Francesco Orlando. Gli oggetti desueti

28 Aprile 2015

«perirono fin le rovine»

 (Lucano, Pharsalia)

 

 

Nell'insonnia della vita la materia si replica senza sosta in varianti progressive. Il mondo annega negli oggetti, come scriveva qualche anno fa Deyan Sudjic. E così la cosa di oggi è scarto del domani. Realtà inutile, invecchiata, la si liquida sul ritmo del desidero infinito. La materia che non dorme mai si rigenera nella trasformazione continua e butta fuori detriti, oggetti abbandonati, relitti. Come l'angelo della storia che procede dando le spalle al futuro e osservando le rovine che lascia sotto di sé. La letteratura per Francesco Orlando, uno dei massimi critici letterari del Novecento italiano, è come un catalizzatore che attrae lo scarto della storia e ripropone l'oggetto abbandonato, carico di represso, in una sede immaginaria. La letteratura raccoglie, differenzia, rielabora. E archivia. Perché “il tempo logora o nobilita”, ma evidentemente non solo: il tempo “logora e nobilita”, anche.

 

Il libro di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, che uscì per la prima volta nel 1993, grazie alla nuova edizione Einaudi smette proprio in questi giorni di essere uno di quei fuori catalogo che gridano vendetta, e da introvabile torna finalmente a essere disponibile nelle librerie. Si tratta di un saggio di critica tematica dedicato al potere di attrazione che la letteratura ha sempre avuto per gli oggetti non più funzionali. È una vasta antologia calata in una stretta rete teorica e sistematica di stampo strutturalista. Ma come molte sistematizzazioni anche questa di Orlando è frutto di intuizioni e di visioni personali. Lo schema potrebbe essere riproposto in miriadi di altre varianti. Non è certo un libro per chi cerca verità assolute, così come non è un banale elenco di suggestioni tematiche antologizzate. Si tratta piuttosto di una mappatura dell'immaginario narrativo occidentale attorno agli oggetti spazzatura, da buttare e da riciclare che siano. Mappa immaginaria di immaginario.

 

Giorgio Morandi, Natura morta, 1951, Bologna, Museo Morandi

 

La mappa del desueto letterario di Orlando è un percorso a biforcazioni continue, fatto di opposizioni binarie, un albero né genealogico né vegetale, bensì “semantico”: «linee e parole vi si ramificheranno sempre di più a partire da un tronco unico», e porteranno l'autore alla definizione di dodici categorie, dodici tipi di realtà desueta (come il logoro – realistico, il memore – affettivo, il desolato – sconnesso, il sinistro – terrifico). Piero Boitani che per questa edizione ha scritto un agile saggio introduttivo, conclude con un'immagine che va a confermare l'impressione che si tratti di un'opera sì sistematica ma non scientifica. Questo imponente e ricchissimo volume sembra la composizione di un musicista, scrive Boitani. Ed effettivamente la forma artistica a cui più si avvicina è forse l'opera sinfonica con i propri movimenti e temi interni che si ripetono e si integrano man mano che l'albero s'infittisce di radici e rami, all'interno di una macrostruttura molto precisa e dettagliata. È la mappatura parziale di una ricorrenza in variazione pressoché infinita. Tant'è che il lettore, nell'indipendenza della propria enciclopedia, trova inevitabilmente echi nelle letture fatte, spaziando in mondi classificatori paralleli. Come questa lettera di Tano Festa, inviata ad Arturo Schwartz nel 1966: «All’inizio del ’62, passando per via due Macelli, vidi attraverso la vetrina di una libreria la riproduzione del quadro di Van Eyck, I coniugi Arnolfini. Osservando il quadro mi sembrò che il suo vero protagonista fosse il lampadario. Questo lampadario incombe sulle figure degli Arnolfini come qualcosa che sta a misurare la durata e quindi il limite delle loro esistenze. Pensai con malinconia che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario».

 

La letteratura per Orlando è una trasgressione dei miti di progresso e di produttività della civiltà moderna. Il represso della società, ciò che il mainstreaming ci impone di non guardare (ovvero il degrado, l'impoverimento, la copertina patinata di una rivista prostrata dalla polvere del tempo) viene raccolto tra le pareti narrative, ed esposto allo sguardo poco abituato ad ammettere quel senso di vuoto e mancanza che mai ci abbandona del tutto. Come scrive Franco Moretti, «ogni forma è la risoluzione di una fondamentale dissonanza dell’esistenza» (in The Bourgeois. Between History and Literature, recentemente ripreso da Raffaello Palumbo Mosca in una interessante recensione uscita su MicroMega). Così come la letteratura si nutre dello scarto della società dando espressione alla dissonanza dell'esistenza e trasgredendo il veto delle magnifiche sorti e progressive, si potrebbe dire che le strutture sociali saccheggino l'immaginario letterario di efficaci proiezioni mitiche per rafforzare le proprie ideologie. È questo il “mito tecnicizzato” di cui parla Furio Jesi: la spontaneità psichica dell'archetipo viene annullata diventando mero gesto volto ad uno scopo ben preciso. La finalità esplicita del mito ideologizzato fa perdere “l'equilibrio aureo fra buio e luce”, svuotando l'originale della propria densità. E così, all'opposto, l'oggetto spogliato della propria funzionalità nell'erosione del tempo si fa fantasma di se stesso, scheletro di realtà nell'assenza di significato. La letteratura recupera e riveste di significato il perduto, fa realtà con le rovine dell'esistenza. Come in un flusso di scambio continuo, letteratura e società si nutrono e si derubano a vicenda della propria materia costitutiva.

