Conversazione con Italo Moscati / Viaggio in Italia: 1200 km di bellezza
Italo Moscati è intervenuto al Collegio Ghislieri di Pavia, nel seminario internazionale dal titolo Percorsi della memoria. Immagini, idee, linguaggi, che conclude l'edizione 2017 dei Seminari Ghisleriani di Psicoanalisi Apriamo (con) un libro. Parliamone con un film. Il seminario, che ne ha visto tra gli altri la partecipazione di Remo Bodei, ha proposto la proiezione del suo film 1200 km di bellezza, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà: un coinvolgente spaccato di Italia che si presenta come un vero e proprio archivio della memoria nazionale ma che è anche allo stesso tempo un documento di protesta e di denuncia.
(Lucia Zaietta)
Moscati, lei definisce questo suo film un "GRAND TOUR". Un'espressione che suggerisce viaggio, meraviglia, tanta bellezza in poco tempo: è di questo che parliamo?
Il film è un “Grande Viaggio” speciale, ricostruito con pazienza; è un racconto ispirato al “Grand Tour” fatto da nobili, ricchi signori, filosofi, scrittori, artisti, diplomatici, turisti famosi, che si è svolto lungo tre secoli dal Seicento alla fine dell’Ottocento. Qualcosa di estremo interesse. Materiali di documentazione fatta di racconti, lettere, testimonianze, diari. Quando ho proposto a IstitutoLuce-Cinecittà, diretto da Roberto Cicutto, avevo fatto sempre per il Luce sedici dvd su una cronologia storica dell’Italia dai primi del Novecento. Lavorandoci avevo scoperto che, al di là delle immagini senza sonoro e poi con il sonoro, c’era il Paese dei mari, delle campagne, dei monti, degli “italiani” dell’Italia Unita, una intensa storia visiva. Ho pensato che potesse essere qualcosa di nuovo da scegliere e selezionare per recuperare scene reali, quindi l’Italia che solo gli abbienti avevano visto e raccontato. Ma non poteva bastare. Le immagini nuove, frutto del primo cinema del Novecento (nascita da cinque anni, 1895), erano un’altra cosa dagli acquarelli, dai disegni, pitture creati dai viaggiatori del Grand Tour e dai loro accompagnatori. Era solo una premessa rispetto al lavoro delle cineprese che era iniziato e stava crescendo da quando il Luce, creato dal fascismo nel 1924, cominciò a occuparsi di documenti educativi, diventando subito il luogo delle produzioni del Cinegiornali Luce: notiziari, informazione controllata dal regime. Mentre nascevano, uno dopo l’altro, nei campi della periferia romana, ancora campagna, Cinecittà nel 1936, il Centro sperimentale e la Cineteca Nazionale.
Migliaia e migliaia di metri di pellicola. Scoprii che i notiziari includevano immagini molto ben girate che facevano da fondali, riprese da bravi operatori. Ecco lo spunto per prendere questi fondali, questi scenari di campagna, paesi, città con reperti del passato, costruzioni antiche, monumenti; volti di persone non solo delle città. Ho quindi selezionato immagini e sonori, ho girato riprese originali con tecniche moderne, il colore, l’HD, droni; allo scopo di cambiare spazi e profondità, inserire in un nuovo racconto una lunga storia, la storia della bellezza nel nostro Paese, mostrando come si è salvata ma anche come è stata aggredita, di un Paese che cambiava velocemente, a volte troppo velocemente, un Paese che continua a resistere a fatica. È in corso un ripensamento dopo anni di distruzioni (la seconda guerra mondiale), di trascuratezza e di abbandono. Il film, “1200 KM DI BELLEZZA” illumina un secolo e la storia che cambia. Il vecchio “Grand Tour” era un diario scritto da Goethe, Stendhal, Nietzsche e da tanti altri che parlavano di Eden e di Paradiso Perduto, anche se c’era una miseria spesso atroce. Il film narra e ragiona sui cambiamenti: un amore, una voglia di Bellezza dalle molte facce. Ecco il senso di citare il vecchio “GRAND TOUR” come confronto colmo di emozioni e di sentimenti, per proteggere l’Italia di oggi e di domani. Viaggi ancora bellissimi, con un pathos che non poteva, non può essere quello di illustri signori dei secoli scorsi.
I ricordi, nella nostra mente, ce li immaginiamo come video sequenze. Come pellicole. Scene dal nostro passato, che hanno un contenuto di insegnamento e un contenuto emotivo. C'è qualcosa di simile in questo suo film?
