Tecniche di produzione del vuoto

16 Agosto 2012

Certo, era difficile aspettarsi che Marcello Veneziani potesse gioire per l’uscita di Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, il libro di Furio Jesi che Nottetempo presenta ora in una nuova edizione accresciuta: “è un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni settanta con un trattato di criminologia culturale”, ha scritto. Eccolo dunque agitarsi nei modi consueti (anche perché nessuno cita i suoi antichi studi evoliani) e nell’agitarsi prende alcune grosse cantonate (per esempio attribuendo al sottoscritto curatore le parole dell’autore). Una frase più di tutte lo addolora: l’odierna cultura di destra - dice Jesi – “è caratterizzata (in buona o cattiva fede) dal vuoto”. Verità dura da sopportare. Specie se dopo tanti sforzi per darsi un tono da terzo millennio, dopo tante illusioni di aristocratica grandezza (Spengler, Schmitt, Pound... sì, magari) e sogni vaghi di “comunità”, si notano più che altro, dietro una certa destra di questi giorni, carte tossiche e ingiallite, nonché brodaglie di muffa ideologica: dal “razzismo spirituale” e dall’esoterismo triviale di Julius Evola all’Intervista sulla Guardia di ferro di Horia Sima. Persino i più recenti miraggi (“la vera cultura di destra vive sotto falso nome, si è spostata su piani diversi, impolitici”) ripetono a noia la ricetta evoliana dell’apolitía.

 

L’atmosfera è sempre la stessa, vuota anche di sorprese, quella che proprio Jesi ha descritto come un “immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva e perenne”. E tuttavia gli attacchi e il discreto polverone che accompagnano ogni edizione di Cultura di destra non vanno trascurati. Dimostrano l’attualità del libro, certo, ma svelano soprattutto affinità più pericolose e a prima vista meno chiare. Da chi sono venuti, questi attacchi, nel corso degli anni? Non sempre dai nostalgici dalla nascita, ma anche da chi ha voluto affermare da un punto di vista post-marxista l’inadeguatezza delle categorie di destra e sinistra. Come rispondere a questa posizione, che parrebbe più seria e plausibile? Citando le parole con cui Jesi concludeva un’intervista ora riproposta nell’edizione Nottetempo: “Ho qualche dubbio circa la possibilità di applicare oggi, in Italia, la distinzione tra destra e sinistra, non perché in astratto io la ritenga infondata ma perché non saprei bene quali esempi di sinistra citare (se la destra è quella che dicevo)”. E poiché “la maggior parte del patrimonio culturale è residuo della destra” appare “inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano”.

 

Occorre allora riprendere davvero l’analisi minuta con cui Jesi illustra le tecniche di produzione del vuoto, ossia di una lingua falsamente chiara, che non richiede di essere compresa ma vuol essere imitata, che anzi viene tanto più assimilata quanto meno viene capita. È uno degli insegnamenti che si possono oggi trarre dal libro: il controllo del nostro linguaggio politico resta un compito essenziale. La cultura di destra, d’altro canto, ha avuto sempre bisogno di una fitta trama di stereotipi o parole “con l’iniziale maiuscola”. Nomi come “Popolo”, “Vita” ma - precisa Jesi - anche “Libertà” e “Giustizia” sono ben poco innocui e sempre pronti a farsi tramite dei sogni politici più nefasti. Sono però nomi ancora troppo ricorrenti nei discorsi di chi oggi di destra non intende proprio essere, e che scandiscono addirittura il discorso di chi vorrebbe impersonare la novità della sinistra. Isolare per quanto possibile questi detriti non è solo un’operazione urgente, è anche quel genere di operazione che ogni forma di fascismo, per quanto tendenziale e mascherato, non potrebbe mai compiere.

 

 

Articolo tratto da il Manifesto, 29 aprile 2011.

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