Intellettuali
Non saprei dire se di alcune funzioni siano oggi scomparse le parole oppure la necessità. Ad esempio, il lattaio. Nessuno va più dal lattaio, si compra all’ingrosso nei centri commerciali, al più, se lo si dimentica, al bar. Però pure se nessuno dice mai: vado dal lattaio, magari qualche latteria esiste, lì all’angolo, qualcuno se ne serve ancora. Una figura simile al lattaio è l’intellettuale. Non mi vengono in mente altri ruoli in estinzione ma non del tutto scomparsi. Il lattaio poi se non è ancora scomparso è per la resistenza ostinata della tradizione di bottega, per i pochi affezionati del quartiere, l’anziana. Mentre invece l’intellettuale che non esisterebbe se non e contrario, nel dileggio dei nuovi “esperti di comunicazione”, dove esercita, come si riconosce? Partiamo dal dileggio, proprio: io me ne chiedo sempre la ragione, come mai si dileggia l’intellettuale, se è scomparso, se non serve più a nessuno, se non dobbiamo più preoccuparcene perché i giornali non lo vogliono, o solo ove sia rimbambito, ottuagenario, desueto come il lattaio oppure (ed ecco che me ne viene in mente un’altra) la cartolibreria. Prendiamo un film di successo della scorsa stagione, quello di Sorrentino: immancabile, a un certo punto, il dialogo in cui io no, intellettuale mai, meglio le emozioni, quelle sì, sono occhéi. L’etica dominante assegna alle cosiddette emozioni soggettive un primato mai raggiunto in due millenni abbondanti di storia umana. Se mi emoziona (cioè se emoziona me, privato cittadino), è giusto e legittimo. E se emoziona, oltre me, milioni di persone, è non solo giusto e legittimo, ma incontestabile. I successi si costruiscono sui consensi ampi, ma si tratta di consensi facili, che infrangono la barriera del vorrei ma non posso con l’immediatezza, senza costruzioni e sovrastrutture particolari. La meraviglia è che si sia imposta come condizione anche in ambito per così dire culturale. Il giornalista presenta il libro di corsa, che poi deve tornare in redazione: ha tradotto un intellettuale “fallito”, alla lettera. Ridono. Di cosa ridono, il pubblico? Ridono come si è sempre riso, nelle folle o nelle masse: della liberazione da un tabù o dell’evaporare di un fantasma. Il fantasma è quello dell’apprendimento, tedioso all’inverosimile, che rubava tempo e spazio alle vere passioni, la bicicletta, il calcio. Bene, ma allora perché non avete fatto i ciclisti o i calciatori? Tutta una vita spesa a smantellare la cultura come luogo privilegiato e accessibile a pochi. La cultura deve essere alla portata di tutti, ma non sono quei tutti a doversi alzare, è la cultura che si abbassa. Una volta un intellettuale mentre andavamo in latteria insieme mi disse, citando Brecht: quando un disperato chiede di salire sulla tua barca, se glielo lasci fare lo salvi per quell’unica volta, se invece lo spingi di sotto gli fai sentire più atrocemente la sua miseria e la voglia di riscattarsene. Io da allora m’immagino sempre l’intellettuale come un pescatore di anime al contrario: che le allontana, le spaventa con le parole difficili, le CATEGORIE INTERPRETATIVE, però al contempo le pungola, le stimola, gli insuffla la curiosità di scoprire se dietro quelle parole, vuoi mai, ci sono altri mondi, altri sguardi, altri modi di vedere le cose. L’intellettuale non è Gesù Cristo che parlava facile (si fa per dire, poi) e parlava a tutti: io prendo la parola per una parte, ma lo faccio con rispetto verso tutti quelli che mi ascoltano. Questa consapevolezza però urta, non solletica l’amor proprio, il buon senso comune. Maria De Filippi spiega al suo pubblico che nessuno come l’ospite che sta per annunciare riesce a farsi ascoltare da lei. Entra Saviano e distribuisce ai ragazzi di Maria libri come fossero caramelle. Ma i ragazzi di Maria non sanno cosa farsene, tra l’objet trouvé e i monili dei conquistadores, si vede che non aspettano altro che posarli e ricominciare ad assistere alla trasmissione normale. Del resto Saviano al di là di leggete perché è bello e leggendo diventerete migliori non è che provi ad andare. E non perché non sia un bravo imbonitore, anzi, si è messo in testa di fare il nuovo Pasolini e di dover “ammaestrare”. Ma Pasolini fallì proprio perché i poveri non ti perdonano di voler essere uno di loro: è stare al tuo posto che vogliono, non che ti abbassi tu. Allora torniamo al punto di partenza: perché la cultura contemporanea ha così a noia l’intellettuale da averlo ridotto a macchietta o rompicoglioni (Žižek avrebbe detto: buffone o canaglia)? Non lo so, aiutatemi a rispondere. Io dal canto mio di intellettuali ne conosco due tipi: i citazionisti, quelli che non sanno dire nemmeno vado a dormire, buonanotte, senza aggiungere come avrebbe detto Proust. E di quelli a volte anch’io sento il fastidio, la ridondanza. Sono senz’altro i più richiesti nei cenacoli letterari perché tengono banco, animano la serata. Poi però me li immagino tornare a casa tristi e infelici, senza un’idea nuova nella testa, indecisi tra l’essere per sempre buffoni o provare a diventare canaglia. Non saprei comunque rinunciare alla loro erudizione a pronta cassa: da ogni conversazione con i citazionisti riporto in effetti un desiderio nuovo, una curiosità. E pazienza se non vale il reciproco: se ne occuperà il loro terapista. Gli altri, i sapienti con nonchalance, sono quelli che non parlano come scrivono, non dicono circolo ermeneutico, forma del contenuto, epopea borghese, focalizzazione interna, il topos dell’a un tratto, ma piuttosto vado a dormire, e senza nemmeno citare Proust: non hanno paura, cioè, di usare frasi convenzionali se sono quelle esatte, quelle che tanti di loro hanno cercato con mille tentativi prima di arrivare alla perfezione della formula definitiva. Possono parlare di tutto, i nonchalantes, senza sfiorare il banale (che è di solito il difficile, come diceva l’intellettuale di prima). Ecco, se si potesse spiegare agli ex clienti del lattaio che in quella bottiglia non c’era solo del latte, ma una sapienza antica cui si abdica comprando all’ingrosso, forse gli intellettuali no, ma la bottega, quella sì, potremmo ancora salvarla.