Compulsion di Meyer Levin / Uccidere senza un perché

Sono innumerevoli le vicende processuali che hanno meritato e meritano anche oggi l’attenzione degli scrittori, da Buzzati e Moravia tra gli italiani, a Gide e Truman Capote per citare gli esempi più noti. Perché allora leggere questo libro? Meyer Levin non è uno scrittore affermato. Ha scritto alcuni libri poco noti tra cui Compulsion (Adelphi, 2017), uscito nel 1956 senza particolare successo. In Italia viene tradotto dopo qualche anno con il titolo Gli ossessi, ma poco se ne parla. È portato sullo schermo nel 1958 con il titolo Frenesia del delitto e con un titanico Orson Welles, ma rimane in bassa classifica. Nei primi anni novanta ispira il trascurabile Swoon

In realtà il libro nasce per una casualità. Nel 1924 Levin ha avuto in sorte di seguire, come giornalista giovane e dinamico, una vicenda giudiziaria che all’epoca ha suscitato molto interesse e la descrive nel libro. Di cosa si trattava? 

 

I protagonisti, assassini poi confessi, sono due minorenni, rampolli vezzeggiati di ricche famiglie cui nulla manca, annoiati e alla ricerca di emozioni, legati tra loro da un vincolo stretto e sessualmente ambiguo. Una coppia che diviene criminale, così per i penalisti classici, in cui i ruoli di servo e padrone, di capo ed esecutore, di dominante e dominato sono solo apparenti. 

Organizzano, per dimostrare la loro intelligenza e superiorità, un piano. Quello più raffinato e tragico: fingere un sequestro di persona per denaro, ucciderla invece per timore di essere riconosciuti, nascondere il cadavere e intascare la somma, cui peraltro sono indifferenti perché ricchi. 

 

Come diranno in seguito con presunzione ‘avevamo pensato a tutto’. Uno dei due prepara la lettera in cui chiede il riscatto con la Corona, portatile che tiene in casa. Noleggiano un’auto con nome falso perché la loro è troppo lussuosa, circolano in città e scorgono un giovane amico che individuano come bersaglio, lo trascinano sul sedile, lo colpiscono con uno scalpello e, per evitare soprese, lo strangolano. 

A questo punto subentra la seconda parte del piano: raggiungono una zona paludosa vicino al cimitero, spogliano il cadavere e lo trascinano nudo avvolto in una coperta senza aver mancato di devastarlo nel viso e nel corpo con l’acido cloridrico. Inseriscono quello che riescono del corpo in un tubo di scarico e lasciano gli abiti nei cespugli vicini. A questo punto fanno recapitare alla famiglia la lettera di riscatto indicando un sofisticato sistema, lancio di una borsa con il denaro da una certa linea ferroviaria, per ricevere la somma richiesta. 

 

Tutto sembra procedere come previsto, la polizia naviga nel buio, i giornalisti seguono l’evolversi della vicenda parlando con tutti, la famiglia pensa come raccogliere il denaro. I due giovani provano un’eccitazione perversa nel partecipare alle indagini, nel parlare con la polizia, nel commentare l’accaduto, nel discutere quanto avvenuto sotto il profilo giuridico con il professore. In poche parole ‘sfidano il destino’.

Al momento di concludersi, il piano improvvisamente si inceppa. Viene casualmente trovato un corpo nudo spuntare dal cunicolo e si accerta che è il giovane sparito. Nei pressi vengono individuati i vestiti e così si blocca l’operazione di consegna del denaro, divenuta tristemente inutile. Ma, sempre nei pressi, vengono raccolti dalla polizia occhiali di tartaruga, molto particolari e costosi. Si avviano le ricerche del venditore e si accerta che può essere solo un negozio in altra città, Chicago, che ne ha venduti tre esemplari. Depennate le persone lontane non rimane che uno dei giovani che, convocato dalla polizia, pasticcia. Nega che siano i suoi, non riesce a spiegare come gli siano caduti dalla giacca se non togliendola, poi ipotizza che siano rimasti a casa, dove però la polizia non li trova.

