Vanni Santoni va per graffiti
Quanti di noi hanno guardato fuori dalla finestra, col sole che batteva già furente nella mattinata polverosa e mite, e visto sul muro immacolato del palazzo opposto uno scarabocchio nero? Quanti di noi si sono morsi la lingua per non inveire contro l’autore di quella diavolo di scritta?
Dilaga ovunque, nella cinquina del Campiello, inizia con la seguente citazione:
“e comunque la vostra opinione non conta un bel nulla, dato che i vostri nomi non sono scritti a caratteri cubitali su un cavalcavia”
Imposizione quasi violenta, dunque. Io esisto, io ci sono. Guardami.
Ma come ci siamo arrivati? A una società in cui lo spazio visivo si è reso vero e proprio campo di battaglia, dove l’individualità reclama il suo posto come cifra idiosincratica nel mezzo di una realtà urbana sempre più asettica? E poi, c’è del vero in quest’affermazione? È possibile che nel magma neocapitalistico in cui viviamo, l’unico modo di contare qualcosa è di scrivere per strada – e di farlo in grande? In altre parole: street art, graffiti, sono loro la manifestazione più autentica, il gesto più efficace per esprimere e contestare il presente?
È qui che ci porta il libro di Santoni, attraverso una narrazione dilagante e irrefrenabile, sprizzante e dinamica come i graffiti stessi, che tenta di tracciare un filo conduttore dagli albori del fenomeno a oggi, valicando confini tra locale e internazionale, testo e immagine, sguardo critico ed esperienza viscerale, con l’obiettivo di trarre qualche conclusione all’alba di cinquant’anni dai primi affreschi sulle metro newyorkesi.
La prima chiave di lettura del libro è intima. La narrazione in seconda persona ci immedesima nella figura di Cristiana, o Cri, street artist-graffitara che da giovane ha flirtato con vari aspetti del movimento, dai “taggoni” e sticker sui palazzi alle atmosfere affettate da galleria d’arte, dove l’autenticità è venduta a fior di quattrini. Cri – che per radicalismo o inabilità che sia non è mai riuscita veramente a sfondare – viene contattata per scrivere un libro sulla storia dei graffiti. Questo riaggancio col passato istiga una pausa riflessiva, portandola a ripercorrere il suo rapporto con i graffiti dall’infanzia. L’esperienza di Cri si fa prototipo, gettando luce sulle motivazioni che portano un’adolescente a invischiarsi in questo mondo affascinante quanto strano.
Si parte dalla provincia italiana, con una bambina attratta dall’aura psicogeografica dei luoghi – quelle zone liminali in cui “lo spazio urbano si sfilaccia” – e che, nei tardi anni ‘80, cominciano piano piano a proliferare di segni. Segni misteriosi, questi, quasi mistici, dato che nascono dall’intenzione di qualcuno, solo che questa intenzione è – ai più – ignota. Nascono così leggende urbane, interpretazioni bizzarre per queste lettere intrecciate, scritte amorevoli e deliranti, e che non fanno altro che accrescere l’intrigo, portando la protagonista al momento iniziatico attraverso uno dei mezzi d’espressione clou della street art: l’adesivo.
Qui, visto in chiave personale, vi è l’embrione del contrasto di base tra arte di strada e logiche di mercato. Cri viene attratta dagli adesivi del padre, apicoltore che li incolla sui barattoli di miele, ognuno nel suo posto designato. Invece Cri vorrebbe appiccicarli in giro, per le vie, e vorrebbe scriverci altre cose, non solo il nome della piccola azienda paterna. Da un lato c’è l’esigenza – seppur in ottica non industriale – e qui Santoni è geniale – di profitto; dall’altra c’è l’urgenza creativa, la volontà adolescenziale di affermarsi, di dire che conto qualche cosa anche io.
La giovane Cri cammina per strada e i graffiti si sono fatti quasi fluorescenti, l’inventiva è al massimo. Presto siamo ai primi tag, poi seguono i throw-up – pezzi a campitura singola – e poi arrivano i viaggi fuori provincia verso Milano, dove si è già sviluppata una vera e propria subcultura. Torniamo al presente: Cristiana viene invitata a una mostra d’arte in Svizzera, poi va a Londra; infine in un flashback la seguiamo a New York, la patria del writing. Ma sarà poi vero che i graffiti, e di conseguenza l’evoluzione street art, sono nati lì? Santoni si districa tra una mole colossale di materiale, indagando presente e passato per ripercorrere la storia millenaria dei (di)segni sui muri. I personaggi che Cristiana incontra, da un borioso critico d’arte a una londinese attivista, fino a due famosi quanto ignoti king della scena newyorkese, sono l’incipit per investigare i vari miti di fondazione del fenomeno.
