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Le navi e gli oceani di Joseph Conrad

17 Agosto 2024

A Joseph Conrad non piaceva l’etichetta di scrittore di mare, gli pareva riduttiva, voleva essere uno scrittore tout court. Lo ribadì anche nella prefazione a The Shorter Tales of Joseph Conrad, scritta poco prima di morire, il 3 agosto 1924: “In realtà, del mare ho scritto pochissimo, se si contassero le pagine. È stato lo sfondo, ma raramente lo scopo, dei miei tentativi letterari; quando varai i miei primi bastimenti di carta, nei giorni della mia infanzia letteraria, miravo a un elemento altrettanto inquieto e pericoloso e mutevole del mare, anzi più vasto – l’implacabile oceano della vita umana”. E tuttavia, nel medesimo breve saggio ammette che nel mare aveva trovato una piena esperienza di vita e un mestiere, molto prima di divenire uno scrittore: “La vita del mare era stata la mia vita, mi bastava e mi appagava”.

Il rapporto tra Conrad e il mare è complesso; a bordo delle navi raggiunge la maturità, umana e professionale, l’esperienza nel mare è fonte di ispirazione per capolavori come Il negro del Narciso e Tifone, da lui definite storie di tempesta, e come i due calm-pieces Giovinezza e La linea d’ombra, che raccontano bonacce senza fine. Ogni tempesta è diversa da ogni altra, amava dire, ma le bonacce, con la nave inchiodata su acque immobili, sono altrettanto pericolose; è un mestiere, quello del marinaio, nel quale si deve fare i conti con la morte, da affrontare con coraggio e perizia, ma anche con un filo di rassegnata disperazione.

Mera ispirazione sia chiaro, non si tratta di scritti memorialistici: “Nonostante la loro forma autobiografica, i racconti citati non sono reminiscenze di esperienze personali. La loro essenza, quale essa sia, dipende da qualcosa di più vasto, se pur meno preciso: dal carattere, dalla visione e dal sentimento dei miei venti anni di vita marinara” (dalla prefazione alla ristampa, nel 1920, di Twixt Land and Sea).

La prima volta in cui lo scrittore anglopolacco utilizza il cognome Conra. In una lettera a Marguerite Poradowska scritta dal letto dell'ospedale londinese dove era stato ricoverato al ritorno dal Congo
La prima volta in cui lo scrittore anglopolacco utilizza il cognome Conra. In una lettera a Marguerite Poradowska scritta dal letto dell'ospedale londinese dove era stato ricoverato al ritorno dal Congo ​​​​​.

 

A Cracovia, nella Polonia più lontana dal mare, chi avrebbe potuto immaginare che Józef Teodor Konrad Korzeniowski, un bambino appassionato di libri di avventura, di esplorazioni e di mappe, che conosceva solo il polacco e il francese, sarebbe divenuto un giorno capitano della Marina mercantile più grande del mondo, quella inglese? E che negli ultimi undici anni della sua vita sarebbe stato riconosciuto come uno dei maggiori romanzieri di lingua inglese, con il nome, anglicizzato, di Joseph Conrad.

Il suo stesso nome letterario, Conrad, discende da quelle letture giovanili. Difatti, oltre ai racconti di avventura di Fenimore Cooper e del capitano Frederick Marryat, il piccolo Józef si era appassionato alle pagine di I lavoratori del mare di Victor Hugo e di Il corsaro di George Byron, il cui eroico protagonista si chiama proprio Conrad.

Spesso, nei saggi su di lui è riportato che Korzeniowski anglicizza il suo cognome al momento di pubblicare il suo primo libro, La follia di Almayer, nel 1895, e invece no, lo adotta per la prima volta quattro anni prima, nel corso della corrispondenza con la donna che lo ha più affascinato nel corso della sua vita, Marguerite Poradowska. Vedova di un lontano cugino, risiede da anni a Bruxelles, ed è una donna di grande cultura, è merito suo se, nel 1890, Conrad ottiene un incarico cui aspirava sin da ragazzo: guidare un battello fluviale nel profondo dell’Africa, risalendo il fiume Congo. Un luogo che, nelle mappe scrutate da bambino a occhi spalancati era il blank space più vasto del mondo: bianco, senza alcun segno, perché tutto da esplorare. In realtà, quell’esperienza si rivelerà una grandissima delusione: Conrad non viene nominato comandante, ma solo ufficiale di bordo, resterà sofferente per tutta la vita a causa dei malanni contratti in quel viaggio, e scoprirà gli orrori del colonialismo, malamente mascherato da intenti di civilizzazione. Mentre cerca di uscire dall’inferno in cui si è trovato, nelle lettere a Marguerite rimpiange le navi e il mare che ha incautamente lasciato.

