Speciale

Una conversazione con Totò / “Sono qui pro tempore”

1 Aprile 2017

Lei conosce Pasolini da molto tempo?

No, è la prima volta che ho questo piacere. Ho letto delle sue opere, ma di persona l'ho conosciuto soltanto in occasione di questo film [Uccellacci e Uccellini]. So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema... So che molti colleghi vanno spesso a vedere film...

 

Da che cosa deriva questo suo atteggiamento?...

No, non è una posa. Ma ho un po' di paura che vedendo una cosa che mi piace, io possa essere portato a imitarla: mentre ho sempre cercato di essere me stesso, magari sbagliando...

 

Quindi questa non è una sua diffidenza nei confronti del cinema...

No, anzi, per carità...

 

Sembrerebbe quasi essere, forse, una forma di umiltà eccessiva da parte sua... perché lei ha un nome così affermato...

Ma il pubblico bisogna servirlo! Noi siamo come il padrone di un ristorante, quando entra un cliente... prego, si accomodi, comandi... mentre poi magari il padrone del ristorante a casa sua è un signore, ricchissimo e autonomo... ma io penso che si debba fare così... sbaglierò magari...

 

 

No, affatto, il suo è un punto di vista molto preciso. Ora credo però che il discorso si amplii, e non è male, anzi: allora lei come lo vede un attore... che cosa è un attore per lei, anche nei riguardi della vita di oggi... qual è la funzione dell'attore... quale il suo significato?...

Come mestiere? Non è nessuno, è un cantastorie...

 

È forse un po' poco... 

Sì, ma io penso che sia così. Che cosa rimane di noi? Niente. Chi siamo noi?... Siamo come una cosa voluttuaria che proprio per questo non è indispensabile... Non si può fare a meno del pane, ma di andare al cinema sì...

 

Però sono millenni che il teatro esiste... sono molti anni che esiste il cinema...

È uno svago, una cosa voluttuaria.

 

Forse qualche cosa di più. Ad esempio come funzione sociale il teatro ha una sua...

Spesso... ma il teatro è un'altra cosa, mentre il cinema è spesso soltanto una cosa voluttuaria.

 

Lei è un po' crudele...

Le dirò che anzi spesso il cinema è nocivo, sia per i film sexy sia per i film di brigantaggio, di assassinii, di cose immorali... Naturalmente io posso anche sbagliare, ma ognuno ha un suo modo di vedere... 

 

E allora qual è il vantaggio del teatro nei confronti del cinema?

Il primo vantaggio è che il teatro è educativo, più educativo... Nel teatro, effettivamente, può affermarsi qualcuno. Abbiamo avuto grandi esempi, in questo senso: da Eleonora Duse a Zacconi a Ruggeri... mentre nel cinema scompare tutto.

 

E lei che ha una così lunga esperienza di teatro... in quale stato d'animo era, lavorando in teatro, rispetto a quando adesso lavora nel cinema?

Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato... il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico... si diventa una cosa sola col pubblico. Infatti quando facevo del teatro volevo molta luce, perché mi piaceva vedere la sala, e vedere che il pubblico, la maggioranza del pubblico faceva le facce secondo quello che dicevo io, secondo la faccia che facevo io... Insomma, c'è una comunicazione che si forma con il pubblico, cosa che non accade con il cinema dove c'è solo una macchina, ma non c'è nessuno, ci sono solo uomini che lavorano, che magari mi guardano, ma guardano me superficialmente, come guardano altri... non so se sbaglio.

 

No, anzi, è bello quello che dice...

Poi, vede, in teatro noi modifichiamo le battute, le intonazioni della voce per comunicare col pubblico, e quindi alla seconda, terza recita abbiamo migliorato già tante cose...

 

E la tecnica dell'attore qual è? Voglio dire, per lei che è un attore comico così importante...

Questo è ciò che dicono...

 

No, lei lo è davvero tra i più importanti e non solo in Italia... qual è il suo modo di far ridere? Questa è una domanda che forse le hanno fatto decine e decine di volte... ma qual è la sua tecnica di recitare?

