Transculturale: una nuova rivista di etnopsichiatria

28 Febbraio 2023

È uscita, presso la casa editrice Mimesis, una nuova rivista cartacea: Transculturale. È bello pensare a una rivista cartacea e ancor più bello sperare di trovarla all’ingresso di una libreria in centro, come accadeva un tempo con riviste come Quaderni Piacentini o La critica sociologica. Oggi non accade più, e non solo in Italia; anche a Parigi e a New York, neppure presso le città e le aree universitarie. È come se le librerie si fossero rattrappite, per trovare le poche cose interessanti rimaste bisogna salire i gradini, andare in fondo. Non tutte, per carità, ma le librerie di una volta si sono magari rifugiate in zone periferiche, marginali. Ricordo, all’ingresso delle librerie francesi: Tel Quel, Les Temps Modernes, oppure, per esempio ad Amherst, nel Massachusetts, Monthly Review, The Nation, The New Yorker. Cibo per la mente. 

Transculturale è diretta da Alfredo Ancora e Raffaele Tumino. Ancora si occupa di un filo che annoda l’etnografia con la psichiatria, comunemente chiamato etnopsichiatria, è autore di diversi lavori in questo campo e studioso del pensiero e dell’opera di George Devereux, il fondatore di quel campo di pratiche cliniche definite variamente come etnopsichiatria o etnoclinica. Tumino è un noto studioso e ricercatore nell’area dell’antropologia, ha inoltre di recente scritto, insieme a Carla Eugeni, un saggio su Adelmo Sichel intitolato La dolcezza psichiatrica, uscito nel 2021 per Aras.

Il primo numero di Transculturale contiene, tra gli altri, due saggi in lingua francese. Ammiro la scelta multilinguistica senza traduzione, richiede al lettore un maggiore sforzo, spesso la necessità di una lettura collettiva, ma sprigiona una riflessione babelica, giacché il pensiero possiede sempre una foggia linguistica che lo indirizza e lo devia verso espressioni di colore differente, producendo sempre nuovi innesti di desiderio. 

Tra chi scrive in questo primo numero c’è Ghita (Rita) El Khayat, psichiatra e psicoanalista marocchina di cui ricordo, tra gli altri, il libro Une psychiatrie moderne pour le Maghreb, edito da l’Harmattan nel 1994; testo che acquistai e lessi voracemente durante una visita in Marocco, molti anni fa. A partire da quegli anni, El Khayat è una delle intellettuali più importanti che – insieme a Fatima Mernissi, scrittrice sua conterranea, Neja Zemni, psicoanalista di Tunisi, Mervat Nasser, psicoterapeuta egiziana, e molte altre – popola il panorama clinico e letterario del Nord Africa. 

Della scrittrice di romanzi Fatima Mernissi ricordo un saggio che mi colpì già nel titolo: La peur-modernité, intraducibile in italiano (la paura-modernità?), in cui l’autrice tratta, tra l’altro, dell’uso del metodo piagetiano per l’insegnamento del Corano; Neja Zemni invece racconta la cronaca di un’analisi senza divano attraverso la storia clinica di un paziente schizofrenico a Tunisi, ospedale un tempo diretto dallo psichiatra antillano Franz Fanon; Mervat Nasser infine sviluppa, in diversi testi, una riflessione sul corpo femminile e il disordine alimentare in culture e mondi differenti. 

La scelta di far aprire questa rivista a una donna araba e africana è straordinaria. Si tratta di un’intervista sulla psicoanalisi, e sulle tendenze passatiste del mondo arabo, il testo s’intitola “Questions”. 

Per El Khayat, la psicoanalisi s’innesta nel mondo arabo attraverso la lingua francese, che, a sua volta, non è lingua originaria del pensiero e del movimento psicoanalitico, nato in ambito germanico. Tuttavia le differenze linguistiche hanno coadiuvato la psicoanalisi che, attraverso il riconoscimento dell’inconscio come fenomeno universale, benché foggiato in maniere linguisticamente diverse, permette alle proprie categorie conoscitive di essere applicate in ambiti culturalmente eterogenei. El Khayat cita come esempio il lavoro terapeutico con i sogni e la realtà psichica che Georges Deverux condusse negli Stati Uniti con un uomo appartenente a un gruppo etnico di indiani nord-americani. 

