Da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini / Scrittori italiani a Gerusalemme
«All’alba del XX secolo Mosè si ferma in Alessandria d’Egitto, come Cristo ad Eboli». Invero un po’ poco, in un’età che invece vede diffondersi e confermarsi il viaggio sia in quanto catarsi, o esperienza iniziatica, sia come percorso di conoscenza e condivisione. L’oggetto manifesto del volume al quale stiamo dedicando la nostra attenzione è dichiarato fin dalle primissime pagine, trattandosi del tema del viaggio a Gerusalemme nella cultura letteraria italiana a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi sessant’anni del secolo successivo. La data limite è il 1967, con la Guerra dei sei giorni, quando l’intero scenario regionale sarebbe mutato, da subito con gli effetti della vittoria militare d’Israele ma anche sul lungo periodo, con processi in atto i cui risultati dobbiamo ancora verificare ai giorni nostri. Non di meno, poiché l’autore è uno spigolatore di professione, uso a ripassare, con arguzia e metodo, quanto da altri parrebbe già essere stato fatto oggetto di una più che soddisfacente pulitura e mondatura, quel che dal suo fare ne deriva sono ricostruzioni di quadro dai tratti inediti.
L’acribia premia, a tale riguardo. Alberto Cavaglion con il suo ultimo lavoro, Verso la Terra Promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini (Carocci editore, Roma 2016, pp. 133, euro 16), consegna al pubblico italiano un diverso orizzonte attraverso il quale leggere la marcia di avvicinamento di una parte della cultura nostrana verso l’oggetto “Gerusalemme”, come concreta realtà ma anche e soprattutto al medesimo tempo come idealità e feticcio. Prima ancora che una ricognizione sullo stato della letteratura italiana antecedente al 1967, il volume, agile e vivace, è una sorta di riflessione, per interposte fonti e testi, sulla costruzione dell’immaginario che ruota intorno a luoghi, persone, situazioni a tratti idealizzate, altre volte demonizzate, più spesso obnubilate o rese materiale al limite dell’onirico. In questo senso gioca il discorso, ripreso più volte, a filo di testo, sulle “proporzioni” tra aspettative e riscontri. Il primo autore che Cavaglion fa parlare, in tale senso, non è un italiano ma è Mark Twain, quando nel 1867, viaggiatore disincantato ma anche pieno di aspettative, nel suo «The Innocents Abroad» scrive che: «Il termine “Palestina” aveva sempre evocato in me la vaga suggestione di una terra vasta quanto gli Stati Uniti: il perché non lo so, ma è così. Suppongo fosse dovuto al fatto che non potevo immaginarmi che ad avere una storia così grande fosse una terra di dimensioni ristrette, e credo di essermi un poco sorpreso di scoprire che il grande Sultano di Turchia fosse un uomo di dimensioni normali».
La questione, in sé molto “freudiana” era anche quella delle dimensioni di una terra la cui unitarietà e continuità geografica e sociale, all’epoca, non era per nulla data, semmai sovrapponendosi all’immaginazione di pellegrini e mercanti, di archeologi ed esploratori, di scrittori e artisti. Terra di origine, di genesi, «mesopotamica» per certuni, quasi virginale nelle aspettative di tanti. Salvo poi scoprirne la rude rusticità. Così, quasi a volere chiudere il cerchio, parla un altro disincantato, il Pier Paolo Pasolini che cent’anni dopo, in «Sopraluoghi in Palestina», preparando il «Vangelo secondo Matteo», restituisce dei luoghi visitati una percezione estremamente scarna e intimamente sofferta, quando nota che: «Quello che mi ha fatto più impressione è l’estrema piccolezza, la miseria e l’umiltà di questo posto […] una predicazione in una piccola terra, una piccola regione fatta di quattro colline brulle, un monte, il Calvario, dove è stato ucciso: tutto sta dentro in un pugno». E se è non meno vero che a cavallo tra due secoli anche la realtà, apparentemente statica se non astorica, di quella terra sembra mettersi invece in movimento, ciò avviene perché essa registra gli effetti congiunti dei mutamenti politici in corso all’interno di un Impero in via di definitivo disfacimento, l’arrivo dei pionieri sionisti, le trasformazioni che coinvolgono l’Egitto nei processi di modernizzazione incompiuta, una rinnovata attenzione di “turisti politici”, ossia di viaggiatori interessati non tanto a conoscere quanto a opzionare nella logica di futuri sviluppi.
