una lettera a Marguerite scrive: “Rimpiango decisamente di essere venuto qui. Anzi lo rimpiango amaramente. [...] Tutto qui mi è odioso. Gli uomini e le cose, ma soprattutto gli uomini. [...] Il direttore è un volgare mercante d’avorio dagli istinti sordidi [...]. Detesta gli inglesi e naturalmente qui io sono considerato tale. Finché rimarrà qui non potrò sperare né in promozioni né in aumenti di stipendio. [...] Mi sento piuttosto debole di corpo e abbastanza demoralizzato, poi credo davvero di avere nostalgia del mare, desiderio di rivedere quelle distese d’acqua salata che tanto spesso mi hanno cullato, tante volte mi hanno sorriso sotto lo scintillio dei raggi del sole in una bella giornata, e tante volte mi hanno anche gettato in faccia la minaccia della morte in un turbinio di schiuma bianca sferzata dal vento sotto un cielo cupo di dicembre. Rimpiango tutto questo”.

Dall’esperienza in Africa Conrad ricaverà l’unico diario tenuto nel corso della sua vita (lo si può leggere nell’edizione Einaudi di Cuore di tenebra curata da Giuseppe Sertoli), il racconto An Outpost of Progress (Un avamposto del progresso) e il romanzo Heart of Darkness (Cuore di tenebra).

Un avamposto del progresso, pubblicato nel 1897, anticipa di due anni gli scenari e i temi del romanzo ed è uno dei più duri testi narrativi contro il colonialismo di fine Ottocento. Non a caso, dopo la sua pubblicazione Conrad riceve una lettera densa di elogi da parte di Robert Cunninghame Graham, all’epoca uno dei politici e intellettuali progressisti più noti in Gran Bretagna. Una lettera che darà il via a una lunga e solida amicizia tra i due. 

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Lo stile del racconto è realistico, Conrad lascia parlare i fatti, in una storia retta dalla tensione e dal male insito nell’anima dei due bianchi che dirigono l’avamposto: disprezzano i nativi, ma la loro debolezza e incompetenza svela tutta l’assurdità del loro senso di superiorità. L’oscurità è nella loro mente più che nel buio della foresta, nell’eco di tamburi lontani e di grida notturne. 

È assente nella vicenda il carico di impressioni e di aggettivi di Cuore di tenebra, che evoca paura e orrore più che mostrarli. 

Lo scrittore africano Chinua Achebe aveva forse sottovalutato questo racconto di Conrad quando nel 1977 criticò il romanzo accusando Conrad di aver usato l’Africa come sfondo e pretesto per raccontare tormenti esistenziali di europei, e di aver utilizzato stereotipi razzisti. Seguito, negli anni successivi, da alcuni interventi di docenti universitari statunitensi ossessionati da politically correct e cancel culture. Il romanzo, pubblicato nel 1899, è in realtà la più nota opera letteraria contro il colonialismo. Esce quasi in parallelo con un pamphlet di Roger Casement, un funzionario della Compagnie du chemin de fer du Congo, che Conrad aveva conosciuto in Africa, apprezzandone la cultura e l’idealismo. Divenuto console britannico, Casement scrive e invia al Parlamento inglese un report molto dettagliato sugli orrori visti in Congo, Correspondence and Report from His Majesty’s Consul at Boma respecting the Administration of the Independent State of the Congo. Il pamphlet, datato 13 dicembre 1903 e pubblicato nel febbraio 1904, viene diffuso in tutta Europa, e costringe il re del Belgio Leopoldo II a nominare una Commissione d’inchiesta sul trattamento dei nativi in Congo.

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Conrad non denuncia e non commenta i mali del colonialismo, li mostra; in anni in cui un altro scrittore inglese, Rudyard Kipling, lodava l’Impero Britannico con pagine di buon spessore letterario, ricevendo nel 1907 il premio Nobel per la letteratura.

