Speciale
Street Art Pasolini
È dura ipotizzare sulle opinioni non manifeste di personaggi illustri, specie se defunti. Ma forse la street art a Pasolini sarebbe piaciuta. Come mai? È una forma di arte libera, lasciata per strada, alla portata di tutti; una specie di lingua volgare visiva.
Non è solo questo. Non si parla, infatti, unicamente di street art, ma di street art a Roma, la città che più di tutte ha stimolato l’immaginazione pasoliniana. Dal suo approdo nel 1950, Pasolini ha tessuto un rapporto con la Capitale che va oltre le persone fino a toccare la materia della metropoli, le strade, i palazzi. Nel caso romano, la street art è quindi un’occasione per la città stessa – quella dei gatti zozzi, dei cornicioni sbrecciolati e dei riflessi ambrati sulle acque del Tevere al tramonto – di stare con lui; di instaurare un dialogo. Di essere attiva nella memoria.
In Empirismo Eretico (1972), Pasolini aveva già affermato che la materia grezza della memoria è visiva. Memoria come seguito di im-segni, per l’appunto, o immagini significanti, che processa il reale mantenendone viva la complessità. Nonostante la memoria sia una pratica selettiva, di sintesi, l’ordine con il quale gli im-segni sono assemblati è onirico e irrazionale. È una sintesi senza sintesi, un’interpretazione senza interpretazione, come lo è anche, secondo Pasolini, la più potente arte. Nelle sue opere, egli favoriva un’arte che lascia spazio, che non si adagia mai troppo nel suo involucro di significato. Un’arte che venera la realtà, ma al contempo la dissacra.
Ricordiamo i film di Pasolini su Roma. Sono lavori che ci offrono sia Roma che una versione di Roma, che incoraggiano una riflessione estetica e politica sulla città. Trasmettono una visione lefebvriana di metropoli non come spazio di consumo, ma come opera; innalzano a realtà cinematografica frammenti di una Roma non espressa nella memoria collettiva. Accattone (1961), coi suoi tagli paratattici spiazzanti, è un’opera modernista-realista, che lacera e storicizza il reale, forzando il pubblico a una lettura attiva e contaminante. In Mamma Roma (1962), invece, squarci di un’infausta INA Case intersecano cinema e architettura. Entrambe sono opere realiste, ma non nascondono la fisicità del mezzo di comunicazione; anzi, la avvinghiano alla realtà rappresentata.
Tutto questo per arrivare alla street art, che decifra i luoghi, li elabora, senza mai strapparsi dalle loro grinfie. La street art è consapevole della propria materialità, della sua capacità di significare come prodotto tra sé stessa e il reale. È una lacerazione del suolo cittadino mai percepita allo stesso modo: il muro si è spaccato, il decoro urbano non esiste, sulla parete hanno affisso un annuncio di lutto. È disincantata come Roma: urla in un presente sempre diverso, sempre già appassito, e sa già che presto non urlerà più. Infine, conosce l’intrappolamento pasoliniano nel corpo perché è proiettata in un corpo lei stessa, perché dipende dalla propria fisicità effimera.
Andiamola a vedere a casa sua, questa street art, bussiamogli al portone. Rechiamoci in via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, descritta dallo stesso Pasolini, “con le sue casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma.” Ma perché proprio questa via Fanfulla? Qui si trovava il baretto di Accattone, patria della sacra indolenza; e superata via Prenestina, con un tuffo sopra il deposito di treni siamo a Casalbertone, quartiere originario della Magnani in Mamma Roma. Proprio qui, dunque, è denso il ricordo di Pasolini. Ciò che basta è una mente feconda e qualche schizzo di colore per esprimerla.
Sono tre le opere dedicategli in via Fanfulla. Alzando gli occhi a metà della via veniamo intrappolati in uno sguardo incisivo. L’occhio è l’unico che può accorgersi della bellezza (2014) è un lavoro dell’artista Maupal, che in bianco e nero incastona il quarto di faccia comprendente l’occhio destro di Pasolini nella facciata sommitale di un edificio. La città è resa antropomorfa, organica; diventa un corpo dal quale Pasolini guarda un processo di significazione perpetuato oltre il suo punto di morte: il futuro. Perché se l’occhio è l’unico che può accorgersi della bellezza – frase di Patrizio Barbaro dedicata a Pasolini – è vero anche che la bellezza è un linguaggio senza fine, come la realtà. E così l’opera è un richiamo, a decifrare il reale attraverso il corpo, ad apprezzarne le possibilità estetiche di contaminazione.