Joseph Conrad
Joseph Conrad

È davvero incredibile che, dopo aver viaggiato per anni su magnifici clipper spinti dal vento verso terre lontanissime, Conrad avesse tenacemente voluto quell’incarico su un battello fluviale con ruota poppiera. La drammatica esperienza in Congo tuttavia gli ispirerà uno dei libri più noti, Cuore di tenebra.

Per capire meglio la scelta di cambiare tutto e immergersi nel continente africano, oltre a ricordare i suoi sogni giovanili di esplorare i blank space del mondo, dobbiamo leggere la raccolta di saggi Lo specchio del mare. Pubblicati su periodici tra il 1904 e il 1905, e poi riuniti nel libro, hanno chiari riferimenti biografici, e colgono appieno la fascinazione della vita sulle navi, ma anche i dubbi e le mancanze, destinate ad acuirsi con il passare degli anni. Nel 1919, nella prefazione a una ristampa dell’opera, la definirà un “tentativo di mettere a nudo, e con la sincerità di una confessione in punto di morte, i termini del mio rapporto con il mare”. E così aveva concluso quel testo introduttivo: “È il migliore omaggio che io possa offrire agli artefici ultimi del mio carattere, delle mie convinzioni e, in un certo senso, del mio destino – al mare imperituro, alle navi che non ci sono più, agli uomini semplici che hanno vissuto il loro momento”. Nelle pagine di Lo specchio del mare Conrad fa capire che i lunghi viaggi andata e ritorno sulle rotte oceaniche o tra le isole dell’arcipelago malese lo avevano affascinato sino alla conquista del grado di comandante, non oltre. Raggiunto l’obiettivo, il peregrinare da un porto all’altro, tra partenze e ritorni, aveva finito per perdere la sua magia.

Nel capitolo Landfall and Departures spiega che dopo anni di navigazione in tutti i mari del globo, aveva compreso che la vita dei marinai oscilla tra il porto di partenza e quello di arrivo senza concedere davvero la possibilità di vedere e conoscere il mondo. Gli anni passano, e la vita sulle navi inizia ad apparirgli sempre uguale, la sosta nei porti sempre troppo breve. Tutte motivazioni che lo porteranno nel 1890 all’avventura in Africa e pochi anni dopo, nel 1894, lo spingeranno a lasciare il lavoro sul mare e a vivere nella campagna inglese; motivazioni cui si aggiungono il desiderio di frequentare ambienti più aperti e colti e soprattutto l’aspirazione a scrivere. Il 3 febbraio 1893, così scriveva a Marguerite: “Questa esistenza comincia un po’ a stancarmi. Causa di tale scoraggiamento non è il male presente (sto molto meglio, adesso) ma è l’incertezza sull’avvenire, o piuttosto la certezza del grigio uniforme che mi attende”.

Dal manuale per ufficiali di Marina citato in Tifone. James Tait, Tait’s Seamanship, Brown, Gasglow, 1902
Dal manuale per ufficiali di Marina citato in Tifone. James Tait, Tait’s Seamanship, Brown, Gasglow, 1902

 

In Italia Lo specchio del mare affascina Italo Calvino. In un famoso articolo del 1954, I capitani di Conrad, Calvino individua il midollo del leone della narrativa conradiana nel “saper essere all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina”, nel realizzare se stessi attraverso il lavoro, aggiungendo di aver trovato appieno questo cardine stilistico ed etico in Lo specchio del mare. Qualche anno prima nella tesi di laurea su Conrad aveva spiegato di aver scoperto nel libro sia “l’attaccamento tecnico e umile, non retorico, per il proprio mestiere” sia “una lingua molto pulita e precisa e limpida”. In un breve inedito inserito da Mario Barenghi nel secondo volume dei Saggi di Italo Calvino, mentre espone il progetto di una collana mirata all’etica del lavoro, del saper fare, Calvino cita “il bellissimo The Mirror of the Sea di Conrad, saggi sull’arte del navigare”.