L'istinto. Il comico nasce, non diventa comico. Si può diventare anche un comico per forza, ma allora si è leziosi, si è falsi, mentre il comico è quello istintivo, non c'è niente da fare. Lavorando si apprende il mestiere, questa è un'altra cosa. Io ho una comicità istintiva che porto nel mio lavoro e che all'inizio può non far ridere, ma poi piano piano... come lo scultore che ha un pezzo di creta che plasma piano piano... Penso sia così.

 

E quali sono gli ingredienti che lei usa, per far sì che questa creta diventi opera...

Ci vuole psicologia, tempo, orecchio, senso di misura e qualche altra cosa... queste sono le qualità principali...

 

Forse ci vuole anche l'intelligenza... tra gli altri elementi...

… diciamo che ci vuole anche una certa intelligenza.

 

Beh, occorre anche modestia, da quanto posso constatare...

Eh sì, ci vuol modestia, perché l'attore, come le ho detto prima, è un servitore...

 

Lei insiste su questa linea?

Sì, sì, insisto: l'attore deve essere grato al pubblico, perché questo signore che viene in teatro, o signora che sia, va dal parrucchiere, si fa un vestito, e ci viene a portare il denaro per farci vivere. Quindi si deve essere grati e obbligati verso il pubblico, non si deve essere mai sgarbati...

 

Totò con Anna Magnani, negli anni Quaranta.

 

Vogliamo percorrere un po' le tappe della sua carriera? Lei vuole andare un po' a ritroso negli anni?

L'ho detto diverse volte, sono uscite delle interviste, degli articoli, e questa è una circostanza più importante...

 

Magari lei vorrebbe darmi uno di questi articoli per qualche notizia...

No, in questo momento no. D'altra parte io non conservo niente.

 

Come mai?

Perché io non ci credo più...

 

Sì, ma...

Sono qui pro tempore...

 

Sì ma, tutto sommato, le cose che lei fa, le più importanti possono rimanere...

Non sono un attore che ha studiato, non studio quello che faccio, debbo fare una cosa, vado lì e la faccio. A volte riesce bene, talvolta, anzi spesso, male... e quindi se sono diventato un piccolo nome non me ne sono quasi accorto, uno non se ne accorge. Certo ci ho messo dell'abilità, ma senza sperare di diventare importante. No, questo no.

 

Le dispiace allora voler andare un po' alle tappe principali del suo lavoro?

Ho fatto il teatro dell'arte, in piccole compagnie... e cominciai assieme a Pulcinella, ma non facevo Pulcinella, io facevo il Mametto, con poche battute. Ci radunavamo in camerino, e il capocomico, che era Pulcinella, era seduto, gli attori principali erano seduti, noi ragazzi in piedi. Allora Pulcinella spiegava la commedia, faceva un canovaccio e diceva: «In questo momento io faccio così, tu esci e parli, dici una cosa come “la signora non è venuta”, e qui inventi sul perché non è venuta. Dopo questa battuta esci tu che sei... non so... Sciosciammocca e parli sull'argomento»... Insomma, era un canovaccio sul quale dovevamo ricamare...

 

Lei ne ricorda qualcuno?

Eh sì, La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, e tante altre, naturalmente. Ma sa, ormai sono passati tanti anni... questa vecchia “arte” fa molto bene a un attore per incominciare, perché l'attore si esercita a improvvisare, a parlare...

 

Questo a Napoli?

Sì, a Napoli.

 

E pressappoco in quale periodo?

Beh, questo non lo mettiamo... Gli attori sono come le donne, mi lasci questa piccola debolezza. Io ebbi il piacere di conoscere il grande Zacconi, che aveva, quando io lo incontrai, ottantaquattro anni: e aveva la civetteria, questo grande uomo, di togliersene due, diceva che ne aveva ottantadue. Guardi quant'è bella questa...

 

Ma non volevo risalire all'età, soltanto raccogliere un elemento...

Beh, questa è stata la prima tappa. Poi sono entrato in varietà a fare le macchiette...

