Lo sguardo femminile
Bergamo discreta, piacere di provincia. Eppure il Bergamo Film Meeting, con la sua portata internazionale, si respira nella città, non solo nelle sale. I registi venuti da tutta Europa si mescolano ai cultori di cinema, ai giornalisti, agli appassionati. Una piazza è l’anima architettonica dell’evento, Piazza Libertà. Uno spazio così italiano, così fascista. Ampia e assolata, in cui le ombre delle colonne squadrate della Casa della Libertà (in origine Casa Littoria) precipitano rigando la pavimentazione di marmo bianco. E l’Auditorium è al suo interno, con la sua platea ad anfiteatro e i 298 posti a sedere. Anche i cani sono ammessi, nonostante le immancabili azzuffate pre-proiezione. Qualcuno si lamenta, “lasciateli a casa!”, ma si sente che ai più quel bailamme non dispiace affatto, il cinema d’alta qualità è per tutti.
L’ultima edizione del BFM, durata una decina di giorni, si è da poco conclusa. Quest’anno la linea trasversale della rassegna che ha legato insieme numerosissimi film e registi non è stata solo tematica, “la contorta geografia di un’Europa ancora in costruzione”, cammino di ricerca intrapreso già da tre anni. Ad essa si è affiancata una angolatura tipologica, ovvero lo sguardo cinematografico femminile (percorso biennale che proseguirà anche l’anno prossimo). Alcune sezioni della rassegna sono state dunque interamente dedicate a registe donne provenienti da diversi paesi europei, come “Europa: femminile, singolare” in cui sono stati riproposti i film di tre registe: Sólveig Anspach, islandese di nascita e francese d’adozione, l’italiana Antonietta De Lillo e Jessica Hausner d’origine viennese. Tre registe con un approccio cinematografico molto diverso, il cui accostamento non può che sottolineare la polifonia del punto di vista femminile: il femminile non come un contenitore omologante, in cui ogni espressione artistica è, e deve essere, simile alle altre e in cui le voci si uniscono e inevitabilmente si confondono in una espressione corale, ma dove ogni ricerca cinematografica possiede la sua unicità. (Mi sembra che questa sia stata una scelta coraggiosa. Non è facile proporre un taglio così netto a un festival cinematografico, rischiando d’incappare in stereotipi e pregiudizi, sia maschilisti sia femministi. E questo dare spazio alle singole voci e pensarle come tali è stato il modo più acuto per evitare i luoghi comuni.)
“Anche se mi piacciono gli uomini credo di capire meglio le donne”, così ha detto Sólveig Anspach durante l’incontro con il pubblico. E infatti i personaggi principali dei suoi film sono femminili. Donne che reagiscono, che si spingono oltre il perimetro che si pensava fosse la loro vita e infrangono le regole, le calpestano per cercare qualcosa che sentono di non avere. Così succede a Cora Levine, giovane psichiatra belga, protagonista del film Stormy Weather (2003), che dopo un inizio terapeutico faticoso con una paziente muta e apparentemente senza identità, instaura con questa un legame di dipendenza sempre più stretto e sempre meno professionale che la porterà a spingersi fino ad una piccola isola islandese alla ricerca della sua paziente e a confrontarsi con una comunità totalmente estranea alla sua visione del mondo.
L'originalità con cui Sólveig Anspach rappresenta lo scontro di culture è uno degli aspetti interessanti dei suoi film. E spesso è proprio l’uso di diverse lingue in un unico film a dare l’espressione più esplicita di questa sua ricerca. Le lingue sono come delle sinfonie, dice Anspach. Anche se non le capisci, come a lei è capitato in Bosnia, quando il conflitto si è riacceso all’improvviso, sorprendendo lei e la sua troupe in territorio di guerra. Un giorno si trovarono bloccati, con l’impossibilità di far ritorno in Francia. La regista circondata dai bosniaci ha chiesto loro di parlare davanti alla cinepresa, di dire ciò che stava accadendo; lei una volta tornata a casa, se fosse riuscita a tornarci, avrebbe fatto tradurre le loro parole e avrebbe mostrato il documentario in tutti i festival europei. Ebbene, quelle persone parlarono, nella loro lingua d’origine, e anche se Anspach non capiva cosa stessero dicendo sentiva che erano parole e pensieri che nascevano da un'urgenza profonda. La lingua è quindi un luogo d’incontro, anche se non la si comprende. Una terra incerta in cui la comprensione dell’altro, anche se non immediata, è possibile. Anspach è nata come documentarista e questa sua impostazione è ben percepibile anche nelle sue fiction. A Bergamo è stato proiettato anche il suo ultimo film, Lulu femme nue, presentato nelle sale francesi proprio in questi giorni. Lulu dopo un colloquio di lavoro andato male non torna a casa, dove il marito e tre figli la aspettano. Incontra un uomo per strada di cui si innamora, e una donna molto più grande di lei con cui nascerà un’amicizia profonda, sincera. Questi incontri la cambiano, la rendono meno vulnerabile e più affezionata a se stessa e alla sua indipendenza. Quando dopo alcuni mesi tornerà a casa tutto sarà cambiato, fuori e dentro di lei.