Rimaniamo sotto l’occhio di Pasolini, e volgiamo la testa al lato opposto della strada. Sopra baracchette in mattoncino vivo, coi tetti di lamiera che ricordano la Roma di Accattone, c’è un volto imponente di donna. È Margherita Caruso come Vergine Maria, rappresentata dall’artista Mr. Klevra come appare in Il Vangelo secondo Matteo (1974). Come sappiamo, nel film Pasolini vuole rappresentare il vangelo come fu scritto. Non si affida a tecniche moderne di suspense; monta le sequenze senza immediato rapporto causa-effetto, attenendosi minuziosamente al testo sacro. Le riprese facciali frontali fanno parte del suo ‘stile assoluto’: garantiscono intimità, senza tuttavia permettere l’identificazione psicologica con i personaggi. Rendono la violenza escatologica del potere universale; il divario tra colui che pronuncia la Parola di Dio, e i discepoli che la ricevono.
La Vergine di Mr. Klevra, dai colori sabbiosi e tratti orientaleggianti, irrompe senza apparente contesto nella placidità di via Fanfulla. È un im-segno, una sequenza interrotta, una lacerazione del paesaggio cittadino che lascia spazio all’interpretazione. Con la sua aureola d’oro, le sue guance chiaroscurate, rimane sospesa tra il realismo – un’ode alla modernità del cinema – e l’iconografia bizantina. L’aureola si interrompe nel cielo, suggerendo che il punto di incontro tra arte e vita è il divino. Al suo interno sono tracciate quattro lettere, MPOY, sigla in greco del titolo Madre di Dio; un titolo che, in seguito alla disputa teologica dei nestoriani, venne riconfermato a Maria nel Concilio di Efeso del 431. Tale periodo precede la diffusione della classica raffigurazione della Vergine reclinata verso un Gesù infante. Mr. Klevra ne trae ispirazione per dipingere un inno alla femminilità a prescindere dal ruolo materno; una femminilità dura, determinata, come enfatizzato dallo sguardo. Dal 2014 – anno in cui è stata dipinta – ad oggi, lo smog e le intemperie le hanno scavato le guance.
Continuiamo fino alla fine della via. Ci imbattiamo in Io so i nomi (2014) di Omino 71, opera che prende il nome dall’articolo del 1974 scritto da Pasolini sul terrorismo per “Il Corriere della Sera”: ‘Cos'è questo golpe? Io so’. Il volto del pensatore è raffigurato di traverso, orizzontalmente, coperto da una maschera blu. Al posto delle orecchie sono disegnate due piccole ali, e le parole ‘Io so i nomi’ sono incise sulla fronte in grafia medievale. Lo stile del dipinto è fumettistico, da graphic novel; è ispirato al personaggio di Future Flash creato dalla DC Comics, un supereroe che viene dal futuro per prevenire un destino non voluto. Come Pasolini nel suo articolo, Future Flash è mangiato dal rimorso di non fare abbastanza. L’orientamento di traverso del dipinto suggerisce l’atteggiamento di sfida di Pasolini verso la classe politica, oltre che l’incomprensione alla quale fu spesso condannato in vita. Ma è anche un invito all’azione: a inclinare la testa per decifrare il suo messaggio; a provare, come lui, a “immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace.”
Spostiamoci ora in un altro quartiere caro a Pasolini, Torpignattara, dove mezzo secolo fa l’avremmo potuto incontrare a caccia di attori per uno dei suoi film. È proprio qui Hostia (2014), l’opera di Nicola Verlato che già da tempo il quartiere ha soprannominato ‘Cappella Sistina di Torpignattara’. Dieci metri di altezza per sei di lunghezza trasformano l’intero lato grigio cenere di un edificio in una chiesa. La cupola in sommità è aperta: vi si affacciano il presunto assassino di Pasolini, Giuseppe Pelosi, due giornalisti che lo intervistano, e un poliziotto. Pasolini è sospeso in caduta per la buia abside, tracciato bianco in risalto rispetto alla giungla di corpi agonizzanti alle sue spalle. In basso, la madre preme la mano di un giovane Pasolini contro un taccuino per forzarlo a scrivere, mentre il bimbo si gira ad ascoltare il consiglio di Virgilio, mentore ideale, ed Ezra Pound. Alle loro spalle troviamo uno sfondo di colonne corinzie, e un albero della vita il cui fusto sale, dietro la forma in caduta di Pasolini, fino ad aprirsi sotto il buco nella cupola.