 

Il decennio, grosso modo...

Ma... è roba vecchia... Insomma nel 1921 feci un paio d'anni la Commedia dell'Arte, poi fui nel '24,  '25 nel varietà e diventai una vedette, e finalmente ebbi il piacere di passare alla Sala Umberto, poi al Maffei di Torino, al Trianon di Milano e in altri locali di prim'ordine. Poi entrai nella Compagnia Maresca, che era una grande compagnia di riviste ed operette. Dopo feci compagnia per conto mio...

 

Questa è stata una tappa importante allora?...

Sì, è stata una tappa importante... Ma prima ancora entrai in una compagnia dialettale al Teatro Nuovo di Napoli, una compagnia stabile, poi dunque con la Maresca, poi da solo...

 

E la prima compagnia con il suo nome?

Nel '33, '34, '35...

 

Con quale impresario?

Ero io, l'impresario. Gli spettacoli andavano benissimo, ma io rimettevo ugualmente i soldi, perché sa, per fare il capocomico bisogna essere duri, bisogna avere un po' di cuore duro, mentre io quando vedevo che per un artista la paga era scarsa, gli davo di più, e di più a quello, e di più a quello, così non andava avanti e quindi tornai al varietà. Dopo il varietà ho fatto, dal '40, i grandi spettacoli con il repertorio di Galdieri: Quando meno te l'aspetti, Volumineide, Orlando curioso, Che ti sei messo in testa?, Con un palmo di naso, C'era una volta il mondo, Bada che ti mangio, e questo fu dal '40 al '50. Nel '50 lasciai il teatro, per passare definitivamente al cinema.

 

E quali sono le riviste che lei ricorda con maggior piacere?

Erano tutte belle. Bada che ti mangio era straordinaria, e avevo fatto prima Quando meno te l'aspetti, che aveva tutto un significato politico, cioè «quando meno te l'aspetti la sorte muta», e c'erano delle battute che si riferivano al regime di allora. Le ricordo tutte perché erano veramente belle, tutte belle e piene di significato. Del lato comico mi interessavo io, c'erano molti sketch erano miei, e quindi c'era una collaborazione magnifica tra me e Galdieri, il quale si interessava del resto, di tutti i testi, e io mi occupavo della parte comica e gli spettacoli riuscivano abbastanza a colpo sicuro. E poi, in quegli anni, quando c'era un regime che imponeva di non aprir bocca, noi si apriva bocca, magari con la paura, come facevo io...

 

Avete avuto noie?

Di terribili ne abbiamo avute, e una bomba sul teatro, il Valle, tutti i giorni richiami dal Ministero della Cultura Popolare... e come no?! Certo che ne abbiamo avute. Poi, pochi giorni prima della liberazione di Roma ebbi una telefonata dalla Questura e una voce anonima mi disse: «Si nasconda perché verranno a prenderla». Allora io scappai, volevano portarmi al Nord infatti...

 

Avrebbe potuto essere deportato in Germania...

… Le dirò che in quei momenti io ce l'avevo un po' coi tedeschi, e nelle battute della rivista ci mettevo un po' di malignità. Vedevo per strada i rastrellamenti, fucilazioni... certo ne abbiamo passate...

 

Totò, Erszi Paal e Oreste Bilancia in “Fermo con le mani”.


Il cinema non fu però una scoperta improvvisa, per lei...

No, io avevo incominciato nel '37. Nel '37 io alternavo il cinema alla rivista.

 

Il suo primo film è Fermo con le mani, vero?

Fermo con le mani, il mio primo film, è del 1937, quindi vede da allora quanti anni sono di cinematografo. Poi dal 1950 ho fatto soltanto cinematografo. Però ci sono dei motivi. Allora il teatro cominciava un po' a zoppicare, e poi viaggi e debutti che mi stancavano, mentre invece il cinematografo era più comodo, andavo a lavorare come un impiegato la mattina, la sera ritornavo a casa e mi piaceva; ed anche l'aspetto finanziario era più favorevole.

