Il lavoro fa soffrire / Quando l’economico è psichico

30 Gennaio 2019

Anna è giovane, e sempre bella, già sulla soglia intravedo una faccia tirata, pare rattristata, penso a un problema sentimentale, invece è patrimoniale. Anna è una collega, suo marito un libero professionista dagli introiti alternati, dai pagamenti sempre spostati, il mutuo è grande, il figlio piccolo, in banca non accettano dilazioni, a fine mese non si arriva, piange per la mortificazione, l’umiliazione di dover continuare a chiedere qualcosa che ogni giorno sudatamente guadagna.

Riccardo è uno stagista, ma non è di Milano, dopo due mesi di lavoro ovviamente gratuito e con orari prolungati, chiede i buoni pasto, il capo alza il telefono e chiama un altro, da domani lui se ne può andare. 

L’ospedale gode di buona fama, ma le infermiere protestano perché i turni notturni sono seguiti da quelli diurni, il che è illegale, ma soprattutto mette in ansia chi lavora in un reparto neonatale.

Il budget non è stato raggiunto, la direttrice raduna tutti, fustiga e maltratta, e dato che questa è la sua guerra, le parole sono insulti da lanciare come pallottole.

 

Carlo scaraventa il computer in aria e abbandona la postazione, dopo l’ennesima richiesta di reperibilità. Erica medita di licenziarsi, il lavoro è a tempo indeterminato, ha avuto lo scatto di carriera e l’aumento di stipendio, intanto si è accorta che nell’ufficio della capa le luci rimangono accese fino all’una di notte…

La stanza d’analisi, si sa, non è un luogo di raccolta di dati statistici, agisce però da sismografo del malessere dovuto alle condizioni di un mercato del lavoro che, anche a Milano, comunque un’isola nell’economia italiana a rischio, avanza in assoluta deregulation. 

 

Il lavoro è un bene di scarsità, è l’oggetto del desiderio, se si sta senza l’identità traballa, ma quando la meta è raggiunta ci si ritrova sotto ricatto, assoggettati e impauriti. Con la sensazione di un sistema sempre più disfunzionale, perché uno stress costante ed eccessivo intralcia la prestazione, mina la performance. Si va in malattia, si anticipa la pensione, si torna al paese natio. Si cerca di cambiare lavoro, con la speranza che il prossimo possa essere svolto senza cocaine né anfetamine. 

Si soffre. Tanto più quando la dimensione relazionale è così strettamente intrecciata a quella occupazionale. E così l’analista, che ha di fronte scarpe sempre più consumate, giacche sempre più sgualcite, si trova a zigzagare tra Scilla e Cariddi, tra le tematiche soggettive che può contribuire a trasformare e le spietatezze sociali che non può modificare. Come accade anche nelle situazioni di mobbing è un crinale stretto: la pressione del collettivo conduce a interiorizzare il senso di inadeguatezza e di responsabilità, toglie tempo e ossigeno a uno spazio individuale. Abituati a considerarci single, fatichiamo a mettere in connessione il sistema mondo con la nostra questione personale.

La psicoanalisi ha sempre fatto fatica a passare dall’io al noi, a fare i conti con la storia e la sociologia, eccetto alcune eccezioni, Adler, per esempio, con i concetti di inferiorità e sentimento sociale. Ma l’attuale disagio nella civiltà sta producendo aperture inedite, incontri originali tra scuole di pensiero tradizionalmente lontane tra loro, un work in progress di un’idea di cura capace di dialogare con la personalità di un soggetto sovradeterminato dai suoi movimenti inconsci quanto interdipendente da quelli sociali. Di questo, nel panorama italiano, è un esempio significativo la rivisitazione della figura di uno psicoanalista politico come Elvio Fachinelli (a Il politico nella psicoanalisi è dedicato il numero 1/2018 della rivista “psiche”).

 

 

In un testo non troppo noto del 1912, Modi tipici di ammalarsi nervosamente, Freud scrive: “La psicoanalisi ci ha invitato a rinunciare alla sterile contrapposizione tra fattori esterni e interni, tra destino e costituzione, e ci ha insegnato a trovare regolarmente la causa della malattia nevrotica in una situazione psichica determinata, che può prodursi in diversi modi endogena o esogena”. Descrive un individuo frustrato (prende il termine a prestito da Jung) dal rapporto con un oggetto reale del mondo esterno e un altro che si ammala invece per le “richieste della realtà”. “In questo caso l’individuo non si ammala in seguito a una modificazione nel mondo esterno per cui in luogo del soddisfacimento si è avuta la frustrazione, ma in seguito a uno sforzo interiore per procurarsi il soddisfacimento accessibile nella realtà. Nel tentativo di adattarsi alla realtà, di adempiere alle richieste della realtà, urta contro insuperabili difficoltà interne e perciò si ammala”. 