Il film è fatto di pellicola e di nastri elettronici (il materiale di oggi). Il mio lavoro è stato soprattutto quello di comporre con pazienza, anche e soprattutto col montaggio, qualcosa di nuovo servendosi di un confronto incalzante e continuo tra presente e passato, mostrando il passato, lasciando a Goethe e agli altri viaggiatori il compito di aiutarmi come se fossero “inviati speciali” in viaggio nel tempo. Ho scelto frasi che fossero concrete, ad esempio con Guy de Maupassant che descriveva la Napoli di metà Ottocento già aggredita dalla “monnezza” come è capitato nei nostri anni. Ma ricordare anche la Napoli amata, bella, romantica, chiassosa e allegra. Quindi emozioni che oscillano speditamente, scorrono nel tempo e ci raggiugono suscitando molte reazioni. Emozioni e ragionamenti. Mai immagini e parole abbandonate a se stesse, visioni utili per raccogliere attraverso una sorpresa dopo l’altra una forma di conoscenza. Il mio testo, discreto e suadente, deciso, polemico quando era giusto di fronte alle distruzioni per volgarità e incuria, è al servizio di situazioni da “storicizzare”, lasciando al pubblico la possibilità di una reazione non imposta ma offerta come documento non sterilizzato nella cronaca. Una memoria da costruire insieme. Alla ricerca di identità diverse, in divenire, dai primi del Novecento a oggi. L’adesione del pubblico l’ho percepita nettamente, come se esso stesso sentisse il bisogno a fare i conti con un Paese che sta facendo bilanci difficili e che sforza di andare oltre. E, senza sognare, confermare questa esigenza vitale.
Ancora sulla memoria: in che senso questo è un film per il presente?
Il film è tutto sul presente, basato su quel che ho scoperto nei poderosi archivi del Luce, in cui ho lavorato per anni, imparando che l’uso dei documenti nel cinema è delicatissimo. Troppo spesso i documenti sono sottoposti a stesure di torrenziali copioni che inventano commenti inappropriati, badando poco alle immagini (sempre da rispettare) e le soffocano con scritture che tendono a sottovalutarle o addirittura a travolgerle. Ho notato che nelle molte proiezioni gli spettatori apprezzano nel film la semplicità, il modo diretto di proporle, il “bisogno” di capire. Gli spettatori più diversi gradiscono testi brevi, chiari, rapidi, non amano le immagini che facciano da “tappezzeria”, sanno ormai molto bene che sono “sprecate” come avviene in televisione. Il cinema non spreca, inventa. La televisione è un finto “presente” che condanna le immagini, i montaggi e i sonori a una quotidiana e abitudinaria livellazione. Le immagini e le parole, i documenti, muoiono; vanno invece rigenerati da uno sguardo più acuto, capace di scegliere e di mostrare con il gusto della curiosità e della scoperta. Quelle del film “1200 KM DI BELLEZZA” sembrano nuove, nel contatto con le immagini e i montaggi nuovi. La proposta quindi è doppia: il romanticismo di visitatori che erano letterati e filosofi, la loro acutezza e i loro sentimenti, si intrecciano con gli sguardi inquieti e interrogativi della modernità. Modelli di ieri e di oggi che s’intrecciano svelando prospettive inedite, scoprendo le differenze, sollecitando il dramma dei racconti della storia, della cultura e dell’arte. Uno spettacolo all’altezza delle esigenze di chi vuol conoscere, sapere, oltre che godere la potenza dei viaggi.
"E sì che l'Italia sembrava un sogno / steso per lungo ad asciugare / sembrava una donna fin troppo bella / che stesse lì per farsi amare" (Ivano Fossati, Pane e coraggio - Lampo Viaggiatore, 2003). Il suo viaggio in Italia è da sud a nord: perché questa scelta? Cambia lo sguardo sulla Penisola, ripercorrendo le rotte dei migranti?
Sì, “una donna fin troppo bella/ che stesse lì per farsi amare”, come canta Fossati. Ma il mio film non canta o fa cantare, soltanto; fa ridere e piangere, commuove e irrita, cerca vie diverse, legate ai fatti, fatti spesso inconcepibili. Il vecchio, caro Grand Tour partiva del Nord perché i ricchi visitatori venivano dall’Europa potente e ricca. Il mio Grande Viaggio comincia dal Sud e va verso le Alpi perché il mondo e i percorsi sono cambiati. Gente africana, e non solo, immigrati dai continenti del Sud immenso, approdano, se approdano, nella lingua di terra italiana, e non solo italiana. Cosa cercano? Ieri gli italiani che partivano per cercare risorse di vita andavano in scassati bastimenti verso gli Stati Uniti e la Statua della Libertà, tra sogni e sofferenze. Oggi popoli smarriti cercano nei barconi e a nuoto una terra che scivola via e guarda interdetta a destini spesso senza speranza, con poche o nessuna statua delle libertà. Da qui parte il mio film e rovescia l’ottimismo, il romanticismo del Grand Tour dei signori e dei colti.
Qual è la frase di Vittorio Sereni a cui si ispira il titolo del film? Per Sereni, prigioniero in tempo di guerra, la memoria è sofferenza, ma anche testimonianza e impegno civile. Si riconosce in questa impostazione?