Come evidenziato dalla sommità scoperchiata, il Dio di quest’opera è la morte. Morte come interruzione del processo di significazione, come filo conduttore tra presente e nascita. Nella morte, Pasolini è vicino quanto non mai al reale – un reale che, tuttavia, rimane illusorio per noi viventi, aperto a interpretazioni diverse, come evidenziato da Pelosi e dai giornalisti. A oggi, non abbiamo certezza di chi sia stato l’assassino.
Pasolini sì, invece – in punto di morte gli è dato conoscere la verità; ma solo per poi ripiombare nel tumulto dei corpi. L’opera di Torpignattara si associa alla fase finale del pensiero dell’artista. Data l’impossibilità di ritornare a un’innocenza infantile, l’unico modo di scappare dal corpo e uscire dal ciclo consumista del desiderio è di spegnersi. Morire per rinascere, per tornare all’infanzia, a un ego sopportabile. Lo diceva proprio Walter Siti, commentando la sua ultima poesia in Friulano: Pasolini getta l’onere su di un giovane fascista, tuttavia capace di distinguere ciò che è da ciò che dovrebbe essere. Tale giovane è raffigurato ai piedi del dipinto, un Pasolini bambino che ha il taccuino ma non ancora le parole da esprimervi; non è ancora impegnato in alcuna ideologia. Gli si presenta una scelta: seguire Virgilio, poeta lodato dalla storia, celebrato nei secoli; o Ezra Pound, che, come Pasolini maturo, venne respinto dalla stessa società che ambiva a redimere. Ma verrà garantita a Pasolini questa seconda possibilità? Sarà trasportato dalla forza di gravità fino a tale bivio? Verlato lo lascia sospeso lì, nel tumulto di corpi.
Veniamo a un’opera che forse opera non è. Cosa sono gli stencil? Sono affissioni di loghi riprodotti su carta e appiccicati al muro con la colla di farina. Sono chiamate all’azione, grida che affermano un futuro possibile usando il potere disseminativo di un cartellone pubblicitario. Lo stencil di cui parliamo non esiste più, fatta eccezione per internet. Ma è esistito, in varie località di Roma, fra cui Piazza delle Tartarughe, ghetto ebraico – luogo dove anni fa approdò un Pasolini alienato in fuga dal Friuli. Il lavoro, di Ernest Pignon-Ernest, è un’ode alla Pietà: un Pasolini che sorregge il suo stesso corpo morto, dove giochi di ombre caravaggesche intersecano un realismo alla Swoon. Anche qui, la morte come montaggio fulmineo. Nella morte, la vita diventa un sintagma, un modo di conoscere il mondo narrativizzandolo per cambiarlo moralmente. In questa opera, pare che una seconda possibilità sia concessa a Pasolini. O forse è a noi che Ernest si rivolge: una chance per la società di far rivivere l’autore nel presente, ascoltando con maggiore attenzione gli auspici della sua mente analitica e geniale.
In questa foto effettuata da un turista, il volto di Pasolini è stracciato, la carta spellata in lame verticali aguzze. Sarà opera di un ragazzino, di un impiegato per il decoro urbano, o di un oppositore di Pasolini sopravvissuto ai giorni nostri? Nell’ultimo caso, sarebbe una testimonianza dell’impatto virulento che ha ancora oggi la sua vita e opera. Lo diceva, lui, che il mondo non sarebbe cambiato.
Ma torniamo a noi. Cosa farne, in chiusura, di questa street art? Prese insieme, le opere commentate sono frammenti disciolti, urla sparse che si inseriscono nel quotidiano per poi scomparire nel vortice della realtà con rapidità tale che ci rimane a malapena un ricordo fuggente, un’impressione nella memoria. Il suo tallone d’Achille.
Perché se, come dice Totò a Ninetto in Che cosa sono le nuvole? (1967), esternalizzare una verità equivale a distruggerla, il rischio della street art nel mondo di oggi è di nascondere troppo, di rendere, come Pasolini criticò a Warhol, la vita insignificante in quanto vita. In un mondo neocapitalista approdato sorprendentemente nel simbolismo ipertecnologico, dove un algoritmo decifra l’allegoria dei nostri desideri anche prima che possano manifestarsi, la street art è in strada, sì, dove la vedono tutti, ma deve combattere perché tutti facciano lo sforzo di capirla. Deve stupire superficialmente per innescare il processo di decodificazione che stupisca in profondità. Infine, per essere efficace, deve assicurarsi che il suo significato rimanga incontaminato da forze associate al capitale.
Dunque, sarebbe piaciuta la street art a Pasolini? Credo di sì, ma come arma di cui essere sospettosi, da affilare costantemente, come poi tutta l’arte.