Alcuni hanno eccepito che Conrad condannerebbe solo il colonialismo belga, sottintendendo una sostanziale accettabilità del modello inglese. La tesi poggerebbe sulle parole del protagonista, Charlie Marlow, il quale, mostrando una mappa segnala i possedimenti inglesi come terre regolate dal diritto e da usi civili. Marlow in realtà è un personaggio, nato, cresciuto e divenuto uomo di mare in Gran Bretagna, non è Conrad. Che lo sfruttamento del Congo sia stato il peggior esempio di colonialismo della storia è un fatto storico innegabile, comprovato dal dimezzamento della popolazione nativa nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ma la condanna del colonialismo implicita in Cuore di tenebra va ben oltre il caso Congo. Il protagonista negativo del libro, il tedesco Kurtz, proviene non a caso da una famiglia di molteplici origini (“sua madre era per metà inglese, suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz”), la stessa Londra, punto di partenza e di arrivo della storia, non è vista come un’alternativa di luce e di ragione alla darkness africana, ma come un luogo avvolto da tenebre altrettanto inquietanti. Un male oscuro che Conrad approfondirà in The Secret Agent (L’agente segreto), ambientato interamente a Londra.

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Hart Africa, A new universal atlas, di Tanner, Henry Schenck, and Carey &, 1844.

Il disprezzo verso la crudeltà e l’avidità dei funzionari della Société non può evidentemente prescindere da una implicita empatia verso gli sfruttati. Si può però rimproverare a Conrad l’assenza di una esplicita e dichiarata solidarietà? Può darsi. Viene in mente il caso di Robert Louis Stevenson, che in quegli anni sostenne pubblicamente la causa dei nativi delle isole Marchesi, angariati dalle autorità coloniali, anche nelle pagine di Nei mari del sud (1889). Come ha ben rilevato Riccardo Capoferro però, una buona risposta ai rilievi di Achebe giunse nel 1981 da un altro scrittore africano, il guyanese Wilson Harris; questi evidenziò come Cuore di tenebra sia un “romanzo di frontiera”, teso a superare una soglia che Conrad non riesce a valicare, ma è innegabile lo sforzo di attaccare il castello di retorica civilizzatrice che mascherava un feroce sfruttamento coloniale, e di svelarne l’orrore. “Nell’ottica di Harris, Cuore di tenebra ci può ricordare che ognuno di noi, ogni scrittore ed ogni lettore, ha una storia, un contesto, e un punto di vista che lo ostacolano, ma che può provare a forzare quasi sino al punto di rottura. E che la purezza è difficile da conseguire, se non nelle fantasie dei puritani, che si credevano più civili degli ‘indiani’, ma erano inclini a cercare capri espiatori” (Riccardo Capoferro, Cuore di tenebra, le letture paranoiche e la cancellazione della storia, in leparoleelecose.it, 18 gennaio 2024).

Tra le pagine del libro sono molti gli avvenimenti che restano nella memoria per la loro realistica e sinistra assurdità, tra allegoria e presagio. Mentre la nave che porta Marlow in Congo si avvicina alla costa, viene avvistato un piroscafo da guerra francese intento a cannoneggiare la foresta: “In quella vuota immensità di terra, cielo e acqua, se ne stava li, incomprensibile, a sparare su un continente”. 

Durante il viaggio nel profondo della foresta equatoriale, Marlow giunge nei pressi di un grande cantiere. Vede uomini di varia età sdraiati o seduti tra gli alberi, stremati, non più incitati con ogni mezzo a lavorare. “Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde erano libere come l’aria e altrettanto leggere”. Dopo essere stati sfruttati fino all’estremo, una volta sfiancati senza rimedio, erano stati lasciati liberi, il lavoro li aveva resi liberi. Quasi un sinistro presagio dei peggiori orrori del Novecento; ne troviamo molti in Conrad. Non è un caso che le sue opere siano state evocate nella letteratura successiva da scrittori europei come André Gide, Graham Greene e John Le Carrè, nordamericani come Ernest Hemingway e William Faulkner, sudamericani come Jorge Luis Borges e Mario Vargas Llosa, africani come Ngugi wa Thiong'o e Tayeb Salih. Nel cinema poi, oltre al magnifico The duellists di Ridley Scott, ispirato al racconto Il duello, proprio Cuore di tenebra è un riferimento essenziale per Francis Ford Coppola quando realizza il suo Apocalypse now, ambientato in un altro continente e molti anni dopo, ma fedele al senso profondo del capolavoro di Conrad.

