Truck art

1 Ottobre 2013

Chalti Hai Gari Urhti Hai Dhool

Jalte Hein Dushman Khelte Hein Phool

Il camion va avanti, dando calci alla polvere
I nemici bruciano di invidia mentre i fiori sbocciano

 

 

L’Indo,‘l’indomito fiume’ cantato nei Rigveda, attraversa il Pakistan dall’Himalaya al mar d’Arabia. Costeggiando il fiume s’incontrano paesaggi, climi, lingue, volti e colori diversissimi. L’unica costante visiva, dai picchi del Karakoram alle mangrovie e i campi di cotone del delta, è costituita dai truck.

 

Gli autocarri sono uno sgradito compagno di viaggio in tutte le strade del mondo, ma gli stroboscopici disco gari (“macchina discoteca”) non trovano eguali al di fuori del subcontinente indiano (allargato all’Afghanistan) e sono singolarmente onnipresenti in Pakistan. Straripanti di canne da zucchero o carichi di merci o bestiame per una transumanza on the road, i truck sono integralmente decorati. La loro intera superficie (specchietti, ruote, cerchioni e giunture inclusi) è coperta, esaurita, in una bulimia visiva che satura ogni possibile. La decorazione prolifera e si espande anche sulle ampie fiancate interne, libere dalle formelle di 30-40 cm che segmentano la parte esteriore.

 

 

La vestitura del truck è commissionata alle botteghe artigiane che prosperano in tutto il paese.
Ci sono diversi stili di decorazione e infinite combinazioni di moduli, ma le due scuole più riconosciute e riconoscibili sono quella di Pindi (abbreviazione di Rawalpindi) e quella di Swat (la valle pashtun del nord-ovest, alla frontiera con l’Afghanistan). Il primo stile, oggi maggioritario, è caratterizzato da décor in metallo martellato sui parabrezza e applicazioni in plastica sul resto del truck. Meno luccicanti, ma più raffinate, sono le decorazioni intagliate nel legno che caratterizzano invece i veicoli fabbricati nel nord-ovest. Nella provincia meridionale del Sindh si possono trovare inserti in ossa di cammello intagliate, mentre le fastose applicazioni a mosaico contraddistinguono le botteghe del Baluchistan. Stilemi astratti e motivi floreali o animali standard, eseguiti a piacere, si uniscono alle specifiche richieste del committente. Il camion è, infatti, una monade summa delle inclinazioni e aspirazioni del suo proprietario. 

 

Anche i nostri camion spesso trasudano informazioni minime sulla personalità del conduttore, tipicamente un nome o soprannome, la bandiera della squadra di calcio prediletta e rimedi apotropaici che spaziano da Padre Pio al sempre valido corno anti-sfiga. Pur non rinunciando a simili talismani (corni vari e code di yak), un più dettagliato inventario di ‘temi popolari’ è intagliato o dipinto sui caleidoscopici truck pakistani. 

 

Nonostante si proceda per accumulo ed esaurimento spaziale, la decorazione segue una sintassi e una prossemica precise. I truck sono vari, personalizzati, ma ordinati e modulari come pale d’altare e il loro canone iconografico si modella sulla suddivisione anatomica del veicolo: frontone, fiancata e retro. 

 

 

Il frontone o taj (‘corona’), la parte più alta del camion che sovrasta la cabina, è spesso – ma non esclusivamente – riservata al simbolismo religioso. Sono ricorrenti calligrafie del nome del profeta o di Allah, versi sacri e siti dell’Islam mondiale (la Ka’ba, Medina). Per un’evidente analogia leggermente blasfema, va per la maggiore anche Buraq, il destriero mitico (un quadrupede con testa di donna e coda di pavone) che conduce i profeti islamici e Maometto in paradiso. Più che indicare la centralità della religione nel microcosmo del camionista, il fatto di assegnare la parte più alta del veicolo all’iconografia islamica deve essere letto come generico segno di buon auspicio e marcatore di rispettabilità sociale, dettato anche dalla sconvenienza di mischiare il sacro e il profano e di collocare icone sante in parti del veicolo particolarmente raggiungibili ed esposte. E’ frequentissima la fatalistica scritta masha’allah (Dio lo ha voluto) che ha il valore squisitamente magico di allontanare la cattiva sorte e proteggere da malocchio e invidia. Nelle parole di un camionista di Nowshera: “Mettiamo il nome di Allah in alto e davanti per essere protetti dagli incidenti. Una volta ho avuto un incidente e persino il parabrezza è rimasto intatto”. 