 

L’accesso nella abitazione dà altri frutti: vengono rintracciate alcune copie in carta carbone di lettere scritte con la macchina portatile Corona, anch’essa del giovane. E si nota che hanno alcune imperfezioni (lettere p e y) identiche a quelle presenti nella lettera del riscatto. I giovani vengono ripetutamente interrogati sul pomeriggio del giorno del sequestro. Le versioni si ingarbugliano, si contraddicono, e si verrà a sapere che avevano previsto di far convergere un alibi per i sette giorni immediatamente successivi all’omicidio. Essendo l’interrogatorio avvenuto dopo, l’accordo non valeva più e ciascuno ha agito liberamente. Sarebbe stato ancora poca cosa se non fosse intervenuto il colpo di grazia. L’autista di uno dei due ragazzi, Emil, fornisce un dettaglio che potrebbe essere utile anche se lo ritiene ‘insignificante’: quel pomeriggio è stato lui a usare l’auto del ’signorino’ che quindi non poteva disporne. Le menzogne si sommano: quel pomeriggio sono stati insieme, in auto non sanno dire con chi, non hanno usato la loro vettura, gli occhiali rinvenuti accanto al cadavere sono di uno dei due e sempre uno di loro ha usato la portatile Corona servita per scrivere la lettera del riscatto. Gli indizi diventano troppi, schiaccianti, e loro confessano. 

 

 

E il giovane Levin segue per il giornale l’inchiesta e poi il processo, riferisce, espone spiegazioni, frequenta i due giovani poi imputati e condannati perché li aveva conosciuti in precedenza, cerca di capire e capirli. 

 

Il processo si conclude con la condanna alla pena perpetua; uno dei due è ucciso in carcere mentre l’altro, più tardi, presenta domanda dl libertà condizionata. A quel punto a Levin viene richiesto, in quanto cronista all’epoca dei fatti e amico degli assassini, di avere un colloquio con il superstite. L’esigenza di fare appello alla memoria lo porta a riesumare la vicenda e scrive Compulsion. Il libro è fedele nella ricostruzione attraverso il recupero dei giornali dell’epoca, tra cui le arringhe dell’accusatore e del difensore. Nel contempo introduce elementi di fantasia nei dialoghi, cambiando i nomi di alcuni personaggi, come quello dello stesso autore che si maschera sotto altra identità. Ne nasce un romanzo documentario che racconta un pezzo di storia americana degli anni Venti, una Chicago per noi europei legata solo alla mitologia del proibizionismo, della criminalità feroce, degli ‘Intoccabili’ come titola il celebre film. Quella del libro di Meyer Levin è un’altra Chicago: la benestante, vellutata, chiusa nel suo bozzolo dorato, distante da tensione o odi, pervasa dalla noia dei giovani ricchi che s’industriano a passare il tempo tra balli, amori, sport. 

 

Non basta però la stimolante ricostruzione storica con delitto, alla pari del giallo anglosassone classico che, come notò Walter Benjamin, senza quei salotti borghesi non avrebbe potuto esistere. La vicenda è un’occasione per l’autore di toccare anche problemi generali, quelli senza storia e senza tempo. 

Innanzitutto il romanzo affronta la domanda del perché si delinque o, per dirla diversamente, della possibilità di delinquere senza un perché. Esiste sempre il movente nel delitto, quella molla che spinge all’azione, o esistono anche azioni immotivate, ingiustificate? Emerge in Compulsion la fisionomia dell’atto gratuito che ha affannato i criminologi e i redattori del codice penale. Ha appassionato anche i letterati: come Michel Foucault di fronte all’agire tragicamente muto del suo Pierre Rivière, oppure Camus e Gide che lo hanno descritto quale ribellione contro la normalità, contro la morale noiosa, contro la mancanza di ideali. 

 

Nella vicenda i due giovani vivono credendosi superiori, “esentati dalle leggi ordinarie”, capaci di tutto senza subire niente. Sono imbevuti delle concezioni superomistiche, e soprattutto determinati a vivere secondo le proprie convinzioni perché “una filosofia, se si considera fondata, è qualcosa da mettere in pratica nella vita quotidiana”, “è da vigliacchi non fare quello che si vuole”. Da questa osservazione discende l’idea che l’essere superiore ricerca il delitto perfetto. Analizza ogni ingranaggio, misura ogni dettaglio, bandisce l’impulso a favore della minuziosa preordinazione. L’atto diviene “un esperimento intellettuale”, il tentativo “di isolare la pura essenza dell’omicidio”. 

 

Furono questi aspetti a interessare Alfred Hitchcock in Rope, Nodo alla gola, ispiratosi a un precedente lavoro teatrale di certo Hamilton il quale, pur mutandone il contesto, aveva ancora fresco il ricordo dei due giovani assassini. Anche il grande regista è suggestionato dall’idea del ‘delitto perfetto’, cui dedicò addirittura un film con quel titolo, ma ha cercato di dimostrare che quella perfezione non esiste, che c’è sempre un granello di polvere che entra nell’ingranaggio e lo inceppa. 