 

«Si pulisce, e il giorno dopo si ammucchia da capo»

(Ivan Aleksandrovič Gončarov, Oblomov)

 

Willem Claeszoon Heda, Still life with oysters, a rummer, a lemon and a silver bowl, 1634, Amsterdam, Rijksmuseum

 

Cosa significa ripubblicare il libro di Orlando oggi? Quali sono, se ci sono, le nuove questioni che può sollevare nel confronto con il presente e con ciò che sin da ora si intravede del nostro futuro prossimo? Qualche riflessione a margine. Se davvero la letteratura può essere (anche) una sorta di grande archivio dell'umanità, che rapporto ha con il tempo? I lettori del presente come si pongono rispetto ad un testo scritto anni se non secoli prima? Domande della semiotica degli anni '60, a cui però è necessario tornare, oggi che la tecnologia ci sta proiettando in realtà digitali inedite. Quanto il lettore/spettatore di domani sarà in grado di comprendere il piacere-dispiacere dell'attesa? La tensione che si prova, ad esempio, per una lettera che non arriva, nella fatica del passare dei giorni? La tecnologia tenta di annullare la possibilità dell'incertezza, il momento dell'inconsapevolezza, del “non so ancora”. Molti dei sistemi di messaggistica digitale che riempiono il nostro quotidiano hanno opzioni sempre più volte all'annullamento dell'incertezza: il messaggio è stato consegnato o letto, la conversazione è stata visualizzata, l'utente X ha avuto l'ultimo accesso alle ore XY. La possibilità di controllo sull'altro, ovvero su noi stessi e sulle nostre emozioni, è sempre più stringente. Se le tecnologie modificano i nostri comportamenti e le nostre conoscenze, quanto l'archivio letterario potrà essere ancora letto senza un punto di vista distorto rispetto a quello dell'autore?

 

Non solo. La questione del digitale investe anche la modalità d'archiviazione futura. Oltre ai problemi che sorgono dall'obsolescenza digitale c'è un altro rischio, ovvero la mancanza di sedimentazione delle informazioni. La stratificazione è meno percepibile, manca spesso di prospettiva, di distanza temporale e spaziale. In futuro ci saranno dei nuovi Orlando che raccoglieranno il desueto digitale? Il confronto con l'archivistica classica è essenziale a tal proposito, ecco perché iniziative come il progetto DATA – Sharing Archives, che sta vedendo la luce proprio in questi mesi, sono da seguire. Si tratta di un progetto finalizzato alla valorizzazione del patrimonio archivistico italiano e al recupero e circolazione online di fonti d'archivio desuete, come si può dedurre dai link pubblicati sulla loro pagina facebook.

 

Jonas Bendiksen, Vesteraalen, Norway, 2012

 

Accumulo letterario, accumulo digitale, accumulo analogico. Realtà. Qualche mese fa mi è capitato di entrare in un enorme capannone di robivecchi, tra le colline del torinese. L'individuo presente e singolo di fronte al grumo densissimo di realtà passata e molteplice. Oggetti desueti sedimentati nel tempo, materia sovrabbondante che perde il confine, l'orizzonte. Se delimitare significa tracciare la linea dell'Io, qui non c'è nessuno, perché qui tutto è mescolato, sovrapposto. La memoria s'annebbia, il ricordo è perduto. È un “ininterrotto essere stato”. L'occhio ci si perde, incapace di individuare un'ombra su cui fissarsi. Fluidità del pensiero, luce e oscurità. “Per ogni agire ci vuole oblio”. E allora da quei capannoni si esce con le mani fuori dalle tasche, pronti a riprendere il lavoro nel proprio campo, fatto non di polvere e immobilità ma di terra e fatica. Forse gli oggetti desueti è bene lasciarseli alle spalle, non vederli più se non in letteratura o in archivio. Abbandonare, perché tanto il passato non tornerà.

 

Il bastone, le monete, il portachiavi,

La docile serratura, le tardive

Note che non leggeranno i pochi giorni

Che mi restano, le carte e la scacchiera,

Un libro, e nelle sue pagine l’appassita

Violetta, monumento d’una sera

Certo indimenticabile e già dimenticata,

Il rosso specchio occidentale in cui arde

Un’illusoria aurora. Quante cose,

Lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi,

Ci servono come taciti schiavi,

Cieche e stranamente segrete!

Dureranno più in là del nostro oblio;

Non sapranno mai che ce ne siamo andati.

(Jorge Luis Borges, La cosa)

 

 

 

 

Il libro: Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino 2015, pp. 554, € 36,00.

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