Stevenson nei Mari del Sud
“Non rivedrò più le brughiere scozzesi. Qui rimarrò sino alla mia morte”.
Quando Robert Louis nasce a Edimburgo, il 13 novembre 1850, il padre Thomas Stevenson ripone molte aspettative su di lui. In primis, continuare con la passione e la perizia di famiglia: progettare fari. Sia Thomas sia il nonno Robert avevano infatti contribuito a realizzare i fari più belli e importanti delle coste inglesi e scozzesi.
Non poteva immaginare che il bambino sarebbe divenuto un famoso narratore, ammirato per lo stile e per l’inesauribile fantasia, conosciuto in tutto il mondo per opere come L’isola del tesoro, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Il Master di Ballantrae, Il ragazzo rapito e tanti altri, e che avrebbe vissuto gli ultimi anni della sua vita in un luogo lontanissimo, nelle isole dell’Oceano Pacifico.
Louis, come lo chiameranno sempre famigliari e amici, manifesta presto gli stessi problemi polmonari della madre, Margaret Isabella. Dopo una prima infanzia malinconica, consolata dai libri e dalle favole che gli racconta di sera la sua bambinaia e infermiera, Alison Cunningham, e una giovinezza ribelle e un po' sregolata a Edimburgo, cercherà ristoro per i suoi polmoni tra i boschi e le montagne della Francia. Ma solo in quelle lontane isole, perse tra cielo e mare, troverà finalmente un luogo davvero idoneo a donargli un po' di salute. Dopo aver sofferto tutta la vita per la fragilità dei suoi polmoni, e trovato una lunga e salubre tregua nel Pacifico, morirà improvvisamente il 3 dicembre 1894 per un aneurisma, mentre sta componendo il suo capolavoro, a detta di lui stesso e di molti critici, Weir di Hermiston.
Il libro di Joseph Farrell, Robert Louis Stevenson in Samoa, ricostruisce come mai nessuno prima le vicende umane e letterarie di Tusitala – l’uomo che racconta storie, così lo chiamavano i samoani –, tra il 1890 e il 1894, durante la sua permanenza in quelle isole. Farrell è un professore universitario scozzese e abita tuttora a Glasgow, ha letto libri e consultato archivi, ed è andato più volte a Vailima, il piccolo villaggio dove Stevenson abitava, a circa 4 km da Apia, la capitale delle isole di Samoa. Così spiega la sua decisione di raccontare gli ultimi anni di Stevenson: “La storia di Stevenson nelle Samoa meritava un trattamento dettagliato, così come la storia di Samoa stessa. Samoa ha cambiato Stevenson”
Come era arrivato in quelle isole? Farrell racconta che tutto inizia il 28 giugno 1888 con una lunga crociera della famiglia Stevenson dagli Stati Uniti alle isole del Pacifico, a bordo del Casco, una goletta con scafo in teak a prua e a poppa che può ospitare 5 o 6 passeggeri, affittata a San Francisco e guidata dal capitano Otis. È con lui la moglie Fanny, un’americana conosciuta in Francia e poi raggiunta in California dopo aver traversato l’Oceano Atlantico su una nave di emigranti e gli Stati Uniti da un capo all’altro in treno. Si erano sposati dopo il suo divorzio dal primo marito. Insieme a loro, i figli di lei Lloyd e Belle – accompagnata dal marito Joseph Strong e dal figlio Austin –, e la madre di Louis, Margaret, apparentemente severa ma sempre pronta ad assecondare in ogni impresa quel suo unico figlio. La rotta della goletta li porta dapprima alle isole Marchesi, nella Polinesia francese, poi a Tahiti e infine a Honolulu, nelle isole Hawaii. L’idea del viaggio era nata per motivi di salute – in tanti avevano decantato a Stevenson le virtù dell’aria del Pacifico –, per la curiosità verso un mondo affascinante conosciuto nelle pagine di altri scrittori, e per la proposta del suo editore americano di ricavarne reportage ben remunerati da pubblicare sulla rivista Sun. Il loro girovagare per le isole del Pacifico continuerà l’anno dopo sull’Equator, una piccola nave mercantile da cabotaggio, prima fra le isole Gilbert e poi alle Samoa. “Non so dire perché amo il mare. Nessuno più di me è cinicamente e continuamente cosciente dei pericoli. Lo considero uno dei giochi più pericolosi. Tuttavia detesto il gioco almeno quanto amo il mare”, così Stevenson, il 12 aprile 1889, scrive da Honolulu a Charles Baxter, uno dei suoi migliori amici di Edimburgo. Durante il soggiorno alle Hawaii si reca e si ferma per più giorni a Moloka’i, un’isoletta che funge da sanatorio-confino per lebbrosi. Il suo amico e biografo Graham Balfour scrive che “fu avvertito da suor Maria Anna di portare i guanti quando giocava a croquet con i bambini lebbrosi; ma non volle farlo, per timore che quei bambini, accorgendosene, avvertissero di più la loro triste condizione”.