Così avviene in Compulsion, dove la studiata preordinazione viene sconfitta da un dato casuale come il rinvenimento del cadavere prima di aver riscosso il riscatto, che ha reso vana la trattativa. Oppure da una sbadataggine, come gli occhiali non recuperati subito da terra, e come la mancata eliminazione della macchina portatile Corona da casa. Oppure dallo scrupolo di coscienza di una persona come l’autista Emil che spontaneamente riferisce un dato che risultava dalle cronache inesatto.

Il romanzo offre un altro spunto di riflessione su come funziona il processo, soprattutto quando ha a che fare con minorenni.

 

A prescindere dalla discussione avvenuta in aula, tragica e per fortuna ora superata in Usa dal 2005, sul mandare a morte i minorenni, la strategia delle parti converge su un punto: erano sani di mente del tutto o solo in parte? Se quel delitto denota uno squilibrio mentale, devono essere giudicati da una giuria con l’eventualità seria della pena capitale. Se sono sani possono ammettere la colpevolezza, essere giudicati dal giudice davanti a cui si trovano e sperare di evitare la morte. La linea di confine è esile: la difesa cerca di sostenere che sono sani ma che i fatti commessi hanno mostrato una loro imperfetta maturazione psichica. La discussione apre la porta agli psichiatri che giungono a convenire che la nozione di malattia mentale è sfumata, clinicamente sfuggente, soprattutto in un momento storico in cui si affaccia la psicoanalisi. E non mancano riflessioni di alcuni esperti che utilizzano gli strumenti di quella giovane disciplina.

 

Buona parte del romanzo è dedicata alle discussioni di questo genere, alla necessità di rivolgersi a esperti in quanto il sapere dei giudici potrebbe apparire insufficiente. Tanto più se si giunge davanti alla giuria, perché in questo caso “alla fine toccherà a un profano della giuria decidere sulla loro sanita mentale. Se gli piaceranno le loro facce”. Comunque sia saranno i giudici sempre a decidere su materie difficili, non giuridiche, scosse al loro interno da incertezze epistemologiche che si riflettono sulle risposte finali. Giovani o vecchie si tratta sempre di scienze che esulano dal settore giuridico, ma con le quali il giudice deve fare i conti con umile difficoltà. Passano gli anni ma questo problema non passa, anzi oggi si aggrava con lo strapotere della tecnologia scientifica

Nel romanzo il giudice ascolta, non interviene come la legge americana impone e alla fine imbocca la strada più sicura: i giovani erano sani, ma la loro giovane età implicava disagi emotivi, evoluzioni psicologiche anche traumatiche, immaturità provata da analisi cliniche che portavano a escludere la pena capitale. 

 

La decisione viene accolta freddamente dall’opinione pubblica che ha seguito la vicenda invocando a gran voce una giustizia rapida come tempi e come contenuto. Il commento dei legali è inequivoco: “nelle ultime settimane non ho sentito che invocazioni sanguinarie”. E fu questa una ragione per cui la difesa scelse di non andare davanti alla giuria popolare, troppo sensibile agli umori della folla che inferocita vuole la sua giustizia, l’atto capitale, la morte.

Un tema oggi diventato di grande attualità: giudicare rapidamente e in modo esemplare, questa la richiesta del pubblico entrato a far parte in modo surrettizio dei processi celebri che si celebrano

Per concludere: un romanzo massiccio, di quasi 600 pagine, che non delude, con una narrazione secca e incalzante fino alla fine. Tanto più che le ultime pagine diventano chiarificatrici, e sono probabilmente anche le migliori. L’autore, dopo molti anni, incontra uno degli psichiatri che allora, seppur giovane, aveva coadiuvato per la difesa i ben più maturi esperti. Ne nasce un colloquio fitto in cui medico, oramai affermato anche come psicoanalista, ammonisce che il movente può sembrare nascosto e in apparenza assente, ma esiste sempre. Esso è sprofondato in fondo a un pozzo, e lo studio della psiche può farlo riemergere. Come nel caso dei due giovani. 

 

Ed è qui che il titolo del libro, Compulsion, si libera della sua apparente ambiguità. Non è infatti ‘impulso’, pur ammissibile letteralmente, che non rende ‘ossessi’ come voleva il titolo della precedente edizione italiana. È invece ‘costrizione’, cioè ‘obbligo’, come spiega nelle ultime pagine il medico parlando degli omicidi: “doveva compiere quel gesto perché spinto da una personale compulsione”. 

Ancora una volta e banalizzando: non fidarsi delle apparenze, la spiegazione è sempre dentro di noi.

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