Alcuni capitoli raccontano il senso di meraviglia, le paure, la passione del navigare, anche durante le tempeste (The Character of the Foe), che Conrad descrive come nelle migliori pagine di Tifone o del Negro del Narciso: “Una certa mattina alle quattro nel confuso ruggito di un mondo nero e bianco, quando uscendo sul ponte per prendere il comando della mia guardia, ricevetti l’istantanea impressione che la nave non poteva sopravvivere un’altra ora in un mare così infuriato”. In altri (Initiation), fa emergere la solidarietà spontanea e generosa tra naviganti, come nel rapido e fortunoso soccorso ai disperati di una nave senza più alberi, ormai carica d’acqua e in procinto di colare a picco. Qui Conrad torna su uno dei temi più forti del suo codice di valori: nelle tempeste che scuotono e sprofondano velieri e piroscafi, nelle bonacce che li inchiodano senza scampo a un mare immobile come uno specchio, o gli uomini si salvano tutti insieme, lottando uniti per strappare un altro giorno, un’altra ora di esistenza, o periscono, nessuno si salva da solo.

Nel capitolo The Tremolino Conrad ricorda il suo primo mare, il Mediterraneo, teatro delle avventure marsigliesi, tra mercanti e contrabbandieri. Sfortunate per gli esiti delle sue modeste risorse finanziarie, ma cariche di ricordi quando Conrad le evoca con il pensiero e con la penna. Il Tremolino era un piccolo bastimento a vela, una bilancella, che navigava tra la Francia e la Spagna per contrabbandare armi e merci varie a sostegno dei rivoltosi carlisti: “Il Tremolino! Ancora oggi non posso pronunciare o anche scrivere quel nome senza provare una strana stretta al cuore e l’affanno pieno di piacere e di timore della prima esperienza appassionata”.

Un'edizione inglese di Lo specchio del mare, in copertina un'opera di John Everett.
Un'edizione inglese di Lo specchio del mare, in copertina un'opera di John Everett.

In Emblems of Hope racconta invece la necessità etica della precisione dei vocaboli e della sintassi, prendendo spunto da certe banalità giornalistiche sulla navigazione e dettando una sorta di minimo trattato sull’uso corretto delle parole, a bordo di un un veliero come sulle pagine.

Nella prefazione all’edizione del 1919, Conrad spiegherà di aver tentato di mostrare e di far capire il suo legame con il mare che, iniziato da giovanissimo per un’alchimia di letture e passione per l’avventura, era poi continuato a lungo negli anni, nonostante delusioni e fatiche. La principale delusione? La indica nelle ultime pagine di Initiation: aver compreso che il mare affonda e uccide i vili e i disattenti come i valorosi e i generosi, senza distinzioni, senza giustizia. È lo specchio del nostro vivere inquieto, che trova un senso solo in se stesso, in una dignità di stile e di equilibrio morale da conquistare ogni giorno: “L’oceano ignora compassione, fede, legge, memoria. Odi et amo può ben essere la professione di fede di coloro i quali coscientemente o ciecamente hanno consegnato la propria esistenza al fascino del mare. Tutte le passioni tempestose dell’umanità quando era giovane, l’amore della rapina e l’amore della gloria, l’amore dell’avventura e l’amore del pericolo, insieme con il grande amore dell’ignoto e i vasti sogni di dominio e di potenza, sono passati come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare alcun segno sulla faccia misteriosa del mare”.

Si legge spesso che Conrad ha vissuto l’epica dei grandi velieri e poi il tempo delle navi a vapore, assistendo alla fine del XIX secolo al passaggio dalla vela al carbone. È vero solo in parte. I primi piroscafi o battelli a vapore con ruote (poppiere o laterali) navigavano giù ai primi dell’Ottocento, ma solo a metà del secolo, il diffondersi degli scafi in ferro (più resistenti del legno alle vibrazioni dei motori) e delle eliche al posto delle ruote determinò un lento ma progressivo predominio della navigazione a vapore, sino all’anno di svolta, il 1870, quando il numero dei piroscafi in circolazione nei mari superò quello dei velieri. Ma per molti anni i due tipi di navigazione viaggiarono appaiati: il manuale di James Tait (Tait’s Seamanship), che bisognava imparare a memoria per superare gli esami da ufficiale di Marina e tenere a portata di mano in tutte le navi, per molte edizioni distribuì consigli e prescrizioni per entrambi i modi di affrontare il mare.

Il più bel clipper che abbia mai solcato gli oceani, il Cutty Sark, venne costruito e varato, con un forte investimento finanziario e tecnico, nel 1869. A pieno carico poteva trasportare sino a 600 tonnellate di tè e la velatura dei suoi tre alberi poteva farlo volare sino a 17,5 nodi. Pochi giorni prima, era stato inaugurato il canale di Suez che, collegando Mediterraneo e Mar Rosso, avrebbe consentito ai piroscafi di raggiungere l’Oceano Indiano senza dover circumnavigare l’Africa nell’Oceano Atlantico e superare il Capo di Buona Speranza, riducendo drasticamente rischi e tempi della navigazione. Inoltre, i piroscafi necessitavano di un numero minore di marinai e di ufficiali, e con competenze meno raffinate. Per le vele sembrava finita.

