Siri Hustvedt. L’estate senza uomini

4 Settembre 2012

La scrittura di Siri Hustvedt è prima di tutto un sistema nervoso. La storia si sviluppa per pulsazioni: gli eventi sono centri d’intensità. Come nei suoi romanzi precedenti, sempre in bilico tra narrazione e saggismo, Hustvedt sviluppa due piani di racconto che in L’estate senza uomini (Einaudi, Torino 2012, pp.160, € 17. Traduzione di Gioia Guerzoni) sono ancor più evidenti: la commedia romantica - un’esplicita citazione di Persuasione di Jane Austen (letto dal gruppo di amiche della madre della protagonista) - e un livello quasi prettamente filosofico che attraverso un montaggio di varie teorie, in testa Alla ricerca della felicità di Stanley Cavell, sviluppa una forma di analisi e di critica del genere della commedia romantica definendo contemporaneamente la forma del racconto stesso.

 

Raccontare per l’autrice è come interpretare uno standard, variando il testo con l’inserimento di concetti filosofici e medici, Hustvedt riesce a trasformare un genere in un testo multiplo e aperto e questo senza che risulti appesantito da improbabili digressioni. Il ritmo e l’ironia che attraversano tutto il romanzo testimoniano infatti dell’abilità narrativa dell’autrice.

 

L’estate senza uomini è infatti una variazione sul tema, una musica jazz capace di trasformare una commedia romantica in una profonda e attenta analisi della nostra contemporaneità, fatta di relazioni tra uomini e donne, ma anche d’inediti incontri con adolescenti che sembrano piovuti da mondi inesplicabili e anziani rinchiusi in un tempo passato, ma capaci di sorprendenti visioni. È un mondo movimentato e frenetico dentro al quale la protagonista, Mia, una poetessa e filosofa, pretende di fermarsi, non tanto per cogliere l’istante o il momento perduto, ma per potersi ridefinire dopo una vita d’immagini sfocate. Mia è anche lo specchio dentro al quale il lettore legge e vede l’altro protagonista, seppur assente: il marito Boris, un neurologo che l’ha momentaneamente lasciata mettendo in pausa il loro matrimonio, per una giovane collega francese. L’abbandono sarà la causa del tracollo psicologico di Mia a cui seguirà la fuga da New York e il ritorno presso la casa nativa e quindi il doppio rapporto con l’anziana madre e le sue amiche e con le sue giovani studentesse del corso di scrittura creativa. La doppia tragedia da cui Mia si deve riprendere, il tracollo psicologico e il tradimento del marito, segnano una necessaria presa di coscienza che l’autrice ci racconta con chirurgica precisione e molta ironia. Un’estate senza uomini diventa per Mia un’occasione non prevista per ridefinire i confini della propria vita.

 

Memoria e interpretazione sono al centro dei dialoghi e degli incontri tra Mia e le anziane signore come tra le giovani studentesse, il lettore si ritrova così a dialogare con un narratore tutt’altro che onnisciente, ma a tal punto sicuro dei propri mezzi da esporre spudoratamente i propri limiti fino a trasformarli in una narrazione letteraria cristallina e lieve, ma il cui corpo cela inquietudini infinite.

 

L’estate senza uomini si rivela essere un tempo a parte della vita come della narrazione in cui è bene fare a meno degli scrittori intesi come l’onnisciente da cui tutto viene e a cui tutto appartiene, una pausa dall’abitudine e dal consueto necessaria per ricostruire le fondamenta di una scrittura, come di un rapporto affettivo, che abbia il proprio spazio nelle possibilità piuttosto che in una ripetitiva e stanca prevedibilità.

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