Oggetti d'infanzia | No, Bebi Mia no!

7 Agosto 2013

Gli oggetti che più hanno segnato la mia infanzia sono quelli che non ho avuto. Potrei stilare un preciso elenco cronologico di tutti i giocattoli che ho desiderato e mai ricevuto, quasi sempre per ragioni calvinianamente educative: prima in classifica senza ombra di dubbio la plasticosissima Bebi Mia, una delle prime bambole parlanti. “Ho fame”, “ti voglio bene”, “abbracciami!”, “giochiamo?”, una insopportabile sfilza di richieste che come recitava la pubblicità faceva sentire le bambine delle “vere mamme”. A guardarla oggi nelle fotografie d’epoca anni ‘80 è di una bruttezza che lascia senza parole: capelli biondissimi e spaghettosi, cicciotta, un sorriso un po’ ebete. Ricordo il verdetto finale, avvenuto in uno di quei giorni che precedono il Natale, quando il buio invernale calava presto sui miei pomeriggi d’infanzia. Una mezza parola sfuggita tra mio padre e mia nonna mentre io li ascoltavo di nascosto da dietro una porta. Il verdetto infranse il mio desiderio: “no, Bebi Mia no!”. E quel paffuto ingranaggio elettronico sfumò definitivamente dalla realtà traslandosi per sempre nel mio immaginario: una bambola parlante troppo ma davvero troppo cara.

 



Un altro giocattolo che non ho mai avuto: Ken il fidanzato di Barbie. Avevo cinque o sei di quelle micro ragazze truccatissime e formosissime, ma nemmeno un maschio per farci fare insieme le cose naturali che si addicono ai ragazzi dell’universo Barbie. Allora mi toccava farle accompagnare a fare la spesa, alle giostre, in tutti quei posti immaginari, da un bambolotto a forma di orangotango, o da una giraffa, oppure ancora da un pezzo di legno a cui disegnavo bocca e occhi. Insomma l’educazione cattolica di mia nonna doveva aver vietato in qualche modo la comparsa di quel ragazzotto con occhi sgranati e sorriso demenziale (grazie nonna!).

 



Gli oggetti fondamentali della mia infanzia sono dunque stati i giocattoli non miei, o quelli vietati o quelli ereditati, ma che insomma, in un modo o nell’altro, contenevano intrinsecamente una negazione, una sottrazione: i giocattoli anni ‘70 dei miei fratelli o quelli dei miei genitori che erano severamente vietati e che di nascosto andavo a scovare dentro scatole impolverate. Il fascino stava soprattutto nei materiali diversi dalla consueta plastica dei miei anni: latta, piombo, pezza. Uno fra tutti: una splendida funivia in miniatura dei miei fratelli, che con un meccanismo a carrucola portava piccoli sciatori su e giù per montagne innevate, immaginarie. Le cabine erano di una latta sottile e dettagliatamente disegnata, rosse e grigie. Oppure i soldatini di piombo di mio padre che dagli anni ‘50 venivano catapultati in guerre che inventavo nascondendomi sotto il letto. Il trenino elettrico costruito su un plastico casalingo. Occupava un’intera stanza e mio padre lo fece impreziosire di lampioncini dall’elettricista di famiglia: quello era nuovo, tutto mio ma di un gusto retrò che a dir la verità emozionava più il mio benefattore che me.

Le epoche si sono sempre mescolate e sovrapposte durante gli anni della mia infanzia. I tempi che non erano i miei proiettavano un fascino irresistibile a cui non potevo sottrarmi. Chissà cosa cercavo in quel che non potevo avere davvero fino in fondo.

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