Tra innocenza e tragedia. Un dibattito tra generazioni

Igino Domanin

Nel segno del Post e non di un Inizio

 

Raccontare è prendere posizione sul terreno minato della Storia, spingendosi fin là dove la Storia prentende di aver ammutolito il proprio senso, di essersi votata, cioè, alla propria cancellazione ed estinzione, al proprio volontario suicidio. Questo motivo mi ha spinto a comporre uno degli episodi narrativi di Festa del Perdono, ed è anche il leitmotiv che riconosco nelle altre tessere di questo libro.

 

Festa del Perdono è una scena milanese, che, come ricorda Raccis, esiste e fa da sfondo a una vicenda che attraversa intere generazioni. La nostra, come la sua, come quella di supposti padri. In questa vicenda di confronti generazionali, in cui tutto sembra muoversi, tutto alla fine torna uguale e commensurabile e, perciò, suona come un disco rotto: l'eterno ritorno del tempo della giovinezza e degli studi.

In fin dei conti Raccis intende, retoricamente, Festa del Perdono come un topos, un luogo intensamente simbolico e vissuto che funge qui da catalizzatore di esperienze e di memorie, di aspettative e d'inquietudini che identificano una generazione.

Sì, certo fu il luogo dove avrei potuto raccontare, per esempio, di come una mattina, durante la Pantera, mi trovai sveglio sopra una cattedra, mentre gli altri studenti stavano per entrare a far lezione. Avrei potuto riferire delle chiacchierate vacue con docenti più esperti di Paperopoli che di epistemologia , o dei tentativi vani di arrotolarmi le maniche della giacca fin su i gomiti o della moda degli orribili papillon con la chiusura in velcro. Tutto questo, dalle calze a rombi alle camicette di Naj-Oleari, in effetti è stato.

 

In realtà, però, non mi riconosco affatto in questo sapore domestico. Per me raccontare Festa del Perdono non è corrisposto alla ricostruzione di nulla di memorabile. Per me Festa del Perdono è stato solo un luogo di transito e non di azione, forse addirittura un vuoto che nessuno ha potuto occupare. Uno strappo, insomma. Il passato che, infatti, mi è venuto incontro mentre scrivevo il mio pezzo (volutamente, perciò, del tutto ellittico rispetto alle fissazioni del ricordo: il periodo universitario, nel mio caso, compare solo per due brevissimi lampi) non era qualcosa che andava ristabilito e rammemorato.

Mi accostavo invece, con la mente, alla fisicità di Festa del Perdono, ai suoi chiostri e alle sue aule, come visitando un'area di scavi, una zona archeologica, un deposito di rovine. Mi attraeva l'insorgenza monumentale dei crolli e delle macerie depositata dalla furia del tempo della Fine della Storia.

  

Durante la scrittura del mio racconto mi appassionavo, perciò, alle emergenze improvvise e inconsce, alle cifre simboliche degli anni ottanta, alle sue fluorescenti e ambigue icone. Mi chiedevo se e come esse fossero capaci d'irradiare ancora un senso inaudito e attuale.

Se fossero, quindi, in grado di spiegarci, hic et nunc, la nostra posizione nel mondo di adesso.

 

Non credo di aver scritto su Festa del perdono per rievocare alcunché; non si è trattato né di nostalgia né di lamento, tutte categorie sentimentali, estranee alle cieche e testarde determinazioni della Storia.

Nessuno, ritengo, nemmeno degli altri autori, ha inteso celebrare la Fine della Storia, che fu proclamata in quegli anni, poiché nessuno mi pare si sia rattristato di quel che si smarrì del torbido protagonismo delle generazioni precedenti. Tutto al contrario. Al contrario di ciò che imputa Raccis.

 

A mio avviso, quel che importa è, invece, capire sul serio come quella congiuntura non fosse, come ingenuamente ancora ci si ostina ad accreditare, nel segno del Post, piuttosto in quello assai più inquietante di una Origine e di un Inizio. Sì, perché stava capitando che in quel frangente temporale inaspettato, mascherato dal disimpegno e dall'individualismo, si aprisse un diverso orizzonte storico e si manifestassero, in una maniera sorda e incombente, delle diverse e spiazzanti ragioni della condizione umana.

Per questo motivo gli anni Ottanta non sono stati affatto archiviati e superati..Tutti noi stiamo in quel solco non riconosciuto, che, insistentemente, ma perentoriamente, ha continuato a scavarsi fin da allora, e ci muoviamo ancora nella scia, un po' fantasmagorica, di quei rivolgimenti intellettuali ed estetici.

 

La consapevolezza di questo smottamento, però, non significa un'adesione acritica ai valori superficiali che quell'epoca propose.

La posizione intellettuale che sostengo è diversa. Si tratta, per noi che siamo ormai nel secondo tempo dell'esistenza, che stiamo navigando verso i cinquant'anni, di riscattare una comprensione tragica dell'appartenenza a quell'orizzonte storico, di svolgere fino in fondo la rilevazione della contraddittorietà implacabile che si confisse e si configge nella biografia di una generazione.

Nessuno ha pensato di assolversi. Nella condizione storica ciò che importa, infine, è solo l'abbattersi della colpa su chi ha vissuto nella sua pancia.

 

Chiunque finga di volersi riprendere in mano il senso della Storia con l'invocazione di una stolida responsabilità moralizzatrice si consegna a una grottesca e compiacente inettitudine. Della condizione storica non ci si può appropriare, ma si deve soffrirla e, semmai, rivoltarsi, stando ben saldi, coraggiosamente, dentro di essa. Altrimenti ci si comporta ipocritamente, come fecero gli ormai evaporati sessantottini, col loro richiamo all'impegno, all'azione collettiva, al progetto: parole svuotate, caduche, menzognere.