Ho citato Sereni perché ha scritto qualcosa sul nostro Paese, una riflessione sul tema della “bellezza”. L’ho trovata nel primo verso di una sua poesia intitolata “Il sonno”, eccolo: “L’Italia, una sterminata domenica…”; in cui descrive una Milano immaginata nella seconda metà degli anni Cinquanta, in una domenica quasi estiva e “sterminata” di bellezza, di silenzi e di serenità. Però con tanti rimorsi per quello che poteva essere l’Italia dopo la Resistenza e non è stato. Quello che poteva essere l’Italia, dopo la Resistenza… Non una nostalgia per ciò che non è accaduto ma per una “sterminata” bellezza capace di uscire dalle pigrizie dolci della domenica, capace di diventare smagliante in un Paese libero dalla dittatura e dalle guerre, dall’inefficacia nelle scelte civili, tra cui l’ambiente, la vita da vivere. Ecco il senso del film. Uno sterminato viaggio nel tempo per vedere, tra gli anni della speranza e gli anni delle delusioni, le rappresentazioni del Paese e degli italiani, entrambi molto amati ma anche delusi, in attesa continua, tra entusiasmo e delusioni. Appunto: i ricordi come forme di impegno civile, in uno scenario molto cambiato, molto compromesso per inerzie, incapacità, mancanza di reagire.
Ci sono molte voci nel film, e molte lingue: si tratta di voler cambiare angolo visuale, oppure c'è un motivo?
Le voci sono molte, ci sono molte lingue, ma soprattutto c’è la nostra lingua. C’è quella del racconto da me scritto che include i ricordi e le espressioni dei grandi viaggiatori. Ad esempio, le parole di Stendhal che sta per lasciare l’Italia del Lago di Garda e dice che “che si va verso il brutto”, ovvero il Centro e il Nord Europa dove la bellezza è meno forte, vibrante, concreta, non come in Italia dove la bellezza è spesso trionfante, esplicita, tenerissima nelle campagne e nell’arte, carica di provocazioni nostalgiche, seducenti. Voci di viaggiatori come Maupassant per Napoli, come abbiamo visto, o come Goethe, incantato da Roma ma anche di fronte a una città che lo conquista e lo spaventa. Nel film, il tessuto dell’elogio e dei miracoli della bellezza dell’Eden o del Paradiso Perduto, come ripetono i grandi viaggiatori, entra nelle lingue e vi si confonde nella spettacolarità, quando l’arte e la natura portano a linguaggi alti, esplosione di utopie e sogni ad occhi aperti. È stato facile contrapporvi altri “spettacoli”, citando le lingue dei contadini e delle persone che hanno spesso creato la bellezza (negli ambienti, nei territori con il lavoro per una grande bellezza diffusa), ricordandone il suono, il gusto della spontaneità, la cura nelle cose semplici; con brevi citazioni o personificazioni tratte da rapidi documenti filmati o film in cui si affacciano dialetti e voci popolari.
C'è tanta bellezza, in questa Italia della memoria: intendendo per bello ciò che ha valore, ciò che commuove, ciò che insegna. Che cosa invece è "brutto" per lei, in termini assoluti? C'è qualcosa che, per l'occhio del regista, veramente non vale la pena di far vedere, in un film?
Tutto vale la pena di vedere e far vedere. Il bello e il brutto nel cinema, e non solo nel cinema, sono i “materiali” con cui lavorare per creare un necessario rapporto non solo di contrasti, ma per capire suggerimenti, idee, contenuti, proteste, denunce. Non si può prescinderne. Nel mio film accade. Basta ricordare con una immagine gli effetti delle diverse forme di distruzione negli ambienti violati ed ecco emergere subito un terribile vuoto, un desolante spettacolo. Ecco che con poco si crea un vuoto che diventa “il” discorso, ovvero il mezzo per stabilire la storia e le storie che il nostro Paese offre a piene mani ai nostri occhi. Le città e i panorami contrastanti sono drammatici, tra violenza e incuria; in molte città e soprattutto nelle periferie o nei paesi abbandonati a un’incuria inarrestabile. Il “brutto” si vede forse più del “bello”, in Italia e nel mondo, a causa della pianificazione spesso invisibile e continua, nelle distruzioni non solo del gusto ma dell’ambiente in cui viviamo. Lo scrive James Hillman che addirittura osserva che ci siamo abituati, anche noi, al “brutto” e non ce ne liberiamo. “1200 KM DI BELLEZZA” è costellato da scene di questo tema. Il tema dello spregio del “bello” soffocato dal “brutto” sistematico. Nel film ci sono riprese girate appositamente in luoghi come L’Aquila in cui i terremoti hanno lasciato impronte drammatiche: una bella e grande città ingabbiata dai tubi innocenti, tubi colpevoli di ricordare troppo a lungo dolori e sofferenze. Gabbie che ci sono, ma che spesso non vediamo. Liberare la bellezza, ecco lo scopo del film.