Simone Lenzi. La generazione
Una donna vive di giorno, si alza con le prime luci, pensa, sogna e desidera al calore del sole; un uomo, il suo uomo, di giorno dorme disturbato dai rumori del ciclo vitale diurno, e di notte lavora, e mentre lavora pensa e legge e studia, nel tentativo disperato di spiegarsi perché la sua vita e quella di sua moglie sembrino escluse dai ritmi naturali dell’esistenza, sterili alla procreazione. S’immerge nella lettura di Comenio, di Aristotele, di Ippocrate, di scienziati dei secoli addietro, alla ricerca di una spiegazione razionale; pagine digitali scorrono sul monitor del computer, pagine scannerizzate, sterilizzate. La voce narrante è quella di un guardiano d’hotel la cui notte non è né nera né blu, ma grigia, di un “grigio mal di testa” che accompagna le ore lente di lavoro, immerso nei ronzii di computer, fax e macchine per il ghiaccio. È un buio in movimento, un buio grigio, in cui “il desiderio delle cose sensibili del mondo è infinito”. La generazione è il romanzo d’esordio del cantautore livornese Simone Lenzi (Dalai, pp. 155, € 15) da cui Paolo Virzì trarrà il suo prossimo film.
Il guardiano di notte vorrebbe avere un figlio. Sua moglie invece vuole avere un figlio. L’orologio biologico femminile è nascosto da qualche parte sottopelle, in qualche meandro interno della donna che sente il tempo fuggire via. Aspettare non basta più, perché nulla arriva, se non quel sangue ciclico che mensilmente nega la generazione. “Ci vuole il tempo che non c’è più, quello che abbiamo perso”. E allora la coppia si mette nelle mani di medici e biologi. Le giornate si trasformano in cadenze liturgiche fatte di iniezioni e pillole ormonali, di domande senza risposta e di vacue speranze. Lei si sottopone a un prelievo di ovociti, lui a qualche sega faticosa e disperata destinata a riempire contenitori sterilizzati.
Attorno a loro tutto è vita, rigenerazione continua. La materia è energia sprigionata da animalcules, piccoli esseri invisibili che si riproducono festosamente. Gli animalcules sono ovunque e soprattutto efficienti: sulla pelle, nella bocca, dentro ad ogni corpo, persino nel cervello, fra i pensieri del guardiano di notte. Piccoli vermi che si riproducono e si mangiano fra loro, fecondandosi a vicenda. La coppia di amanti vive invece la contraddizione di un autunno precoce, come una svista della Natura, esclusi senza spiegazione.
Non è solo un romanzo sul desiderio genitoriale interdetto, o sulle tenebre che avvolgono l’humus della generazione. È anche il tentativo di lasciare le differenze tra uomo e donna per una volta insolute, sospese al di sopra di ogni sforzo analitico. “Se maschio è ciò che genera in altro, femmina, dice Aristotele, è ciò che genera in sé. Se provo a vedere con gli occhi di qualcuno che genera in sé, immagino che ciò che è dentro di me sia allo stesso tempo me e altro da me. So di non poterlo capire fino in fondo. (…) Comprendersi non è la cosa più importante, io credo”. Il guardiano di notte rilegge il mito di Tiresia narrato da Ovidio, ed è proprio l’incomprensione intrinseca e inevitabile tra uomo e donna che ritrova nell’antica narrazione. La soluzione di fronte all’incontro con il diverso non va sempre nel verso di una limpida comprensione, ma certamente di un affetto che è accoglienza e accettazione.
Questa prima prova narrativa di Simone Lenzi è interessante nelle scelte stilistiche, ad esempio la paratassi è convincente, ma a volte rischia di creare un’assuefazione ipnotica nel lettore che finisce per banalizzare la sua scrittura. Eppure piccole verità trovano spazio fra le sue pagine, fornendo al lettore prospettive inconsuete.