 

E per il cinema, quali sono i film che lei ricorda con più piacere?...

Ne ho fatti centosei, centosette [in realtà novantasette].

 

E quanti ne salva?

Una decina al massimo, il resto è tutto da buttar via.

 

Mi pare che lei sia un po' severo anche questa volta... Ma qual è stato il motivo per cui lei ha fatto tanti film di scarso interesse, di scarsa importanza? Motivi commerciali...

Eh sì. E poi non credo si possano fare tutti film d'arte, specie nel film comico alle volte bisogna anche arrangiarsi col filmetto commerciale.

 

E lei che aveva una personalità così spiccata in teatro ha mai pensato di realizzare lei un film comico? A dirigerlo come regista, voglio dire?

No, non mi sono provato, e non mi proverei mai. Fare il regista è tutta un'altra cosa. Si può essere un grande regista e un modesto attore. Abbiamo tanti esempi, il più grandioso è quello di Talli che come attore era un cane, ma era un grande metteur en scène. Non ci ho mai pensato. E poi c'è un altro motivo: io sono un pigro, sono un uomo pigro, e invece il regista deve alzarsi la mattina presto prima degli altri, poi gli altri vanno a casa a divertirsi o a riposarsi e invece lui deve studiarsi il copione, le inquadrature, ecc.

 

E scrivere invece per il cinema?

Ho scritto qualche sketch, qualche cosa...

 

Soltanto... ma un intero film comico scritto da lei?

Io ho scritto qualche film, ma non porta il mio nome, perché l'ho ritenuto sempre controproducente. E poi molto spesso il nostro pubblico è cattivo... crede che uno voglia darsi delle arie...

 

Però presentandosi con qualche cosa in cui si crede, qualche cosa di valore, non ci sarebbe nulla di male ad affrontare il pubblico...

Ma io ho paura...

 

… Tutti i comici...

Tutti i comici scrivono qualche cosa da sé e sono i migliori autori. Ma anch'io ho fatto qualcosa, senza che il mio nome figuri, ad esempio Totò, Peppino e la... malafemmina, Siamo uomini o caporali e altri ancora...

 

Ma forse varrebbe la pena ancora che lei, vincendo la pigrizia, tentasse di mettersi dall'altra parte della macchina da presa...

No no, non lo voglio fare...

 

Sempre per pigrizia o anche per qualche altro motivo?

Per pigrizia, per paura, per tante cose, per coscienza, per modestia...

 

Ancora oggi, ad esempio, c'è Zavattini il quale – anche a me lo ha detto – rimpiange di non aver fatto mai il regista. Dice: «Non lo farò mai, non avrò mai la forza ed il coraggio di farlo, ma mi rendo conto, nel momento in cui scrivo i miei soggetti, le mie sceneggiature e li consegno a un altro perché li realizzi, anche dandoglieli compiuti, rifiniti alla virgola... che vengono realizzati diversamente da come io...»

Sono d'accordo...

 

«... e allora in me rimane questo rammarico, questo dolore, però non riesco mai a vincermi». E io le ho ricordato questo, perché la sua posizione mi pare simile, in un certo senso...

Sì, credo di sì.

 

Totò direttore d'orchestra nel finale de “I pompieri di Viggiù” (1949).


Quante canzoni ha scritto?

Ne ho scritte una quarantina... ma me le hanno boicottate... e qualcuna è bella...

 

Perché gliele hanno boicottate?

Perché il campo delle canzoni è diventato soltanto commercialistico; si tratta di molti milioni, e si è formata una casta nella quale non si entra...

 

Nemmeno uno come lei, cioè col suo nome, la sua esperienza...

Non guardano in faccia a nessuno. Ad esempio, mandai una mia canzone al Festival di Napoli, la scartarono, allora la mandai al Festival di Zurigo, vinse il primo premio...

 

Qual è, quali sono le sue canzoni alle quali lei è più affezionato?

La prima è Malafemmina, che ebbe un grande successo. Poi ne mandai una al Festival di San Remo e andò in finale, Con te, la ricorda?