Un breve e sgradevole ritorno alla civiltà, in una città australiana, convincerà Stevenson a stabilirsi in modo permanente nel Pacifico, nell’isola samoana di Upolu. Acquista un appezzamento di 125 ettari, con quattro ruscelli, cascate, prati fertili e una magnifica vista sul mare, sulla foresta e sulla montagna che sovrasta la zona, il monte Vaea. Lì recupera salute, e cerca di organizzare la sua vita in un modo il più possibile armonico con la natura e con le genti del luogo. Al suo amico, editor e critico di riferimento Sidney Colvin, il 2 novembre 1890 scrive: “Caro Colvin, che vita dura, interessante e meravigliosa conduciamo adesso. Il posto dove stiamo è in una profonda spaccatura del monte Vaea, circa seicento piedi sopra il livello del mare, immerso nella foresta” (…).
I reportage, imperniati soprattutto sulle esperienze vissute nelle isole Marchesi e nelle Gilbert, vengono pubblicati, ma deludono sia l’editore sia Colvin: niente racconti di avventure e incanti esotici, ma piuttosto resoconti etnografici e naturalistici, volti a far conoscere le isole del Pacifico e i loro abitanti, nonché le vessazioni che devono subire da parte di europei e americani. In realtà non manca la magica fluidità delle opere più note e la consueta abilità nel far emergere personaggi di grande vitalità, difficili da dimenticare, come Tembinok, il pittoresco e vulcanico re di Abemana, nelle isole Gilbert. Navigando tra quelle isole Stevenson e gli altri godono “il clima superbo dell’oceano, giornate di sole accecante e vento frizzante, notti di una luminosità paradisiaca”. Progetta di riunire gli articoli in un libro, e ci lavora per due anni, fino all’autunno del 1891, ma poi desiste, anche per le critiche di famigliari e amici che la pensano come Colvin. In realtà proprio quest’ultimo, nel 1896, due anni dopo la scomparsa dello scrittore, riunirà e pubblicherà i saggi in un volume dal titolo Nei Mari del Sud. Un’opera che lascerà perplessi molti critici e lettori, ma che Joseph Conrad giudicherà il suo libro più bello, una sintesi di autobiografia, illustrazione naturalistica e coinvolgente narrazione. Forse Conrad aveva ritrovato in quelle pagine l’idea di letteratura che aveva delineato nella famosa prefazione a Il negro del Narciso: “Il compito che mi spetta e che cerco di assolvere è di riuscire, col potere della parola scritta, a farvi udire, a farvi sentire – di riuscire soprattutto a farvi vedere”.
Nei mari del Sud è scritto con la stessa leggerezza stilistica e abilità descrittiva che caratterizza le opere migliori di Stevenson. “Amo Stevenson perché pare che voli” scandì Calvino: sin dalle pagine della sua tesi di laurea su Joseph Conrad, aveva elogiato Stevenson per “II magico gioco della sua fantasia, tutta esteriorizzazione e favola” e “per la lieve felicità del suo linguaggio, così classica e impersonale quanto inimitabile”, e un lungo capitolo dedicato alla Leggerezza apre il suo ultimo libro, Lezioni americane, pagine in cui vengono additate ad esempio proprio le qualità narrative tipiche dello scrittore scozzese.
Nell’isola samoana Stevenson non si limita a scrivere saggi e racconti: lavora per ampliare la loro casa, coltiva i campi della piantagione che la circonda, cavalca e pesca, fa da paciere tra gruppi rivali di isolani e li difende dallo sfruttamento di commercianti bianchi.
Con i samoani è sin troppo paternalista, si comporta quasi da carismatico governatore locale, ma sempre con rispetto ed empatia; del resto non c’era un modo alternativo e migliore per interagire con loro, e soprattutto per difenderli. Per aver aiutato con viveri e lettere di protesta i capi samoani che si erano ribellati alle autorità coloniali, venne ringraziato con la costruzione di una Strada dei cuori generosi, volta ad agevolare i collegamenti tra Vailima e Apia.
Joseph Farrell descrive bene la sensibilità e il coraggio di Stevenson nei rapporti con gli isolani, e anche i suoi errori, a volte un eccessivo interventismo nelle questioni locali. Vivere nelle Samoa era un incanto, ma l’ambiente naturale, spesso caldo e umido, la conflittualità a volte sommersa a volte esplosiva tra gli isolani, il carattere frustrato e difficile di Joseph Strong, le discussioni che a volte avvenivano tra Louis e Fanny nonostante il profondo affiatamento, rendevano delicato e sospeso l’equilibrio delle loro vite. La solida armonia di quel piccolo mondo però regge contro tutte le difficoltà. Con Lloyd si consolida il rapporto da fratello maggiore, ma anche intellettuale, che aveva portato in passato alla creazione di L’isola del tesoro: quando Lloyd era bambino Louis gli leggeva le bozze delle puntate che stava scrivendo. Insieme compongono tre racconti lunghi: La cassa sbagliata (1889), Il relitto (1892) e Il riflusso della marea (1894). Belle governa la casa di Vailima, tra collaboratori samoani e mobilia scozzese, redige molte lettere dettate da Louis e trascrive in bella copia i suoi scritti. Fanny si conferma il grande amore, la compagna di una vita: con la sua energia e vitalità gli dà forza in ogni attività che intraprende nelle Samoa, sia di natura pratica che letteraria.
