Cognetti, il lato duro delle montagne
Il titolo del suo ultimo libro, Giù nella valle, fa immaginare che Paolo Cognetti abbia dismesso i temi e le ambientazioni dei libri precedenti; invece ha i piedi ancora saldamente piantati tra le montagne e soprattutto nei boschi.
Scritto con un rigore e una compattezza stilistica forse mai raggiunti prima, tratta storie di alberi, di animali, di uomini e donne ferocemente aggrappati alla vita. Il libro si compone di un romanzo breve in cinque capitoli ambientato in Valsesia nel 1994, di un’antica poesia celtica sulle piante riscritta liberamente, e di un breve saggio. La Valsesia è una componente essenziale della vicenda, con presenze appena accennate ma ineludibili: il Monte Rosa, nominato una sola volta, Punta Gnifetti e Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa, una connotazione geografica che favorisce le piogge, specie nella parte più bassa, e una vegetazione fitta e varia. Una valle contraddittoria, che unisce la bellezza naturale a un’antropizzazione a volte invasiva, che in passato ne ha inquinato fiumi e torrenti.
Nelle pagine risuona come tema conduttore Nebraska di Bruce Springsteen, del 1982, che accompagna il lettore sino alla fine, sia per l’atmosfera malinconica di musiche e voce sia per i testi delle canzoni, che richiamano storie di assassini, ergastolani e alcolizzati. Un disco che pare romantico e piovoso quando lo si ascolta per la prima volta, senza far caso alle parole, e che sconcerta quando si fa attenzione ai testi. Vicende molto dure, dense di riferimenti letterari, Flannery O’Connor e James M. Cain, e cinematografici, La rabbia giovane di Terrence Malick e Furore di John Ford.
Così scorre il romanzo di Cognetti, che appare cupo senza essere triste, realistico ma al tempo stesso più letterario che mai, un noir che non affonda nelll’hard-boiled. È un’opera poliedrica, che consente a giornalisti e lettori un’ampia possibilità di dialogo e approfondimenti durante interviste e presentazioni.
Il libro inizia con una vicenda che ricorda in parte Il richiamo della foresta di Jack London, quella di un cane che diviene killer senza ferocia, quasi per caso e senza possibilità di tornare indietro, e della sua compagna. Un incipit che richiama proprio la canzone Nebraska, che racconta la storia di due ragazzi divenuti assassini nel corso di un viaggio senza meta tra Nebraska e Wyoming. Una vicenda realmente avvenuta alla fine degli anni Cinquanta e portata sul grande schermo nel film di Malick. La storia on the road dei due cani, è raccontata senza umanizzare gli animali, con conoscenza etologica. Cognetti del resto da dieci anni ha un cane, Laki, abituato sia a grandi corse sui crinali di Estoul sia a quieti andamenti nei giardini di città. Ne ha raccontato la storia in un capitolo di un libro molto caro ai suoi lettori, Il ragazzo selvatico.
Di quel romanzo biografico ritroviamo anche la passione di Cognetti per gli alberi; in effetti la parola bosco ricorre ben 22 volte, la parola montagna solo 3.
Il padre dei due fratelli protagonisti della storia, Luigi e Alfredo, mette a dimora un larice e un abete rosso davanti casa al momento della loro nascita, quasi ad affidarli alle caratteristiche e al destino delle due piante: la forza costante e la mutevolezza del primo, il fascino e la fragilità del radicamento dell’altro. Alberi e fratelli hanno quindi la stessa età: 37 anni l’uno, 35 l’altro. Luigi, il larice, è una guardia forestale, ha scelto di restare dove è nato e cresciuto, ma è disilluso e ha un codice etico non del tutto lineare; Alfredo, l’abete, sin da ragazzo irrequieto e anche un po' violento, se ne era andato a lavorare nei boschi del Canada per poi tornare, sette anni dopo in Valsesia, senza sapere ancora cosa fare della propria vita. Il romanzo inizia con i due fratelli che si rincontrano e i specchiano uno nell’altro. Anche Elisabetta, la compagna di Luigi, ama gli alberi, e un giorno disegna se stessa come una betulla. È il personaggio che evoca più degli altri un protagonista dei libri precedenti: Lara di Le otto montagne e Silvia di La felicità del lupo. Delicata e forte come una betulla, con il suo carico di rimpianti e di rassegnazione, è una donna libera che cerca quiete e sicurezza, senza amarle troppo; che cerca di trattenere e preservare emozioni ormai svanite. Chi conosce l’altipiano di Estoul, diverso e lontano (ma non troppo) dalla Valsesia, può immaginare quale personaggio reale potrebbe raffigurare.