Una terra ricca di suggestioni che, tuttavia, non parlano mai da sé. Rimane, come una sorta di suggello disidentitario, quello che l’autore attribuisce ai letterati italiani, ossia «la paura di Gerusalemme» che implica tante cose: il senso dell’atavicità che si accompagna alla paura dell’avversità, non importa quale e quando essa possa rivelarsi; la mitografia, a tratti perdurante a tutt’oggi, di una immediata omologabilità del paesaggio rurale e urbano all’«universo evangelico pastorale»; un irrisolto senso di vicinanza che si fa distanza, dove ciò che pare essere a portata di viaggio fa sì che risulti, alla resa dei conti, assai meno appassionante di altre mete. Di ciò è dato conto, soprattutto affrontando di petto la letteratura dei chierici laici, a volte anche militanti, che si muovono all’esplorazione del mondo sempre più globalizzato ma lasciano sullo sfondo delle proprie esperienze Gerusalemme. Il paradosso di quest’ultima (quasi una sorta di intima dannazione) è che il suo essere costantemente evocata la rende un luogo dello spirito ma non dei corpi. Nella percezione letteraria di molti scrittori diventa plausibile che questa città senza spazio sia tale perché corrisponde a una categoria dell’anima (non diversamente, ma con esiti ben diversi, per altre due capitali mediterranee, ossia Roma e Atene) che non può essere attraversata, pena la disgrazia o, più banalmente, la delusione. Anche da ciò, pertanto, due dinamiche tra di loro intrecciate. Da una parte il dinamismo di persone e piccoli gruppi «che hanno saputo fare il grande passo», recandosi per davvero nella Gerusalemme abitata non dai pensieri e dalle idee, ma dalle cose e dalle persone.
Si tratta di figure eclettiche e comunque animate da motivazioni personali, poco o nulla propense a vivere come una dimensione eroica il viaggio e la permanenza nei luoghi delle loro visite; semmai, abituati a raccogliere conoscenze in forma di esperienza. A questo milieu, che non si celebra da sé né cerca riscontri a disegni intellettuali, politici e culturali preesistenti, si affiancano, sull’altro versante, i deamicisiani «descrittori in ozio», così come un caustico e intransigente Croce definiva coloro che, del pari al prolifico autore di acquisizione piemontese, sono usi narrare di cose mai viste, di persone mai concretamente incontrate, di circostanze mai veramente vissute o condivise. D’altro canto, è fatto risaputo che Gerusalemme sia al medesimo tempo luogo di ricomposizione e di perdizione, di partenze e di ritorni, di sepolcri (più o meno imbiancati) e di commerci, quindi di fatti ma anche di molta immaginazione. La quale, spesso, si alimenta da sé, in una sorta di vuoto compensativo, dovendo obbligatoriamente fare a meno dei riscontri per potersi accrescere.
Verso la Terra Promessa è una sorta di ipertesto, dove non vi è una riga senza un qualche richiamo alla letteratura, un rimando a qualcosa o qualcuno, un rinvio ad un altro testo, a parole terze, a figure e a personaggi di un repertorio che ci viene proposto sotto nuove spoglie, quelle dettateci dal riconfigurare nomi noti alla luce di un irrisolto senso dell’impotenza, di una frustrazione mai del tutto mitigata, di un desiderio non accolto poiché indefinitamente formulato. Ecco che allora l’oggetto del lavoro di Cavaglion assume una connotazione molto differente da quella che una lettura superficiale gli assegnerebbe. Non un regesto di nomi più o meno noti e di frasi dette e fatte, ma un percorso labirintico nella coscienza moderna. Gerusalemme è il luogo di una promessa ma, ci segnala l’autore, è anche il fuoco di una premessa irrisolta. Chi l’affronta a viso aperto scopre quelle parti di sé che a lungo ha tenuto celate, nascoste sotto una coltre di motivazioni e razionalizzazioni tanto pudiche quanto fragili.
Non è un caso, quindi, se dopo gli anni Settanta, il viaggio si sia consumato in senso inverso, essendo stata la letteratura israeliana (come, in parte, quella palestinese, ma soprattutto dell’esilio), e quanti ad essa hanno dato ripetutamente corpo, a venire verso l’ “Occidente”, spiegandogli quello che aveva avuto la presunzione di potere omettere, a partire dall’incontro tra le diverse geometrie dei sentimenti umani, la contraddittorietà delle relazioni e delle identità, il meticciato tra culture, il senso della paura come matrice di oppressione ma anche di liberazione. Nulla di ozioso, in quest’ultima produzione intellettuale, che ha letteralmente (e felicemente) invaso i nostri scaffali. Ma il segno della nostra impotenza è risultato in tale modo risaltare ancora di più, quasi che una grande occasione fosse andata perduta in anni molto diversi da quelli che stiamo vivendo. Anche per questo la letteratura vale non solo per quello che ci dice ma anche per ciò che omette, sembra ricordarci un Cavaglion all’eterno setaccio di segni che, a volte, freudianamente si trasformano in sintomi di un disagio impronunciabile e, come tale, insuperabile. Gerusalemme non è una stazione d’arrivo, il punto di conclusione del viaggio, ma un passaggio tanto ineludibile quanto sorprendente e scomodo. Per questo si va, come recita il titolo del libro, «verso la Terra Promessa», essendo il cammino la vera origine, e l’esito ultimo, di tutto quel che conta. Contrappunto, quest’ultimo, nei confronti di chi vive, tanto più ai giorni nostri, lo spazio come una dimensione di pura e semplice reificazione.