 

Sì, la ricordo.

Poi ho tentato anche altre volte, ma non ho avuto successo. Le canzoni non le scrivo per ragioni di guadagno, sono un sentimentale, le scrivo e me le tengo lì.

 

Lei suona qualche strumento?

No, non suono. Ho orecchio, e la mia comicità era aritmetica, la comicità è anche matematica, è aritmetica, c'è poco da fare.

 

Giusto, la comicità, per lei, che cos'è? Sarebbe facile se fosse il risultato di una formula... il fare certe cose per arrivare a quel certo risultato...

Beh, non si impara, per carità; ma la battuta va detta a quel punto, con quell'intonazione, con quella pausa, quell'altra battuta a quell'altro punto. È musica e quindi aritmetica, così come la musica è aritmetica. A volte ci sono attori che non adottano quella pausa, quella intonazione e sciupano la battuta. Tutto questo si ha col mestiere, dipende sempre dall'orecchio, dalla misura.

 

Nel corso della sua attività lei ha avuto con sé attori di vario genere, di vario tipo. Quali sono, secondo lei, quelli che si sono formati a questa scuola, a questo lavoro, col tempo?

Ce ne sono tanti che imitano...

 

Ma più che quelli che imitano, io intendevo quelli che hanno imparato qualche cosa da lei, lavorando con lei...

Questo io non lo so, lo sanno loro...

 

Lei però dal '35 ad oggi nelle riviste, nel cinema, nelle riviste specialmente, ha lavorato con tanti, che poi sono diventati importanti...

Sì, ma non posso dire chi abbia imparato da me. Non saprei dire.

 

Lasciamo stare chi ha imparato... Ma chi ha lavorato con lei in questi anni?

Come spalla Mario Castellani, Eduardo Passarelli, e basta, sempre questi due ho avuto vicino come spalla, affiatati, mi capivano...

 

E qual è la funzione della spalla, così importante per il comico?

È importante sì! È importante la spalla! La spalla segue l'attore comico, si affiata, lo capisce, lo sente.

 

Certo, Castellani ha lavorato con lei per moltissimi anni...

Sì, ha lavorato con me per molti anni sia nel teatro che nei film. In teatro era veramente molto bravo. Io poi quando facevo le riviste non andavo mai a provare, perché io non posso provare, e allora lui provava per me.

 

E perché lei non può provare? 

Non posso provare e le dico perché: sono, direi, spontaneo, un istintivo, e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica e il risultato è qualcosa di meccanico, non più spumeggiante. E così io andavo sul palcoscenico gli ultimi due giorni, gli ultimi tre giorni, per vedere solamente le entrate e le uscite, senza sapere una parola del copione, andavo molto a orecchio, a suggeritore, e poi il secondo giorno io toglievo il suggeritore, lo mettevo tra le quinte, e poi dopo tre o quattro giorni spariva del tutto. Quindi io all'inizio recitavo sul suggeritore e tutto quello che mi arrivava era quasi nuovo, e su quel nuovo andavo avanti e recitavo e andavo avanti e fissavo i lazzi. Infatti la prima sera lo spettacolo andava benissimo, la seconda calava, la terza calava ugualmente, la quarta incominciava a salire perché si piazzano tutte le battute, tutte le intonazioni e così via...

 

Però dopo diventa un copione. Cioè lei all'inizio non conosce il copione, però dopo se lo rifà...

Sì, col suggeritore che scriveva, prendeva appunti. E il copione diventava copione sul serio, non più un canovaccio. Lo sketch del vagone-letto, non so se lei lo conosce...

 

Sì, lo conosco...

Ebbene, quello durava dieci minuti la prima sera, dopo tre mesi durava un'ora, tutto lazzi e battute.

 

Isa Barzizza, Mario Castellani e Totò in “Totò a colori” (1952).


Si era arricchito sera per sera...

Sì, perché il comico, quando è un comico, non ha bisogno di tutte le battute scritte, ma gli basta un canovaccio sul quale crea davanti al pubblico; se la battuta non vale si cambia e poi si ricambia finché ha il suo effetto e la si fissa.

