Scrivere del padre

19 Marzo 2012

Un lungo sguardo unisce Maddalena Rostagno e suo padre Mauro, così si apre Il suono di una sola mano (Il Saggiatore): tesi e muti si fissano per lunghi minuti. Sono reduci da un litigio e nessuno dei due vuole fare il primo passo. Quella è l’ultima volta che s’incontrano: Mauro Rostagno sarà ucciso in un agguato mafioso e Maddalena dovrà ricostruire la storia di suo padre per dare forma anche alla propria. Le due vite confluiscono una nell’altra, dove è mancata la parola del padre sarà la scrittura della figlia a riordinare uno spazio abbandonato tra i rottami delle calunnie e la burocrazia dei verbali.

 

Il padre ha perso ai giorni nostri la capacità di proteggere e di decidere. Il potere paterno si è distribuito e parcellizzato all’interno di reti di affetti che si estendono ben oltre l’angusto ambito famigliare borghese, o piuttosto piccolo-borghese. Complice il progresso scientifico che ha allungato la vita come mai prima, il padre è sempre più un vecchio padre, un uomo smarrito e incapace di ogni forma d’imposizione sui figli quanto di controllo sul proprio corpo. Al figlio, come suggerisce Romeo Castellucci nello spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio, spetta la necessità di un’infinita pazienza per un continuo e violento svuotamento di simboli e valori da parte di chi pretende di essere ancora, e infinitamente, Padre. I figli trascinano esausti la giovinezza oltre i confini della mezza età: c’è qualcosa di fortemente pasoliniano in questa disperata tensione, tanto nelle forme in cui lo sforzo di ritrovare una lingua è più evidente, quanto negli aspetti più leggeri e apparentemente vacui. Coglie bene Fulvio Abbate in Pasolini spiegato ai ragazzi la disperazione dei figli, riportando la battuta di Christian De Sica: “Mio padre ha inventato il neorealismo, mio zio ha ucciso Trotsky, io faccio ridere con le scorregge”. C’è poco da ridere e molto da disperarsi per un’eredità che è solo dolente nostalgia. Vittorio De Sica o anche Walter Chiari, raccontato dal figlio Simone Annichiarico in Walter e io, furono padri fuori dal comune, ma la retorica dell’aneddoto semplifica e riduce i figli a comparse rispetto ad esistenze monumentali, impedendo loro di crescere. Una retorica che deforma l’immagine del padre fino a farla svanire del tutto, trasformando i figli da fedeli credenti in ingenui creduloni.

 

I figli privati di ogni tipo di eredità non hanno potuto altro che farsene una ragione, anzi una storia. L’assenza di una lingua paterna ha avuto come prima conseguenza la mancanza di una memoria condivisa degli anni che vanno dal ’68 fino a tutti i Settanta. Al meglio si è prodotta una memorialistica, che ha poco da invidiare a quella dei generali in guerra, con tanto di imprese roboanti e formidabili anni al seguito. Raccontare è per i figli una necessità perché stabilisce le distanze e dà misura alle cose. Le storie dei padri raccontate con la lingua dei figli non ignorano le contraddizioni come i tradimenti, la bellezza e l’odio.

 

E se Maddalena Rostagno si muove in una sorta di penombra, in cui ogni voce, ogni ricordo rischia di trasformarsi in un accecante e doloroso fiotto di luce, Benedetta Tobagi ha bisogno di accumulare testimonianze, aneddoti, documenti. Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi) ripercorre la vita di Walter Tobagi con obiettività analitica, che in alcune pagine prende la forma dello studio storico. Nulla viene omesso, compresa la fotografia del padre da poco assassinato. E allo stesso tempo nemmeno l’emozione viene celata e sbuca come un dolore acuto che spezza il cuore e torce lo stomaco. Anche in Spingendo la notte più in là (Mondadori) di Mario Calabresi si ritrova il medesimo affanno, la fatica di far convivere l’irrazionalità amorosa del bambino o dell’adolescente con le spiegazioni dell’uomo ormai adulto: il corpo dei padri si trasforma in uno scatolone pieno di ritagli di giornale, registrazioni, documenti e oggetti minuti di una vita quotidiana ormai perduta. I figli mettono ordine con il rischio ogni volta di perdere l’equilibrio. Esplorare le storie dei padri è sempre un azzardo che in questi libri si traduce in tensione narrativa, e diventa punto di partenza di una memoria finalmente condivisa.

 

I figli frugano in giacche che hanno ormai la loro taglia: nelle storie dei padri ritrovano le proprie ma anche le loro diversità. Tanto più quando il padre è una figura pubblica come Toni Negri, filosofo celebrato e leader presunto dell’insurrezione armata in Italia. Anna Negri, in Con un piede impigliato nella storia (Feltrinelli), fa riaffiorare un padre diverso dalla figura mitologica in cui lei ha sempre rifiutato di identificarlo, sia nel bene che nel male. Anna fa una dichiarazione d’amore forte e anche dura: nulla concede a un padre tanto ingombrante quanto assente. E nulla può concedergli, perché solo partendo da una chiara visione della storia di Toni Negri, lei può riappropriarsi della propria irriducibile diversità.

 

In tutti questi testi, da quelli più letterari a quelli più autobiografici, sono vari i livelli che si intrecciano: raccontare la storia dei propri padri è come salire e scendere lungo i piani di un palazzo; alle volte si prendono le scale, altre l’ascensore. La narrazione ha scatti improvvisi per poi adagiarsi lungamente su particolari solo in apparenza insignificanti. Solo quel giorno, solo quel minuto, hanno la purezza necessaria e utile per chiarire in maniera esatta chi era questo mio padre, perché se l’autore di ognuno di questi libri si riferisce alla propria esperienza personale, altrettanto fa il lettore. Poi saranno certamente altri minuti e altre giornate: non conta, quando è la qualità sensibile di quell’attimo a essere riconoscibile da chiunque. Edoardo Albinati in Vita e morte di un ingegnere (Mondadori) sa ben raccontare il preciso istante in cui è possibile condensare il rapporto con il proprio padre: una battuta improvvisa in una camera d’ospedale, il vecchio padre che si aggrappa alla spalliera del letto e la sensazione di riconoscere finalmente quell’uomo, per quel poco e per quel che è possibile. La vita di un ingegnere vista da uno scrittore, un borghese letto con struggente amore da un artista. Nel testo di Albinati non c’è rancore o frustrazione. Quello che più conta ora è solo saperne di più di quel padre perché questo è l’unico modo per affrontarlo e per provare a vivere obbligatoriamente, e non solo più finalmente, senza di lui. Seppur padre, Albinati si sente per sempre figlio. La maschera del padre è tolta e i figli sono liberi di raccontare le storie lasciate.

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