Perché quindi vengono ancora costruiti e utilizzati velieri? L’Australia e l’Estremo Oriente erano ancora irraggiungibili per le navi a vapore, per la carenza di depositi di carbone sulle rotte. Solo intorno al 1880 i piroscafi soppianteranno le navi a vela nel commercio di tè con la Cina e il Giappone, mentre ci vorranno ancora molti anni per le rotte australiane, importanti per il commercio della lana.

Conrad prestò servizio su velieri altrettanto efficienti e maestosi, come il Torrens e il Narcissus, e come comandante sul brigantino a palo Otago, ma non navigò mai sul Cutty Sark. La storia di questo clipper ha però molto a che fare con le storie di Conrad, perché la vicenda narrata in Il compagno segreto, uno dei suoi migliori racconti, prende spunto da un evento realmente avvenuto a bordo del Cutty Sark: nel corso di una manovra, un marinaio disattese gli ordini del primo ufficiale, ne seguì una colluttazione che si concluse con la morte del primo. L’ufficiale, dapprima messo agli arresti, riuscì poi a fuggire dalla nave con l’aiuto del comandante. Da un antefatto simile, Conrad sviluppò anni dopo il suo racconto perfetto, per lo stile, al tempo stesso realistico e allegorico, ambiguo e denso di significati universali.

Un acquerello di Nicola Magrin dedicato a Lo specchio del mare di Joseph Conrad.
Un acquerello di Nicola Magrin dedicato a Lo specchio del mare di Joseph Conrad.

Quanto alle navi dei suoi racconti e romanzi brevi, un veliero domina La linea d’ombra, Giovinezza, Il negro del Narciso e Il pirata, un piroscafo Tifone, Lord Jim, Al limite estremo e Cuore di tenebra.

Nel 1912, dopo l’affondamento del Titanic e la morte di 1.520 esseri umani, Conrad dedicherà due brevi saggi a quella tragedia, pubblicati dapprima su rivista (English Review) poi nel volume Notes of Life and Letters (1928). Dopo tanti anni vissuti sul mare, aveva ben diritto di parola, ed espose errori e cause, evidenziando anche la pretesa di piegare la natura all'avidità e alla megalomania di certi uomini. “Progresso? La grande nave non era al servizio del progresso, era al servizio dei soldi. Perché il progresso, anche quando riguarda i problemi del mondo materiale, mantiene una sorta di etica, fosse anche solo quella della conquista. I proprietari di queste grandi navi invece sono stati spinti solo dall'ansia del profitto, da realizzare creando e assecondando un'assurda e volgare domanda di lusso, portando un grande albergo in mare aperto”. Succede ancora oggi: tra mari, pianure e montagne.

Verso il finire della sua vita, mentre buona parte d’Europa era messa a ferro e fuoco dalla Germania del Kaiser, Joseph Conrad sentì di dover fare qualcosa per difendere le due nazioni che aveva più amato sin da ragazzo, per la loro cultura e per il loro rispetto dei diritti individuali, la Francia e la Gran Bretagna. Suo figlio Borys era andato a combattere volontario sul suolo francese, uscendo alla fine vivo dalla guerra, ma ferito e sconvolto. E Conrad, pur anziano e afflitto da vari malanni, nel 1916 chiese e ottenne di mettere la sua esperienza e competenza sul mare al servizio della Marina militare inglese, a bordo di un dragamine. L’ultima imbarcazione dove presta servizio è il brigantino Ready, una nave civetta. Mascherate da bastimento commerciale ma armate, queste imbarcazioni, denominate Q-ship, avevano il compito di attirare cacciatorpedinieri e sommergibili tedeschi per poi colpirli e affondarli. La passione che infonde in quel servizio sul mare è un omaggio alla patria adottiva e al tempo stesso un orgoglioso desiderio di risentire tra le mani la forza e il coraggio di un tempo. Ancora una volta sul mare, aspettando di affrontare e forse valicare senza ritorno, l’ennesima linea d’ombra della sua vita. Quell’ultimo viaggio da marinaio, non da passeggero, sul Mare del Nord è anche l’addio a un mondo di competenze e di coraggio destinato a svanire, a essere ricordato soltanto nelle pagine dei suoi libri.

 

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Il clipper Torrens nel 1875
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