 

E il pubblico?

Io mi adatto, al pubblico, e ho la fortuna di piacere sia a Trento che a Trapani, ma ogni pubblico è diverso. A Milano è più posato, a Bologna più frizzante. Quando mi trovavo in scena cambiavo sempre i lazzi a seconda se ero in Romagna, a Firenze, a Napoli. Naturalmente questo non per ragionamento, ma perché sono cose che si sentono, perché l'attore comico quando ha il suo pubblico va in trance, non capisce più niente.

 

E allora anche per questo lei ha trovato una certa freddezza nel lavorare in cinema?

Sì.

 

E come mai con tutto questo le ha fatto soltanto cinema, da sedici anni?

Beh... beh... dovrei dire che un po' di cervello in testa ce l'ho. Poi vede, quelli che vengono dal teatro vanno bene in cinema, perché hanno esperienza, abbiamo una carriera, abbiamo le fondamenta.

 

Vogliamo ricordare questi ultimi tempi del cinema? Quali sono gli ultimi film che lei ha interpretato?

L'ultimo, prima di Uccellacci e uccellini, è stato La mandragola.

 

E prima di quello? 

Prima di quello ho fatto un brutto film che non voglio nemmeno nominare, è uno di quelli brutti, e poveracci mi fanno pena. Io sono attaccato a Guardie e ladri, non so se l'abbia visto, a Yvonne la Nuit, Napoli milionaria, L'oro di Napoli, con lo sketch del pazzariello, questi sono dei bei film. E in Totò cerca moglie c'era uno sketch che mi riuscì molto bene, poi Siamo uomini o caporali, Totò, Peppino e la... malafemmina...

 

Allora La mandragola e poi questo Uccellacci e uccellini. De La mandragola lei conosceva qualche edizione teatrale, per il ruolo del suo personaggio?...

No, ma ho capito subito che cosa fosse il personaggio, personaggio difficile perché si può scivolare e andare nel volgare, nel pornografico, e allora occorre controllo. Difatti, non so se lei lo ha visto, ho cercato di essere misuratissimo, perché è pericoloso, perché è un frate vero, non un frate falso, e quindi un frate vero può fare certe cose, ma certe altre non può farle... Questo frate poi ha una sua psicologia, è un avido, uno spregiudicato, uno spudorato, è un falso bigotto, è bigotto, non si capisce che cosa è perché ha in sé tanti stati d'animo.

 

Sergio Citti, Pier Paolo Pasolini, Castellani e Totò sul set di “Uccellacci e uccellini”.


E poi, dopo, Uccellacci e uccellini: perché crede che Pasolini abbia pensato a lei?

Lui intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me.

 

Dicendole che cosa? Come le ha spiegato il personaggio?

Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi così, così e così». Ma non so cosa ci sia prima e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo e in una intervista mi ha chiamato... ha detto che sono come uno stradivario... Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una grande fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione. 

 

Può farmi l'esempio di una scena che ha girato?

Un esempio come? È una parola. Lei si riferisce ad uno stato d'animo?

 

Anche... Vogliamo ricordare una delle scene che lei ha girato?

Sì, sì, sto pensando, ma sono tutte così brevi. Per esempio in un episodio io vado da una famiglia poverissima perché debbo riscuotere dei soldi, da una donna che farebbe pena a chiunque, e invece io sono duro, cattivo, la voglio mandar via, voglio sfrattarla. Poi vado da una persona alla quale sono io che debbo dare dei soldi, e sono umile e pietoso come quella donna.

 

Quindi lei nel secondo momento mette in pratica un po' di quello che ha visto nel primo...

Naturalmente, però rifatto alla mia maniera. Quando la donna parla, nel primo punto, sono duro, freddo, non me ne importa niente che non abbia soldi, che siano dei disgraziati, mentre poi in un secondo tempo quando vado da un proprietario, da un signore al quale debbo dare dei soldi, allora faccio come quella donna, naturalmente alla mia maniera.