 

Freud ha una concezione economica dell’energia psichica, che può aumentare, diminuire, pareggiarsi, può essere investita, disinvestita, superinvestita, mentre il soggetto insegue un suo bilancio energetico. Anche per l’influenza del pensiero scientifico dell’epoca, per descrivere i dati raccolti nella clinica utilizza un linguaggio economico. In Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, parla di un’“economia della vita umana”, in Il motto di spirito “Sembra tutta una questione di economia, come dice il principe Amleto (“Economia, economia, Orazio!”), in L’avvenire di un’illusione, afferma “Senza avvedercene, siamo passati dalla sfera economica a quella psicologica”. In una nota in Il disagio nella civiltà scrive: “Nessun’altra tecnica di condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro, poiché questo lo inserisce sicuramente almeno in una parte della realtà, nella comunità umana. La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive, e perfino erotiche sul lavoro professionale e sulle relazioni umane che ne conseguono, conferisce al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione dell’esistenza del singolo nella società. L’attività professionale procura una soddisfazione particolare se è un’attività liberamente scelta, tale cioè da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni preesistenti, moti pulsionali persistenti cui già per costituzione l’individuo è vigorosamente predisposto”. 

 

Nel linguaggio di oggi, invece, l’energia psichica è concettualizzata come capitale umano, quell'insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici. Il film Il capitale umano ha rappresentato con efficacia tragica il valore monetario di un soggetto in base a parametri come aspettativa di vita, qualità e quantità delle relazioni, eventuale reddito, calcolato al fine di quantificare economicamente una polizza assicurativa e l’eventuale pagamento della stessa. Il prezzo, insomma, di un individuo nel suo percorso di accumulazione solitario che pare avanzare all’infinito. 

 

È un viaggio che può destrutturare, senza garanzie esterne la personalità si scinde e si raddoppia per potersi così tenere insieme. Chi si chiama io vive l’angustia. Spostarsi, nutrire, alimentare, creare: per ripartire dal basso, là dove l’analisi è nata, per valorizzare le scorie, l’invisibile del sogno, le bagatelle. 

La crisi produce ibridazioni, per freudiani junghiani lacaniani, sono ancora l’arte e il mito le dimensioni capaci di offrire nuovi frame per affrontare le dislocazioni e le destrutturazioni. Come, per esempio, capita nella video installazione History Zero che l’artista Stefanos Tsivopoulos aveva proposto nel padiglione greco della Biennale di Venezia del 2013 − in quel momento la Grecia era alla ricerca di sistemi alternativi di economia, per mutare strategia politica o, semplicemente, per sopravvivere. Una visualizzazione alternativa del futuro che ripartiva da solidarietà e cooperazione, immaginava il tema del denaro in modo poetico, aveva prodotto un archivio aperto, capace di preservare la memoria storica. Un montaggio di interconnessioni libere per individuare vie di fuga da quel sistema che pareva aver acquisito il carattere inappellabile della necessità.

 

Ognuno poteva inseguire e costruire una propria, personale, mappatura mentale. Parte dell’archivio era History Zero, un trittico video che narra le storie intrecciate di tre modelli sociali e antropologici in un’Atene desolata e silenziosa, quasi spettrale. Un’anziana collezionista d’arte, minata dall’Alzheimer, vive sola nella sua casa-museo. Ama le sue opere, ma non ricorda di averle pagate, non sa più il valore del denaro, gioca, con la cartamoneta costruisce origami a forma di fiori. Protagonista del secondo video è un immigrato africano, a zonzo per la città. Suo unico bene, come in La strada di McCarthy, è un carrello, su cui accumula oggetti metallici. Fino a quando non si imbatte in una valigia colma di banconote, un mazzo di fiori fatto di origami di banconote da 200 e 500 euro. Chiude il trittico un artista, che, in cerca d’ispirazione, gira Atene con il suo iPad. Fino all’incontro con un carrello abbandonato, che diventerà il suo objet trouvé. Quello che non è più necessario ai bisogni del primo personaggio acquista valore nel momento in cui passa nelle mani del secondo. E così via. 

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