Louis scrive moltissime lettere, quelle a Colvin sono quasi un diario dei suoi anni tra le isole del Pacifico, l’amico le farà pubblicare in volume nel 1895. I due libri, Nei mari del sud e Lettere da Vailima (1890 – 1894), andrebbero letti insieme per capire al meglio il senso di Stevenson per quel mondo lontano. La valenza stilistica e la profondità di Nei mari del sud sarà colta anche dal nostro Emilio Cecchi, che in un saggio del 1920, poi raccolto in Scrittori inglesi e americani, sceglierà questa citazione per ritrarre uno scrittore geniale e irrequieto, fermo nella decisione di vivere davanti all’Oceano ma attraversato da ventose nostalgie: “A un tratto sentii vergogna che quelle notti fossero più belle delle nostre notti, gli astri più dolci e lucenti, le costellazioni più armoniose. Sentii vergogna, dico, come di un’estrema infedeltà, per aver disertato le stelle che brillarono sui miei padri…”.
Nonostante la felicità per la salute rafforzata, per la considerazione dei nativi e per l’armonia, discontinua ma stabile che regna nella casa, Stevenson ripensa a volte alla Scozia: un sentimento che non è rimpianto o desiderio, è emozionante memoria, di un passato caro e lontano, di brughiere e scogliere, di affetti e fughe, di focolari scoppiettanti e di favole raccontate in ore notturne. È sempre più consapevole che non tornerà più a Edimburgo, non rivedrà più colline brumose e pareti di roccia sul Mare del Nord; nel maggio del 1893 così scrive all’amico scrittore Samuel Rutherford Crockett: “Non metterò più piede nella brughiera. Rimarrò qui sino alla mia morte e qui sarò sepolto”.
È certamente questo sentimento di nostalgia che gli ispira alcune opere scritte a Vailima e ambientate in Scozia: Catriona, il seguito di Il ragazzo rapito, St. Ives e Weir di Hermiston. La vicenda di quest’ultimo libro si svolge nella contea scozzese di Lothian e a Edimburgo, al tempo delle guerre napoleoniche e ruota attorno al conflitto apparentemente insanabile tra il giovane Archibald Weir e il padre. Purtroppo il romanzo si interrompe a metà del nono capitolo, ci restano un’ulteriore intrigante trama narrativa sul tema del doppio e soprattutto un affresco vivo e poetico della Scozia.
Per un’amara beffa del destino, la giovane vita dello scrittore – aveva solo 44 anni –, non è spezzata dalla malattia ai polmoni che lo aveva oppresso sin da ragazzo, ma da un’emorragia cerebrale. Viene seppellito il giorno dopo, sulla cima del monte Vaea, assecondando le sue volontà. Per farlo, duecento samoani lavorarono un giorno e una notte a scalinare e disboscare un sentiero adeguato a trasportarne il feretro. Un pegno di affetto e stima verso un uomo che li aveva difesi dalle angherie e dall’avidità degli uomini bianchi, che aveva cercato di capire la loro storia, i loro costumi, la loro visione del mondo. Nella lapide vengono incisi alcuni versi tratti dalla sua poesia Requiem, del 1887: Under the wide and starry sky, dig the grave and let me lie […] Home is the sailor, home from sea, and the hunter home from the hill (Sotto il grande cielo stellato, posa la mia tomba e lasciami giacere […] A casa il marinaio, a casa dal mare, e il cacciatore a casa dalla collina).
Nella poesia I giusti, Jorge Luis Borges rese omaggio alle persone semplici che con il loro lavoro e le loro passioni disinteressate “stanno salvando il mondo”, tra queste anche “chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson”.
Per chi volesse sapere di più sugli anni di Robert Louis Stevenson alle Samoa e sulle opere scritte in quel periodo, oltre al completo e preciso libro di Joseph Farrell in inglese (Maclehose Press), consiglio una delle tante edizioni di Nei mari del Sud, l’edizione Mursia delle Lettere da Vailima (1890-1894) e di Ritratto di un ribelle. Robert Louis Stevenson di Richard Aldington, Fanny Stevenson. Tra passione e libertà, la biografia di Fanny, romanzata ma molto ben documentata, scritta da Alexandra Lapierre (Edizioni e/o), e R.L. Stevenson, la poetica del romanzo, di Richard Ambrosini (Bulzoni Editore).
In copertina, Robert Louis Stevenson davanti alla sua casa di Vailima, nelle isole Samoa. Alla sua destra la madre Margaret e Lloyd, alla sua sinistra Fanny, Belle e il piccolo Austim @ Yale University Library.