 

Ho visto in proiezione alcune scene, con una fotografia molto bella, in aperta campagna...

Sono state scene faticose, molto faticose; camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili. Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui, perché poi i risultati sono molto belli, non sono comuni.

 

Dove avete girato? 

In campagna, vicino a Roma. Ad esempio a Tuscania, ma naturalmente non in paese, ma in mezzo alla campagna, in mezzo ai boschi più impensati; poi all'Alberone, poi dalle parti di Fiumicino... cose terribili. Pensi che in una scena io avevo soltanto un paio di zoccoli, un saio di sacco che lasciava passare vento e freddo con la tessitura così rada. Gli zoccoli sono duri e pesanti, e poi l'altro giorno, con la melma, ogni zoccolo pesava venti chili, impregnato di fango, di creta...

 

Lei crede che il personaggio di questo film sia simile ad altri che lei ha già ha interpretato?

No no no. È tutto a sé. I miei, qui, sono personaggi astratti e concreti, che hanno dell'umanità ma certe volte non ne hanno.

 

Perché sono varie figure che lei interpreta...

Sì, tre: io sono un domatore [in un episodio poi tagliato dalla versione definitiva del film], un frate francescano e un poveraccio con un corvo. Tre personaggi con tre stati d'animo differenti l'uno dall'altro, però simili.

 

Peccato che lei non conosca Accattone, La ricotta, Il Vangelo.

È meglio, penso sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile...

 

Vuole dire alle soluzioni che le sono suggerite?

Eh sì...

 

Ma lei crede che il fatto di questa sua origine nella Commedia dell'Arte, di avere un animo napoletano così ricco di fantasia, di colore, abbia influito molto nella sua vita di attore?

Certamente sì. È la scuola migliore perché nata dalla vita. È un'esperienza innata, insieme con l'esperienza che poi si acquisisce...

 

Pasolini dice che lei è un uomo di grande umanità, di grande simpatia umana e di grande carica umana. E questo credo sia giustificato e provato da quelle che sono le sue vere caratteristiche...

Beh, come uomo cerco di essere buono. Lo dico da me, ma è così, anche la vita che faccio lo dice. Non esco, sono casa e lavoro, casa e lavoro. Un po' come un frate in borghese.

 

Come un impiegato col suo lavoro. Mi sembra che sia il modo più serio per fare la sua professione. 

E questo si sa in giro, che io lavoro con serietà.

 

E anche, e del resto lei ne è una prova, il comico è spesso timido e amaro, in fondo...

Sì, è così. Io cerco di non dirlo perché sembra una posa. Ma è proprio così, si nasce così; come uno nasce comico, ed è tragico e serio, è triste e malinconico insieme.

 

E le regole del mestiere sono sempre le stesse?

Sì, le regole, i canoni sono sempre gli stessi, c'è poco da fare. Si cambia il costume, si cambiano i fatti, ma i canoni della comicità rimangono sempre quelli, non esiste il comico moderno. Quello che dice di essere un comico moderno è uno che non fa ridere. Ha imparato a dire delle cose, magari ha lo scilinguagnolo, ma non è un vero comico. Il comico è d'istinto e deve avere tutto comico: la faccia, le orecchie, il naso, le mani, tutto, deve essere perfetto. Non è d'accordo?

 

“Il più comico spettacolo del mondo” (1953).


Perché, al momento in cui si fa ridere, si inietta nel pubblico un tanto di amarezza e di dolore, e anche i suoi personaggi migliori infatti hanno questa componente...

Se io vado in scena e dico: «Mia moglie mi ha fatto le corna ed è scappata di casa, sono tre giorni che non mangio, sono andato sotto il tram e mi sono spezzato una gamba», il pubblico ride.

 

È vero. E perché ride? Perché lei dice tutto in un certo tono...