 

La mancanza di un senso tragico degli eventi e la presunzione d'innocenza mi mettono in sospetto. La preghiera di chi invita a voltar pagina è superstizione. Solo chi rimane tenacemente attaccato all'immanenza di una visione profana può ancora avere la chance di giudicare laicamente i fatti, senza lodarli e senza annullarli. Cosi come si presentano ancora nella narrazione: brutali e ambigui, non ancora assodati e masticati.

Può, quindi, far ancora buon uso della Storia solo chi sa di appartenergli fin al giungere dell'ora della sua Fine.

 

 

Giacomo Raccis

Il comico è inseparabile dal tragico

 

Cerco di rispondere alla replica di Igino Domanin al mio intervento su Festa del Perdono.

 

Prima di tutto, però, credo che sia necessario disinnescare lo schema tribunalizio che si vuole dare al mio intervento, del quale andrebbero quindi verificate patenti di legittimità e autorevolezza. Niente di tutto questo. Ho letto un libro, ho trovato spunti interessanti per un discorso che da quel libro uscisse, ma le pagine dei racconti contenuti rimanevano il mio termine di riferimento.

 

Allo stesso modo, credo che andrebbe quantomeno smussata quella pretesa di parlare “dalla parte della Storia” che mi si vuole imputare e che non riconosco nelle mie parole, dove l’invito a un atteggiamento diverso nei confronti dell’esperienza e del mondo si accompagnava alla constatazione di un orizzonte di attesa condiviso tra la mia generazione, quella degli autori di Festa del Perdono e le generazioni comprese tra questi due estremi.

 

Al contrario, assumo tutto e rivendico con forza il peso dell’invocazione a una responsabilità moralizzatrice, che, a rischio di apparire “stolida”, vorrebbe proprio mettere in guardia dalle retoriche del tragico, dalle metafisiche della sofferenza e dell’inadeguatezza che oggi sono appannaggio della generazione di Festa del Perdono. E per questo mi stupisce che, tra gli autori del libro, a parlare dell’“immanenza di una visione profana” e della necessità di un giudizio “laico” sia proprio chi a quelle retoriche attinge con più convinzione, evidentemente non riconoscendo come la demarcazione di una distanza assoluta, incommensurabile tra la condizione dell’uomo contemporaneo e i consueti strumenti ermeneutici sia solo il primo passo verso l’elaborazione di un culto dell’io contrito e martoriato, escluso e votato al fallimento.

 

È un po’ che leggi con nettezza i segni del tuo distacco dalla realtà, uno scollamento, una incrinatura, che compromette ogni tuo gesto e ogni tua relazione con le cose. Il mondo è lì davanti a te, ma tu non puoi raggiungerlo. Sei un apolide espatriato in un mondo chimerico di sogni e visioni definitivamente sganciato dalla realtà. Ti daranno il permesso di soggiorno che pretendi dalla vita?

 

Che cosa, di queste parole che possiamo leggere nel racconto di Domanin, lascia intravedere l’inquietante Inizio che sempre Domanin ravvisa in quegli anni Ottanta che varrebbe (e probabilmente vale) la pena scandagliare? Che cosa fa di questa condizione un’Origine, il baluginare di un nuovo orizzonte storico, e non piuttosto l’assolutizzazione definitiva di un Post su cui oggi si reggono tanti paradigmi interpretativi?

 

“Le parole, soltanto le parole” si potrebbe dire, parafrasando l’ultimo Raimo. Domanin dice che avrebbe potuto parlare di altro, dell’università e della Pantera, degli ultimi sussulti di un’idea di impegno collettivo, di lotta ideologica. Ma non l’ha fatto. E in Festa del Perdono noi leggiamo il racconto di un padre incapace di costruire una comunicazione di gesti o di parole con le figlie e con la moglie. Un padre che ha bisogno di ritagliarsi spazi privati per riconoscere un’intimità confortevole; un padre chiuso in se stesso, nell’autismo di autodifese elaborate prima e a prescindere da qualsiasi vincolo genitoriale. Un padre fallito, in definitiva. L’ennesimo.

La narrativa italiana di questi anni pullula di pagine come queste: rivendicazioni di risentita estraneità al presente e ai suoi riti, dietro cui si nasconde, in realtà, un’autolegittimazione a soccombere, a sconfiggersi prima che il tempo sconfigga. I toni si caricano, la normalità si fa estrema, il tragico è pronto a irrompere, ammantando la condizione umana dello stigma dell’irreversibilità, dell’immedicabilità e di tutto ciò che esonera dalla possibilità di intervenire, di cambiare.

Allora, se alle mie parole è imputabile “la mancanza di un senso tragico degli eventi e la presunzione d'innocenza”, ecco, io sono convinto che dall’altra parte – con sfumature molto diverse da autore ad autore – troppo spesso si sfori nell’eccesso opposto. Tragedia e colpa come formule-lasciapassare per lo svaporamento del senso, per l’azzeramento del giudizio.

 

Diceva Emilio Tadini che «il comico è inseparabile dal tragico». E allora, se il paradigma tragico serve a mettere a distanza, a rendere definitivo il senso, a marcare d’irreversibilità il destino dell’uomo, ciò di cui avremmo bisogno oggi, trentenni e cinquantenni indistintamente, è un po’ di senso comico, che ci permetta di guardare in faccia quel Niente in cui sono inscritte le nostre vite. Privata del suo assoluto, inserita in un sistema variabile di distanze chiamato Storia, la condizione dell’uomo contemporaneo tornerà così a farsi oggetto di scambio e comprensione.

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