Elisabetta addolcisce la tensione inespressa ma forte tra i due fratelli, in una vicenda che, partita cupa, diviene sempre più dura, inframezzata da lampi di umorismo. Ecco, sia la tensione noir sia l’ironia, sono la novità di questo nuovo libro, insieme alla compattezza narrativa.
Degli alberi, Cognetti racconta anche la morte per mano dell’uomo: a un’altezza compresa tra i 1.500 e i 2.000 metri occorre abbatterne 5.000, in media, per creare una pista da sci di discesa. Una devastazione che, insieme alla fine della neve, allo spreco di acqua per creare neve finta e alla cementificazione del territorio, aggrava fenomeni naturali come frane e inondazioni, arricchisce pochi nel breve periodo (costruttori, progettisti e qualche politico) e distrugge per sempre il futuro della montagna. Un po' come l’alcolismo, che distrugge alcuni uomini della valle giorno dopo giorno, dietro l’apparenza di un vuoto machismo e di un’effimera effervescenza, senza possibilità di tornare indietro.
Sul piano stilistico, in Giù nella valle i riferimenti allo scrittore americano Raymond Carver sono espliciti – in esergo è riportata una sua poesia – ma vengono in mente anche certi racconti di Ernest Hemingway, come Gli uccisori. Con questo libro Cognetti raggiunge un’identità letteraria immediatamente riconoscibile e del tutto particolare nell’ambito della narrativa italiana. La storia è così ricca di spunti e di possibili variabili che avrebbe ben potuto allungarsi a 200 pagine; la scelta di privilegiare il togliere all’aggiungere rende merito all’intelligenza dell’autore, che lascia così al lettore la libertà di immaginare risvolti e sviluppi. Una narrativa che non si aggroviglia in girotondi intorno alla psicologia dei personaggi, che lascia parlare i fatti e le cose non dette.
Cognetti si rivela anche buon descrittore di paesaggi, con pennellate brevi, essenziali ma evocative. E l’artista Nicola Magrin, illustrando la copertina del volume, sintetizza magnificamente il modus dello scrittore di raffigurare storie e paesaggio.
Chiuso il romanzo, il libro si apre su un poema, Cad Goddeu, ovvero La battaglia degli alberi, dove ogni albero raffigura una lettera, un mese lunare, un eroe mitico, un carattere umano, adattato da Cognetti al mondo che conosce e che ha voluto raccontare nelle sue pagine.
Il libro si conclude con un testo che conferma le qualità saggistiche già evidenziate in A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull'arte di scrivere racconti, del 2014, che meriterebbe una ristampa. Il saggio finale non è una guida alla lettura del romanzo, è uno stimolo per i lettori, un motore di ricerca per chi voglia saperne di più, viaggiando e indagando in altre storie, vicine o lontanissime.
In continuità con i grandi narratori italiani del Novecento, Primo Levi, Mario Rigoni Stern, Dino Buzzati, Leonardo Sciascia, Francesco Biamonti e altri, Cognetti punta a raccontare una storia compiuta e originale, e al tempo stesso semina indizi sugli autori che l’hanno ispirata. Più per condividerne la ricchezza umana e intellettuale che per spiegare scelte tematiche o stilistiche.
Un romanzo, una poesia e un saggio da leggere tutto d’un fiato e da riprendere in mano poi, per apprezzarne lo stile e per seguirne le tracce e i rimandi letterari, umani e naturalistici. Credo sia un’ambizione legittima, un modo di comunicare tra “alberi della stessa foresta”, consapevoli che hanno bisogno uno dell’altro per salvarsi.
L’ultima pagina, la dedica, è un breve e commosso abbraccio alle montagne e all’amicizia. Le otto montagne era dedicato all’amico che aveva ispirato quella storia, La felicità del lupo a Barbara, “artista del rifugio”, e a Gabriele, scomparso nel 2021, che per primo lo aveva accolto tra le montagne di Estoul; Giù nella valle è dedicato agli amici del rifugio Sottile, a 2.480 metri, dove Cognetti ha lavorato e soggiornato anni fa, quando decise di vivere in montagna e divenire forse, un giorno, scrittore. Il Sottile si trova sulla sella del Colle Valdobbia, che collega la Val Vogna, diramazione laterale della Valsesia, alla valle di Gressoney. E così, il cerchio si chiude: chissà se questo sarà l’ultimo romanzo di Cognetti dedicato alle montagne e a chi le vive, di certo nessuno nell’ultimo decennio ha saputo raccontarle come lui.
L’acquerello sulla copertina del libro è di Nicola Magrin