 

La decorazione del taj è eccezionalmente riuscita nei vecchi, magnificenti Bedford (detti anche rocket truck), caratterizzati dall’alto frontone protrudente e dalla mole ingente. Ormai fuori produzione, i razzi sono stati soppiantati da camion di fabbricazione giapponese come gli Hino o gli Isuzu, meno spettacolari, ma più efficienti e idonei ad avventurarsi sulle impervie strade di montagna del nord del paese.

 

Le fiancate, divise in formelle modulari, sono anch’esse interamente ornate e rappresentano elementi concreti e profani della vita, a cominciare dal nome dell’azienda cui appartiene il veicolo, spesso reiterato orizzontalmente nelle diverse sezioni. Raffigurazioni idilliache del paesaggio di una ‘casa’ immaginata e sempre lontana per il camionista si alternano a mezzi di trasporto moderni (jet, elicotteri) e animali apprezzati per le virtù che simbolizzano (pavoni, leoni, aquile). Il tutto si inserisce in un continuo metamorfico da cui emergono fiori, pesci, decorazioni astratte, occhi e labbra di donna, astri e pietre colorate.

 

La parte posteriore è tipicamente riservata all’arte del ritratto. Un singolo murales raffigura il vero amuleto, la divinità protettrice che definisce insieme anche la vera identità del veicolo.
La parete è dedicata a colui o colei che assume il ruolo di guida e nume tutelare nel microcosmo del camionista: raramente di natura religiosa, il ritratto è dedicato a poeti, attori, musicisti, intellettuali, giocatori di cricket e altre personalità celebri della storia pakistana. Di frequente il ritratto è un indice di affiliazione politica, che in Pakistan rima spesso con l’appartenenza regionale. Cosi, sulle strade del Sindh, roccaforte elettorale della famiglia Bhutto, è facile incontrare ritratti di Benazir o di altri membri della dinastia, mentre nel nord-ovest un’icona prediletta è il dittatore pashtun Ayub Khan. Più raramente ci si volge all’ara familiaris, ma talvolta volti femminili e bambini compongono delle colorate icone mariane itineranti. 

 

 

Il truck è un oggetto sinestetico: si guarda, si legge e si ascolta. Il tintinnio caratteristico delle catenine metalliche che ciondolano a pochi centimetri da terra sul paraurti anteriore e/o posteriore fa da colonna sonora alle immagini in movimento. A immagini e suono si aggiungono poi le calligrafie e i versi poetici tratti dalla ricca tradizione urdu o dalla poesia estemporanea breve pashtun (landay). I soggetti sono molto eterogenei ma i temi d’amore e di viaggio sono generalmente prediletti. A volte, combinazioni ironiche dei due: “Se non tieni la dovuta distanza, potremmo innamorarci”. La nostalgia di casa è spesso cantata con struggente efficacia: “Il terrore delle tenebre della notte, domandalo agli uccelli che non hanno nido”.

 

La poesia è un pezzo essenziale della cultura popolare pakistana e non è ancora relegata ai salotti intellettuali. Inventare o recitare versi e proverbi (solitamente distici) per commentare l’attualità, esprimere sentimenti o sgridare i propri figli fa parte dell’esperienza linguistica quotidiana di milioni di persone. Analogamente, il proprietario del truck espone la propria identità chiosando temi (politici, religiosi, esistenziali) che ritiene importanti.

 

La dolente testimonianza dell’islamizzazione politica del paese si trova anch’essa incisa sulla superficie scintillante dei truck. Il dittatore Zia ul Haq (1978-1988), ammiratore di Machiavelli e fautore di un uso spietato della religione come instrumentum regni, incoraggiò fortemente il movimento dei tablighi, predicatori popolari con la missione di islamizzare il paese diffondendo una versione semplificata ed emozionale dell’Islam sunnita ortodosso. I tablighi sono penetrati profondamente nell’immaginario popolare cosi fedelmente restituito dai truck, che amplificano la loro voce in tutto il paese esponendo fieramente la scritta “tablighi zindabad!” (viva i predicatori).
 

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