La seconda chiave di lettura del libro è la documentazione. In un panorama critico prevalentemente anglocentrico, Santoni riporta il discorso sull’Italia mostrando come il movimento si è evoluto in maniera idiosincratica adattandosi al contesto nazionale. Conscio che qualsiasi lista include alcuni e lascia fuori altri, Santoni riporta una quantità monumentale di nomi, segnando l’importanza del testo come documento culturale specifico. Da Melina Riccio e Pea Brain si passa a Geco e Sten&Lex, dagli stencil si passa ai pezzi su linee di treni locali e il fantomatico “bombing”. Ma già la visuale si allarga, sia nello spazio che nel tempo, spaziando tra l’evoluzione stilistica delle lettere sui treni a New York – Phase2 e Lee Quiñones, per citarne due – e le foto di teschi grotteschi incisi sui muri della Parigi working class anni 50, opera dell’ungherese Brassaï.
Come in tutti i movimenti spontanei, ciò che emerge è l’impossibilità di tracciare una progressione lineare. Il risultato, implica Santoni, è che ogni mini-fazione porta acqua al suo mulino. Da una parte, i galleristi affermano che la street art non dipende dai graffiti, dall’altra i graffitari battibeccano per decidere chi di loro ha coniato determinati stilemi. In questo clamore di voci, alto e basso sono intrecciati: dalla tag viene il pezzo e dal pezzo il disegno, e dal disegno la street art. Quindi se vuoi il Banksy “che piace anche alla nonna”, devi ringraziare il sopra menzionato tagghino sul palazzo di fronte. Rimane interessante che anche per quanto riguarda i graffiti, sono poi cinema, gallerie e media che determinano chi viene ricordato o meno. Anche nell’arte spontanea, dei cosiddetti “outsider”, il mainstream riesce ad allungare il tentacolo per selezionare o accantonare.
Ma se è così difficile trovare un filo unico, allora forse quello che conta di più è il contesto specifico, l’esperienza del singolo. Ritorniamo allora a Cri, che tra un sorso di vino a Basilea e un’avventura in un deposito sorvegliato “più di una banca centrale” si chiede cosa la attrae, ancora adesso, alla realtà pantanosa dei graffiti. È davvero l’esigenza di riscatto sociale, dato che il fenomeno ha perso la vitalità degli albori, e che lei viene comunque da un contesto piccolo-borghese? O è più l’esigenza di evocare un ego individuale, quel sincretismo magico che lega le tag sui muri moderni ai disegni propiziatori nelle caverne di Lascaux? E in fin dei conti, Cri sarebbe davvero lì a rivendicare l’autenticità del suo rapporto con il movimento se fosse riuscita a sbarcare il lunario? Perché, di fatto, i graffiti non-monetizzati sono spesso dimora di chi non ce l’ha fatta: la democratizzazione del paesaggio pubblico fa sì che chiunque può scrivere, e qualunque scarabocchio sarà una piccola vittoria sullo sterminato spazio urbano.
Santoni passa dalla celebrazione dei graffiti che nel panorama visivo contemporaneo “hanno vinto”, a una critica della gentrificazione e della cooptazione degli spazi urbani per il profitto: la street art da strumento di protesta si è ridotta a un trucco a basso prezzo per vendere appartamenti a prezzi gonfiati. In un contesto in cui ci stiamo ancora “rotolando nel fango degli anni novanta”, urge rinvigorire i segni urbani, riplasmarli nello strumento di critica sociale degli inizi. Ed è proprio questa la missione di Cristiana, missione che si estende oltre le pagine del libro. In un mondo dove la pubblicità si camuffa da street art, e le opere di artisti italiani come Blu vengono sradicate dai centri sociali per esporle a pagamento nei musei, c’è proprio da inventarsi qualcosa.
Il libro di Santoni è l’abc dell’arte in strada, essenziale per fare una ricognizione del panorama urbano moderno. L’unico altro tentativo rilevante di raccontare il tema a livello europeo è El francotirador paciente dello spagnolo Arturo Perez-Reverte, che però vede i graffiti in chiave reazionaria facendo leva sui loro lati negativi, arrivando a vederli addirittura come veicolo di messaggi razziali. Quello di Santoni è un libro di un'altra pasta, incredibilmente attuale, che in cento pagine include quanto umanamente possibile senza perdere accuratezza. Può essere considerato il punto di partenza per un dibattito sul movimento artistico “più vasto, duraturo, globale e multiforme di tutti i tempi”.