Schermi intelligenti o schermi di intelligenze?

15 Maggio 2014

Rimaniamo piacevolmente sorpresi quando scopriamo che un bambino di un anno, ma forse anche più piccolo, è già in grado di gestire appropriatamente un dispositivo touchscreen. Così, come fosse un mito, si racconta di quel video su youtube in cui una bambina tenta di allargare le immagini stampate su un “normale” magazine allontanando i polpastrelli alla maniera dei tablet, della delusione della bimba nel constatare che quell’immagine, di carta stampata, ma forse per estensione tutti i libri, è semplicemente uno schermo rotto.

 

 

Ma cosa è accaduto? Come è stato possibile? Solo nel gennaio del 2010 Steve Jobs aveva presentato al pubblico l’iPad, solo quattro anni fa. Prima di allora il touchscreen era un dispositivo di nicchia, costoso e con prestazioni limitate, mentre la diffusione di massa avvenne con i primi smartphone. Certo, il primo iPhone, remoto strumento, fu lanciato sul mercato nel 2007. Possibile? Dico, possibile che il sistema sensibile dei neonati si sia modificato con tale rapidità, quasi parallelamente all’evoluzione tecnologica, per cui ora si percepisce prima un tablet in un’immagine che un’immagine in un tablet? Naturalmente, che la tecnica possa modificare la vita quotidiana delle persone è cosa indiscutibile, che accompagna da sempre l’umanità, fin da quando comparvero punte di lancia scolpite nella pietra. Dunque, perché ci stupisce e, forse, ci sconcerta che i bambini maneggino con disinvoltura gli schermi tattili? C’è forse il segno di un mutamento antropologico? Eppure il corpo umano si è sempre riadattato alle innovazioni tecniche! Oppure gli schermi impattano sulla sensibilità in modo prima impensabile? Insomma, disturbando Eco, ci troviamo di fronte allo sconcerto apocalittico nel cogliere una caduta irrecuperabile dell’umano o, piuttosto, di fronte alla sorpresa dell’ottimista integrato nello scoprire una disposizione al mondo che verrà?


Per dare ordine alla questione, disturbando ora Garroni, individuiamo nella capacità umana di “immaginare” una dimensione “metaoperativa”: quella per cui operiamo con uno strumento per creare un altro strumento, la pietra per scolpire la pietra e realizzare una punta che, prima di essere scolpita, esisteva solo nell’immaginazione.

 

Dunque, capacità tecnica e capacità di immaginare si intersecano. La tecnica, così, ha potuto potenziare il corpo umano, la sua forza fisica, la sua velocità di spostamento e dunque il tempo di vita (anche prolungando il giorno con la luce), la sua vista e gli altri sensi, la sua memoria (quella verbale con la stampa e quella visiva con la fotografia) e così via. Però, è solo dalla fine del secolo appena concluso che la tecnica è intervenuta in modo determinante nel potenziare la stessa immaginazione, rendendo di fatto possibile un incremento senza precedenti delle attività immaginative (una Plague of Fantasies, direbbe Zizek). Certo, l’immaginazione, lungi dall’essere un concetto semplice, riguarda il lessico dell’estetica fin dalle sue radici più antiche e non può essere qui risolta in una definizione. Nonostante ciò, possiamo dire che immaginare, in questa connessione con la tecnica, deve essere pensato come un’attività che ha a che fare con ciò che i Greci antichi chiamavano aisthesis e che, oggi, possiamo definire come il sentire umano tra operazione cognitiva e produzione di senso.

 

È così, ad esempio, che per noi è diventato normale sapere chi ci chiama al telefono prima di rispondere: sullo schermo, sul display o sul touchscreen, compare il nome o l’immagine del chiamante prima ancora che lo si possa riconoscere effettivamente, prima ancora di poter ascoltare la sua voce (la voce dell’altro che mi chiama), ovvero prima ancora che l’attività del sentire incontrando l’altro possa produrre senso e riconoscerlo. La tecnica ha già immaginato per noi (e noi vediamo l’immagine sullo schermo). È così che per trovare la strada, per immaginare il percorso che dovremo compiere, è per noi ormai normale affidarci alle cure di un navigatore digitale che, prima ancora che l’attività del sentire possa produrre senso e orientare, ha già immaginato il percorso per noi (e noi vediamo l’immagine sullo schermo) e, forse, sullo schermo, è già comparsa un’immagine Street View della strada che incontreremo. È così che i nuovi dispositivi di augmented reality ci mostrano (su uno schermo) ciò che possiamo vedere/incontrare nel mondo reale prima ancora che incontrandolo realmente si possa attivare il nostro sentire tra cognizione e senso. È così che si sta verificando un incremento senza precedenti della capacità immaginativa ma, parallelamente, una preoccupante dipendenza tecnica dell’attività umana di immaginare e di prefigurare senso, si potrebbe dire una dipendenza da schermi di alcune forme d’intelligenza.


Ora lo avvertiamo, in quel gesto ingenuo di un bimbo che opera sullo schermo touch di un tablet, nella sua disposizione a concepire ogni immagine interattiva come dotata di una sua autonomia e di una sua autoimmaginazione, sì, ora lo avvertiamo, schierandoci forse sul fronte degli apocalittici, un certo sconcerto.

 

Quella figura stampata ha perso il suo statuto di immagine, non è più l’immagine di qualcosa ma il segno che si è in presenza di un dispositivo immaginativo, un tablet, come simbolo della versione più evoluta di schermo intelligente… e che ne è delle intelligenze di fronte a questi schermi intelligenti? Perdonate il calembour, ma provo a concludere dicendo che se esiste una forma di “intelligenza” come capacità di elaborare l’immaginazione in conformità con i dati sensibili provenienti dal reale allora, con la tecnica che potenzia la capacità immaginativa, si corre il rischio di schermare questa stessa intelligenza.

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