...voglio caro Nanni

3 Febbraio 2012

Io non sono capace di raccontare il Nanni Ricordi pubblico, il discendente della famiglia storica che nei primi ‘800 fondò la leggendaria Casa Ricordi, quella che fece conoscere al mondo la musica di Rossini, Donizzetti, Bellini, Verdi, Puccini e altri, e che nel 1840 mise le basi di ciò che ora viene chiamato diritto d’autore, tutelato in Italia e poi internazionalmente. Il Nanni Ricordi che negli anni ‘50 creò la Dischi Ricordi S.P.A. incidendo il primo disco della Callas, il rampollo dell’alta società milanese un po’ pioniere un po’ visionario che con le sue brillanti intuizioni ha dato spessore alla musica leggera italiana, che ha scoperto, lanciato, collaborato o prodotto alcuni tra i più grandi di quel periodo: Umberto Bindi, Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Ornella Vanoni, Michele, Ricky Gianco, Gianfranco Manfredi, Lucio Dalla, Giovanna Marini, Lucio Battisti, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Ivan Cattaneo, Antonello Venditti, Gianna Nannini, Paolo Conte e altri meno noti.

“Che Nanni fosse scopritore di talenti”, ricorda Ennio Morricone nel libro Ti ricordi Nanni? (Claudio Ricordi, Excelsior 1881, 2010), “lo sapevano tutti, ma che avesse in mente una rivoluzione nella canzone italiana, non molti lo sanno. L’invenzione dei cantautori è sua. Sua è la riconsiderazione dei temi melodici e dei testi poetici verso una libertà (soprattutto nei testi) che superasse in tutto la routine nella quale era caduta la canzone italiana, escluso qualche raro caso”.
 

Ricorda invece Conte: “Per la mia canzone Dal loggione Nanni mi procurò un coro infantile della parrochia del paese vicino, e lui stesso, imbracciato il microfono, mi regalò una splendida risata da baritono che diede al brano proprio l’ambientazione che desideravo. Non è da tutti il privilegio di avere, su un brano come quello, di ispirazione verdiana, il sigillo sonoro di Casa Ricordi”.
 

Tutte notizie riportate dai media all’annuncio della sua morte in mezzo ad aggiornamenti convulsi sulla Concordia appena affondata. Per me lui era solo il Nanni, mio zio, una persona che ho visto da quando son nata e che ha avuto un peso in ciò che son diventata. Ammiravo il suo impeto vitale, il suo andar controcorrente, la sua cultura e la sua semplicità, e forse più di tutto, il suo animo beffardo e festaiolo. Gli abbiamo dato l’ultimo simbolico saluto sulle colline del Monferrato in un paesaggio cristallizzato dal gelo improvviso di questo gennaio anomalo, un manipolo d’amici e parenti con la gente del paese che l’ha accolto negli ultimi anni. Era molto malato, bloccato in un corpo che da tempo non rispondeva più. Ci siamo visti quando ancora i suoi occhioni di drago erano in grado di comunicare, so che ha sentito tutto l’affetto e la gratitudine che gli porto. Tra le istruzioni scritte lasciate ai familiari, oltre a dissuaderli da celebrazioni, anunci sui giornali, ecc, ha detto con l’abituale autoironia: “Se vogliono, possono scrivere su di me e sulla meravigliosa persona che ero...”

 

 

Viaggio oltrecortina

 

Nanni era un tipo autentico, diceva e faceva quel che gli passava per la testa senza tante balle, si godeva la vita e amava moltissimo la compagnia. Aveva anche un lato iracondo, prepotente, nelle discussioni non mollava l’osso neanche a morire; invecchiando, però, quest’aspetto s’è smussato sempre più lasciando posto a una dolcezza insospettabile, e anche molta saggezza. Tra noi c’è sempre stata buona onda, fin da bambini io e i miei fratelli l’avevamo inserito nel “clan dei giusti”, cioè adulti con cui s’instaurava una sorta di complicità, che in qualche modo ci capivano o spalleggiavano. Gli volevamo bene perché le sparava grosse e ci faceva ridere, non aveva paura di nessuno e poi era comunista.

 

L’estate del ‘71 decise di visitare in macchina con la famiglia i paesi dell’Europa dell’Est e m’offrirono d’unirmi alla comitiva, Neanche per idea!, disse mio padre in prima battuta, faceva sempre così, io isterica a insistere che me lo meritavo, m’avevano appena promossa all’esame di 3° media, “Sì, col minimo”, replicava lui. Non so come alla fine riuscii a strappargli l’agognato SI; probabilmente merito di sua sorella che lo fece ragionare: che sarà mai un piccolo viaggio con zii e cugini? Ero al settimo cielo, finalmente avrei potuto stare un bel po’ coi miei cugini di Milano che vedevo solo nelle vacanze di Natale e di Pasqua.