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L’etnopsichiatria riconosce dunque una base universale nel mondo onirico e protomentale, non è relativismo culturale. Secondo El Khayat però assistiamo a un certo attaccamento del mondo arabo a modi esoterici di guarigione che sovente hanno valenza misterica, pratiche stregonesche e oscurantiste – ancor oggi seguite da molte persone, anzi tendenzialmente in crescita – in cui ciarlatani, guaritori e marabù approfittano dell’ingenuità altrui e alimentano conflitti e dicerie devastanti per la psiche e socialmente nocive. 

Le nuove tendenze psicoterapeutiche nord-americane e l’uso del DSM come manuale diagnostico hanno contribuito a loro volta all’abbandono delle pratiche classiche della psicoanalisi, costringendola ad adeguarsi ai nuovi bisogni che, a loro volta, sembrano esprimere anche nuove forme del desiderio. Forse il rischio che corre la psicoanalisi è di venire schiacciata tra l’avvento di pratiche scientistiche di matrice anglosassone e pratiche esoteriche tradizionaliste. In questa intervista El Khayat rilette sull’insieme di queste dinamiche storico-sociali, dal punto di vista di una psicoterapeuta che vive e lavora in un’area considerata, in modo pregiudizievole, a margine del mondo. Viene da pensare che finalmente queste voci prendono influenza e ci mostrano qualcosa che, dal centro del mondo, rimane invisibile e insondabile.

Il testo successivo, altrettanto interessante, è un saggio di András Zempléni, psicologo e antropologo, direttore di ricerca onorario al CNRS. Zempléni racconta gli inizi della sua formazione come antropologo a Dakar attraverso una ricerca sul campo, in un Senegal in piena trasformazione sociale, durante gli anni Sessanta, presso il servizio psichiatrico fondato dall’altro grande fondatore dell’etnopsichiatria: Henri Collomb. Zempléni indagava, a quell’epoca, le pratiche terapeutiche locali, che i medici e gli psicologi ancora non comprendevano; le cure tradizionali praticate tra le popolazioni wolof venivano integrate ai metodi di cura occidentali, ma non era semplice. Mi permetto di tradurre un passo del suo saggio:

“A Dakar ci confrontavamo immediatamente con la complessità dei problemi medici, psicologici, sociali e culturali emergenti dalla sofferenza psicosomatica che non potevano essere avvicinati da una sola prospettiva, sia essa etnologica, medica o sociologica. Ecco perché mi sembra utile ricordare i metodi inventati da questa équipe.”

La prospettiva etnologica, etnografica, etno-metodologica, o comunque si voglia definirla, è una prospettiva di osservazione che attraversa le culture; non le tiene separate, ma neppure le annienta in una prospettiva universalista – le culture non esistono – o globalista – le culture sono tutte eguali. La prospettiva transculturale osserva i dettagli, gli aspetti singolari, che sono tali non perché sono unici o irripetibili, ma perché destano curiosità, risvegliano la meraviglia dell’evento. Potrei continuare ripercorrendo la sintesi dei saggi a seguire, ma non voglio rivelare al lettore altri testi interessanti del primo numero di questa rivista. Mi preme scrivere di Transculturale, e del bel logo che contrassegna la rivista, per plaudire al coraggio dei due direttori e dei redattori nell’avere intrapreso un’opera importante sul piano letterario e clinico. 

In questi trent’anni di Occidente, non abbiamo solo assistito agli arretramenti cognitivi e culturali che ci hanno riportato alla soglia delle barbarie, da Miloševič a Putin, abbiamo anche assistito all’avvento di studi e di studiosi provenienti dal Terzo Mondo che sono stati d’insegnamento e ci hanno svegliato da un etnocentrismo culturale tossico: la letteratura post-coloniale, la filosofizzazione dei temi di gender e del femminismo – che non sono più solo rivendicazioni politiche – il pensiero intorno ad Antropocene, la scoperta delle influenze artistiche, musicali, scientifiche di modi di pensare altri, fino a concepire concetti apparentemente astratti, provenienti dalle discipline matematiche, fisiche e chimiche, in maniera nuova e diversa. Tutto ciò è Transculturale; come a corroborare che il pensiero è collocato, in quanto punto di vista sulla realtà, nei luoghi marginali del dissenso. Il paradigmatico è diventato sintagmatico e la caduta del cielo, per ricordare il titolo di un enorme volume redatto dallo sciamano yanomani Davi Kopenawa e dall’antropologo marocchino Bruce Albert, è avvenuta. Ben oltre la fine del mondo, Transculturale si riferisce ai mondi locali, spazzati via dalla globalizzazione, ma che rinascono e saranno le linee di fuga del divenire: là ove si era, avverrà la differenza.  

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