Antonietta De Lillo nel 1995 incontra Alda Merini e gira un documentario in cui alterna la conversazione con la poetessa alla recitazione di alcune sue poesie lette dall’attrice Licia Maglietta. Nel 2013 riprende in mano tutto il materiale girato nella casa di Alda Merini e lo ripropone in versione integrale. Cinquantadue minuti di lucidità e follia, La pazza della porta accanto. Alda è una donna-madre senza figli. Le sono stati strappati via durante il periodo di internamento in manicomio. La sua poesia nasce dal dolore e dall’amore. “Isolata, ombrosa, mi faccio male da sola”. La sua saggezza delirante porta risposte nella nostra società malata e l’ispirazione poetica “è come un soffio, una solfatara” che spinge gli oggetti in alto e li distende, li amplifica. “La poesia è un gioco sensuale”. La donna non è per forza sinonimo di amore. “Non capisco il femminismo, una donna che vuole diventare uomo. È giusto che la donna sia se stessa. Ma è giusto che anche l’uomo sia se stesso”. Il momento del parto è improvviso, lacerante, “è un momento di frastuono, è una discesa all’inferno della vita, come un grosso dolore, qualche cosa è morto. Non la poesia ma il destino. Un percorso della morte. Come nel manicomio, in cui il corpo è in sfacelo e vedendo questo sfacelo l’anima si perde. In manicomio non si ha nulla. Non si soffre. Fuori sì, lì no”. Amore, morte, poesia, manicomio. È questa la realtà poetica di Alda Merini. Questo dialogo trasformato in monologo da Antonietta De Lillo e inframezzato con scorci su una Milano sconosciuta e poco vip danno corpo e materia alla vita di Alda, solitaria e noncurante dello schiamazzo della società pettegola.
La terza regista di questa sezione è la viennese Jessica Hausner. I suoi film sono crudi, più che raccontare storie la cinepresa segue i protagonisti mostrando le loro ossessioni e la loro apatia alla vita. La pellicola sembra sporcata dal disagio esistenziale dei personaggi. Come scrive Lorenzo Rossi nel catalogo del festival il suo cinema si situa “proprio in quella piega e in quel vuoto insondabile che sta fra il benessere e l’infelicità”. L’Austria è il contenitore in cui i personaggi si muovono respirando il vuoto del benessere. In Inter-view (1999) un ragazzo munito di registratore vaga per la sua città intervistando le persone che incontra, facendo domande sulla loro vita, sulle aspettative di felicità. Ingordo di risposte e perennemente insoddisfatto. Tutto è scarno, distaccato e rigido. Lento, come la vita nel benessere. In Lovely Rita (2001) la cinepresa segue l’esistenza annoiata di una adolescente. A scuola è isolata, e ai dispetti delle compagne risponde con altri dispetti. A casa con i genitori “tiene il muso”, un muso annoiato e scontroso. Rita reagisce con gesti pericolosi, sconsiderati, che la isolano sempre di più. Fino a un crescendo di violenza che però la protagonista non sembra vivere come tale. Anche in questo film è proprio l’apatia del benessere il focus narrativo.
Molto lontana dalla sporcizia sgranata delle pellicole di Jessica Hausner è un cortometraggio presentato all’interno della sezione dedicata ai corti CILECT (Centre International de Liaison des Écoles de Cinéma et de Télévision). Il cortometraggio Zu dir? (2012) di Sylvia Borges, una giovane regista tedesca, è pulito, bello, quasi troppo. Ha qualcosa della patinatura pubblicitaria. Gli attori non sono solo perfetti nella recitazione ma lo sono anche esteticamente. La storia narrata è raffinata, ironica, non banale. Due sconosciuti ballano insieme tutta la notte fino a quando le luci della discoteca si accendono. Max chiede “Da me o da te?”, e Freya “Io da te e tu da me”. Si scambiano le case per qualche ora, conoscendosi così attraverso gli oggetti, le luci, gli odori della casa dell’altro.
Lo sguardo cinematografico femminile non mette in scena solo il come le donne si raccontano, ma soprattutto il come le donne raccontano. E il Bergamo Film Meeting è riuscito a dare vita ad una polifonia che tenesse conto delle singole voci, senza appiattirle in una forzata consonanza. Il prossimo anno vedrà la seconda parte di questo percorso biennale. Un festival nato nel 1983 e che sembra non aver per nulla perso energia e vitalità.