Vennero a prendermi a Udine, attraversammo l’ex Jugoslavia per passare in Bulgaria fino alla costa, risalire in Romania, su ancora in Ungheria e poi ritornare in Friuli dall’Austria. Da piccola pazza qual ero, nelle prime tappe di quella meravigliosa avventura lontana dai genitori, mi scatenai. A Sofia, dopo la cena in un ristorante caratteristico con tanto di violini zigani, danze del fazzoletto e bicchierini che scolavo nonostante le proteste di mia zia, feci rientro in albergo in braccio a mio cugino Cam, ridendo sguaiata e tirando calci alle porte delle camere lungo il corridoio, col preciso intento di svegliare qualche giocatore della nazionale di pallacanestro cubana. Li avevamo visti il pomeriggio nella hall, io e mia cugina eravamo rimaste abbagliate dalla loro bellezza.

 

La nostra esplorazione familiare oltrecortina durò quasi un mesetto, visitammo un sacco di posti, ma nella memoria stagna una nebbia totale in quanto a musei, chiese e rovine. Ricordo invece la carne di maiale alla brace e i peperoni, lo yogurt che si diceva kisselo mliako, chissà perché proprio e solo quel nome m’è rimasto stampato indelebile a distanza di trent’anni. Ricordo la povertà della gente nelle città, un ragazzo che pregava mio cugino di vendergli i jeans che aveva addosso, la passeggiata di notte nel centro di Bucarest e i tipetti loschi che ci tampinavano per cambiare i soldi alla borsa nera; ricordo un corpo femminile bianchissimo uscire da una tinozza di legno in una pensione d’una piccola città rumena e le contadine dai foulard fioriti tra le gole verdi dei Carpazi; ricordo le case di legno, quel paesaggio imponente, selvaggio e misterioso, la terra di Dracula, brrrrr, io e mia cugina vedevamo vampiri dappertutto.

E ricordo noi tre cretinetti che dal sedile posteriore dopo un po’ non guardavamo più niente, ottenebrati, come i ragazzi adesso con le playstation, dalle sfide a “bol e straik”, così chiamavamo il giochino, una specie di battaglia navale ma più difficile. E in più, a un certo punto, ricordo che attacchiamo a litigare per un piffero che il Cam s’è comprato a un mercatino e che io e Marella abbiamo nascosto per fargli dispetto, rompeva troppo con le scalette. Vola qualche ceffone, urla acutissime e insulti, parapiglia, Nanni inchioda: “Giù tutti!”, grida furioso. Un cazziatone della madonna, l’eco del suo vocione da opera s’espande nel silenzio della montagna, non passa nessuno. Che siamo dei coglioni, che invece d’ammirare posti fantastici che forse mai più avremo occasione di vedere (infatti), non alziamo la testa da un giochino del cazzo, ecc ecc. Noi muti. Blocchetti e biro requisiti, piffero lanciato nel burrone, tutti in macchina di nuovo, silenzio di tomba. Il Cam incazzatissimo pensa a come vendicarsi, noi due streghe tratteniamo a stento le risate.

 

E come potrei dimenticare la notte a Nessebar e i gabbiani del Mar Nero? Arriviamo all’imbrunire nel piccolo albergo sulla spiaggia indicato sulla guida, stanchissimi dopo aver macinato centinaia di chilometri, soprattutto Nanni che guidava. Facciamo un breve giro sul lungomare, ceniamo e dritti a nanna. Ma prender sonno è impossibile, strilli sgraziati e lancinanti di migliaia di gabbiani ci assediano in un’atmosfera hitchcockiana tutt’altro che distensiva. Poi è cominciata la festa. Giù in sala s’era visto un certo fermento, allestivano delle gran tavolate fiorite. Per un banchetto di matrimonio, ci aveva spiegato il cameriere. E alla faccia del banchetto! Hanno gozzovigliato ad oltranza tutta la notte in un crescendo di urli, risate e discussioni animate, canti e balli balcanici, un’orchestra di violini impazziti e fiati, e più andava avanti la notte più s’alzavano i decibel della baldoria.

All’alba Nanni non ha retto più, s’è tirato su dal letto bestemmiando e ha fatto irruzione in mezzo alla festa così com’era, spettinato e in mutande. Mia zia dice che erano calzoncini ma io ho in mente i tipici slipponi bianchi coi fianchi alti che s’usavano negli anni ‘70, ma poco importa, noi tre ragazzetti sotto le lenzuola ci siamo spanciati fino alle lacrime: scendere in mutande! Ai tempi quel gesto ci parve il colmo della sfacciataggine, qualcosa di eccezionale; noi non l’avremmo fatto neanche sotto minaccia. Ci arrivava dal piano inferiore la sua voce tonante che reclamava il diritto a dormire, e noi giù a ridere, “Shhhhh!!! Se ci sente ci ammazza!”, e tanto bastava per farci ridere ancora di più, il lenzuolo sopra la testa. Immaginavamo le facce attonite dei gitani che per un attimo hanno abbassato il volume... per riprendere i giochi mentre ancora stava risalendo le scale.
 

 

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