Lo dico in un certo tono... Però in fondo all'umanità c'è un briciolo di cattiveria, si gode delle disgrazie degli altri. Per esempio il cornuto fa ridere; il cornuto è un elemento da pochade perché fa ridere,  mentre la sua è una disgrazia. Io non rido se vedo una commedia dove c'è un cornuto, ma piuttosto dico: «Ma guarda quel poveraccio, quella schifosa della moglie». Questo lo pensa il comico, perché è nato triste. La massa no, la massa ride. E così uno se cade per strada, fa ridere, se in palcoscenico l'altro gli dà una botta in testa il pubblico ride, e avviene sempre così delle disgrazie. Perciò la comicità nel tempo è sempre la stessa, dipende da come la si presenta, come la si porge.

 

Lei ha forse un po' il rammarico, ora, di avere avuto eccessiva indulgenza nei confronti di un certo tipo di cinema così dozzinale, in fondo, come quello cui in prevalenza si è dedicato?

Senz'altro, perché avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto, e invece, vede, per questo ho fallito, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. Io con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di diventare internazionale. E ho fatto male. Un po' per pigrizia, un po' per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre, perché rientravano bene nei costi. Quindi, siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un'altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hanno gli americani, i quali fanno i film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono avere successo all'estero perché nella traduzione il significato si perde. E siccome il film deve durare un'ora e mezzo e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e Ollio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l'altro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono sia sufficiente buttare giù delle pagine.

 

Eh sì, mi pare lei abbia individuato bene alcuni dei motivi della mancanza della diffusione all'estero di un successo che in Italia è stato così clamoroso...

Una volta ho interpretato Totò sceicco, c'era un personaggio che si chiamava Omar, e io dicevo: «Omàr, Omàr, vide Omàr quanto è bello», e qui veniva la risata. Una sera sono andato a Nizza al cinematografo dove era proiettato questo film e la battuta, tradotta letteralmente, per forza non faceva più ridere, perché se ne era perduto il senso. È una questa, ma una fra le tante...

 

Ha mai pensato di lavorare in televisione?

Non mi piace la televisione. No, non ho mai pensato di lavorare in televisione, ho sempre scartato l'idea.

 

Per quale motivo?

La televisione serve molto ai giovanissimi, che in un momento, in una settimana vengono conosciuti da tutt'Italia. Ora io non so se poi rimangano, o se si esauriscano, si brucino. Ma un attore che è conosciuto da tanti anni, che da anni e anni sta sulla breccia, la sua fama se la deve un po' tutelare facendosi vedere il meno possibile. 

 

Ma non potrebbe fare lei una proposta...

No, non vado d'accordo con la televisione. Poi, come le dicevo, non tutte le ciambelle riescono col buco. Quando si fanno tre, sei, sette, dieci, dodici trasmissioni, finché va bene la cosa è buona, si accontenta il pubblico, ma appena si sgarra di un ette allora subito: «Che barba... chiudi...»... E poi io sono nato libero e dover dire le battute che sono quelle, guai se si dice altro, lo sento come una camicia di forza che non posso sopportare...

 

Comunque io credo che varrebbe la pena di fare un tentativo in questo senso, e spero che un giorno ci sia un incontro fortunato tra lei e la televisione, per arrivare ancora una volta a un vastissimo pubblico...

Lei lo definisce fortunato, io la ringrazio...

 

Perché non incide un disco con i suoi sketch, un disco che magari raccolga anche le sue canzoni, le poesie? Gli unici ricordi obiettivi che ci rimangono di Petrolini sono i pochi brani che lui ha inciso...

 

Che cosa le posso dire? Sono un comico che improvvisa, se dico una battuta la dico così perché mi viene di farlo. Ho fatto ridere per anni dicendo «a prescindere»: ora, che cosa c'è in “a prescindere”? Se lei legge la parola, è una battuta da ridere? No, eppure io ho fatto ridere. Ho fatto ridere dicendo «è ovvio», dicendo «siamo uomini o caporali?», e che cosa significa? Niente, e ho fatto ridere.

 

Intervista apparsa per la prima volta nel volume Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, a cura di Giacomo Gambetti, Garzanti, Milano, 1966, con il titolo Intervista con Totò, uomo di due secoli. Le note fra parentesi quadre sono di Gabriele Gimmelli.

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