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Una mappa dell'Africa equatoriale, 1884.

Il viaggio nell’entroterra e lungo il fiume Congo, il secondo più lungo dell’Africa dopo il Nilo, diventa per Marlow un progressivo affondare nel cuore oscuro di un continente ancora sconosciuto e pieno di insidie: “Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra”. Il suo compito è cercare Kurtz, un alto funzionario della sua stessa Compagnia che, dopo aver conseguito ottimi risultati in termini di raccolta dell’avorio, aveva perso il controllo, usando metodi “eccessivi” anche per datori di lavoro votati al massimo profitto.

Marlow nel suo navigare verso l’ignoto rasenta l’abisso senza caderci dentro, resiste, ancorandosi al proprio mestiere, al proprio codice di valori. In quel mondo oscuro e ostile, conservare la libertà di scegliere tra il bene e il male, può dare senso alla propria vita, e Marlow non cede. E resistono anche gli indigeni che lo accompagnano sul battello. Durante la navigazione, infatti, si erano portati solo della carne di ippopotamo che si era imputridita. Potrebbero impossessarsi dell’imbarcazione, uccidere tutti gli europei e cibarsene, ma non lo fanno, anche loro restano fedeli all’impegno preso e alla parola data.

Kurtz, il protagonista negativo del libro, invece si lascia andare. Comincia la sua avventura in Africa, al servizio della Compagnia belga, con l’idea di portare la civiltà e redimere i nativi e finisce per divenire un piccolo dittatore sanguinario, idolatrato e seguito nelle sue follie. In calce al saggio economico-sociologico scritto nei primi tempi della sua vita nella foresta aveva aggiunto la frase “Sterminate tutti quei bruti!”, e le sue ultime parole prima di morire sono: “Che orrore! Che orrore!”

Salta ogni presunta contrapposizione tra civiltà europea e mondo selvaggio. Il male, la darkness, non è nelle tenebre della foresta, è qualcosa insito nella natura di alcuni uomini, qualunque sia il colore della loro pelle. La libertà di poter scegliere il bene o il male è il nostro bene più prezioso.

Vengono in mente le parole che Virginia Woolf dedicò a Conrad dopo aver appreso la notizia della sua scomparsa, il 3 agosto del 1924, cent’anni fa: “Ma leggete Conrad, non solo il libro che vi regalano per il compleanno, bensì l’opera in blocco, e potrete dire davvero che ha perso il significato delle parole chi non sente in quella musica a volte dura e tenebrosa, con la sua riservatezza, il suo orgoglio, la grande e implacabile integrità, quanto sia meglio essere buoni piuttosto che cattivi e quanto contino la fedeltà, e l’onestà, e il coraggio, anche se in apparenza Conrad si preoccupa solo di mostrarci la bellezza di una notte sul mare”.

Nota su Virginia Woolf: il suo saggio su Joseph Conrad uscì una prima volta nel Time Literary Supplement del 14 agosto 1924, poi rivisto e pubblicato nel volume The Common Reader. First Series, Hogarth Press, London, 1925. In Italia è stato riportato in più edizioni conradiane, qui riprendo la traduzione di Serena Vischi in Joseph Conrad, Note ai miei libri, Lit Edizioni, Roma, 2015, pp. 7-17.

In copertina, Una mappa dell'Impero coloniale inglese nel mondo, 1886.

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